A.A.V.V.
You Can Never Go Fast Enough
Plain Recordings
“Uno spaccato dell’America come terra di nessuno […] il road movie [come] agghiacciante metafora di solitudine e di vuoto esistenziale”. Così Paolo Mereghetti, nel suo Dizionario dei Film, sintetizza il senso di Strada A Doppia Corsia (Two-Lane Blacktop), film del 1971 diretto dal grande Monte Hellman e con protagonisti Warren Oates e, i certo a voi ben noti, James Taylor e Dennis Wilson. Il film narrava le gesta di due spiantati californiani girovaganti sulle strade d’ America e perennemente coinvolti in gare clandestine, impegnati appunto in una di queste con il pilota di una Ferrari GTO; posta in palio, la macchina stessa. Presto però, perderanno tutti interesse per la gara e ciascuno di loro – che nel film non hanno neanche nome – riprenderà la propria strada. A metà 2003, a due anni di distanza dall’analoga operazione I Am A Phographer, la Plain Recordings di San Francisco mise in piedi un album tributo per un film, Two-Lane Blacktop per l’appunto (dove il disco precedente lo era per Blow Up di Antonioni). Ne venne fuori un altro oggetto, per certi versi inedito o comunque difficilmente classificabile. Le musiche contenute nel CD, per la maggior parte mai pubblicate prima, furono composte dai musicisti in base alle sensazioni provocate dal film e concepite non come puro commento per le immagini, ma più come trasposizione musicale delle immagini stesse, come una sorta di doppio transfert – dall’immagine al suono e di nuovo all’immagine – e di feedback emotivo. In I Am A Photographer tutto ciò prendeva la forma di un disco quasi schizofrenico dove gli accostamenti musicali avevano del radicale, passando dal free-jazz all’elettronica, dall’avanguardia al rock, e nello stesso tempo però, riuscendo a mantenere un’unità notevole che gli impediva di sembrare una compilation raffazzonata (ovviamente anche perchè la qualità delle musiche era comunque alta). You Can Never Go Fast Enough si palesò invece come decisamente più coeso, andandosi a cristallizzare intorno ad un suono da frontiera Americana e proponendo, come ora vedremo, un cast stellare. Ad aprire le danze con uno splendido strumentale di gusto bluegrass (Little Maggie), una delle tre assolute leggende del disco, Sandy Bull. Le altre due sono Roscoe Holcomb, presente con Boat’s Up The River e Leadbelly con Stewball. Don’t Cry Driver è un lungo pezzo country-rock, in larga parte recitato, nato dalla collaborazione tra Will Oldham e Alan Licht. Alvarius B (nome dietro il quale si cela Alan Bishop dei mitici Sun City Girls) è alle prese con un evocativo bozzetto acustico mentre i Calexico riescono, come solo a loro riesce, a catapultarci nell’immensa solitudine del deserto del South-West (No Doze, una versione strumentale del pezzo omonimo, cantato, contenuto nel loro Feast Of Wire). Un arpeggio di chitarra, delle percussioni spazzolate, un filo d’organo e il tocco di un piano su cui Jeff Tweedy canta con dolce indolenza: è la bella Old Maid dei Wilco. La Lazy Waters di Steffen Basho-Junghans è invece un’ariosa melodia faheyana che precede l’unico pezzo a mio parere un po’ fuori posto all’interno dell’album, ossia la What The Girl Didn’t Say messa assieme da Mark Eitzel e Marc Capelle. Non che sia necessariamente un brutto pezzo, ma chiusa tra Basho-Junghans e Holcomb, quest’elettronica ambient-rumorista stride non poco. La Parallels dei Suntanama parte come un pezzo post-rock acustico, per poi lasciare spazio a delle aperture dal feeling agreste (post country?). I Giant Sand sono presenti con Vanishing Point, allucinata border song da insolazione psichica, mentre i Charalambides evocano fantasmi notturni persi nella polvere rovente. Strepitosa la strumentale Loop Cat dei Sonic Youth: l’orizzonte infinito, un treno in lontananza e uno struggimento difficile da contenere, l’infinitezza che si ripercuote in un futuro senza uscita, tutto in 5 minuti e 37 secondi. La radicale, disossata e coraggiosissima rilettura di Satisfaction ad opera di Cat Power la conosciamo tutti. Precede la cavalcata elettrica ad opera di Roy Montgomery, che pone sugello a questo bellissimo, intenso disco. Oggi, You Can Never Go Fast Enough, si trova ancora, magari con un pizzico di sbattimento, in qualche negozio che ne ha conservato qualche copia o in rete, dove è possibile downloadarlo o acquistarlo a prezzi decisamente contenuti (partite da qui, ad esempio). Il disco, l’avrete capito, un recupero se lo merita alla grande.
Lino Brunetti