TESORI DISSEPOLTI: LADDIO BOLOCKO “The Life And Times Of Laddio Bolocko”

LADDIO BOLOCKO

The Life And Times Of Laddio Bolocko

No Quarter Records

Passarono come una fulgida meteora nel panorama underground statunitense, i newyorchesi  LADDIO BOLOCKO. Nei tre anni che li videro scorazzare selvaggiamente per i palchi d’America,  pubblicarono due album e un EP. Nel 1997 uscì il devastante album d’esordio Strange Warmings Of Laddio Bolocko, mentre nel 1998 fu la volta di In Real Time e del mini As If By Remote, in seguito tutti riuniti in questo doppio CD che andiamo a riscoprire, con l’aggiunta di un interessante video di As If By Remote girato da Aran Tharpe. Genericamente inseriti in quel filone del post-rock denominato math-rock, in realtà i Laddio Bolocko erano molto di più. Guidati dall’ex Dazzling Killmen, Blake Fleming (la line-up era completata da Drew St.Ivany, Ben Armstrong e Marcus Degrazia), la musica del gruppo era un enorme centrifuga dove derive kraute di marca faustiana si sbrindellavano in spasmi free-jazz e dove il math aveva le cadenze di un minimalismo progressivo. Il tutto incastonato in lunghi, apocalittici brani strumentali, dove le scansioni ritmiche della batteria di Fleming facevano la parte del leone. Il primo CD ripropone l’album d’esordio, quello maggiormente d’assalto, in cui ritmi distorti si appaiano a rasoiate chitarristiche, il rumorismo elettronico si muove di pari passo ai fiati free (ad esempio nella fulgida, incredibile Dangler), dove i pezzi assumono le fattezze di epocali moloch quali la lunghissima, devastante Y Toros. Meno parossistica la musica contenuta nel secondo disco, dove sono contenuti il secondo album e l’ep. Pur non rinunciando allo sperimentalismo, anzi per certi versi andando proprio in quella direzione, in questi pezzi i Laddio Bolocko avevano notevolmente diminuito l’impeto sonoro in favore di sonorità più varie, come dimostrano i tocchi di piano di Karl, le stupite melodie kraute di A Passing State Of Well-Being, l’ironica idea di pop di Laddio’s Money (Death Of A Pop Song) o le chitarre acustiche in odore di folk presenti in Wallkill Creek Survival. Un gruppo immenso i Laddio Bolocko, scomparso decisamente troppo presto e che vale certamente la pena (ri)scoprire, aspettando nuove dai Psychic Paramount, il più recente gruppo di St.Ivany e Armstrong, di cui vi ricordo almeno il memorabile II, uscito all’inizio del 2011. Il doppio CD in questione ci permetteva di poter rimetter mano all’intera discografia della band, giacché gli originali, non arrivando fra tutti neanche a cinquemila copie complessive, sono da tempo materiale per collezionisti. La solita, piccola ricerca in rete, vi permetteranno di farlo vostro. E’ comunque in vendita anche nella sezione shop del sito dell’etichetta.

Lino Brunetti

JACKIE-O MOTHERFUCKER “Flags Of The Sacred Harp”

JACKIE-O MOTHERFUCKER

Flags Of The Sacred Harp

Fire Records/Goodfellas

Per il loro nono album – non contando live e split  – i Jackie-O Motherfucker andarono diretti alle più antiche radici del folk sudista americano, andandosi a riallacciare nientemeno che alla tradizione del Sacred Harp, famosissimo songbook di inni sacri e canti corali da eseguire a cappella, raccolti e pubblicati da Benjamin Franklin White e Elisha J. King nel 1844. Antenata del Gospel, la tradizione legata a questi canti è tutt’ora viva tra le comunità protestanti del Texas, della Florida, della Carolina, dell’Alabama e della Georgia, gli stati in cui nacque e prosperò. Il gruppo di Tom Greenwood (voce, chitarra e giradischi) – come al solito attorniato da molti e variabili musicisti, tra cui, in quest’occasione, si distinguevano per importanza vecchie conoscenze come Honey Owens (chitarra, voce e tastiere) e Nester Bucket (voce e fiati), nonché il chitarrista Adam Forkner – è stato da sempre vicino alle tradizioni più ancestrali della musica americana, fosse esso il folk, il blues, il country, il jazz, generi centrifugati e rimescolati in una musica unica, spesso per nulla facile ed anzi piuttosto ostica, specie per chi non abituato a frequentare molto i territori del rock più avanguardistico. Flags Of The Sacred Harp, che non diremmo certo un disco tradizionale o “pop”, si segnalo però all’epoca come il loro album maggiormente song oriented, il loro più “avvicinabile”, quello che in qualche modo diede il via ad opere più “malleabili” come i seguenti Valley Of Fire e Ballads Of The Revolution. Soprattutto, ed è ciò che più conta, era ed è un disco bellissimo, probabilmente il loro capolavoro. Come si diceva, questa non era la prima volta che i JOMF guardavano al passato remoto; già uno dei loro dischi più belli, “Fig.5”, per portare un esempio eclatante, conteneva la loro rilettura di due classici del gospel e del folk quali Amazing Grace e Go Down Old Hannah. Proprio quest’ultima si rifaceva quasi alla lettera allo stile delle Sacred Harp Songs, cosa che, parrebbe un paradosso ma non lo è, non avviene in questo album, dove quella tradizione viene ripescata più come attitudine, senso di spiritualità, purezza d’intenti, che non come “lettera” (anche se quattro pezzi su sette sono traditional). Rispetto agli altri dischi la novità più grossa – oltre alla presenza, per la prima volta, di un co-produttore, Mark Bell, in passato dietro alla consolle per gente come Radiohead, Depeche Mode, Bjork (non lasciatevi ingannare da questi nomi, qui il suono è distante anni luce da questi artisti) – stava nei bellissimi duetti tra Greenwood e la Owens, in magmatici pezzi di country-rock psichedelico ed espanso come l’iniziale, stupefacente Nice One o come in altre bellissime canzoni come Rockaway o Hey! Mr Sky. Un pezzo come Good Morning Kaptain sembra una sorta di blues antidiliviuno, ripetitivo, ipnotico, calato in una specie di ossessiva circolarità. Rimangono poi i pezzi più sperimentali, lunghi mantra psichedelici, allucinazioni mentali pinkfloydiane, trip acidi di carattere quasi metafisico; il crescendo mistico di Spirits, l’espansa visionarietà con cui vengono trattati due traditionals come Loud And Mighty o come The Louder Roared The Sea, attraversata da speziature elettroniche di sapore cinematico. Un grandissimo disco Flags Of The Sacred Harp, uscito sul finire del 2005 per ATP Recordings e che a metà luglio, la sempre più benemerita Fire Records, riporterà nei negozi con una fiammante ristampa (nessuna bonus track). Prenotate fin da ora la vostra copia!

Lino Brunetti

 

BUON COMPLEANNO FOOLICA RECORDS!

Davvero ottima e da non perdere l’iniziativa di Foolica Records, una delle migliori label indipendenti italiane, che, in occasione del suo quarto compleanno, solo per la giornata del 5 maggio 2012, permetterà di scaricare gratuitamente i primi quattro LP dell’etichetta!

Ma lasciamo direttamente a loro la parola:

Il prossimo 5 maggio, data scolasticamente rilevante (chi non ha perso più di qualche ora sul Manzanarre o sul Reno…?) cade anche il quarto compleanno della nostra etichetta.
Dato il momento piuttosto difficile, già il fatto di esserci ancora sarebbe rilevante, ma nell’occasione del quarto genetliaco, vogliamo festeggiare come si deve e far si che anche i nostri appassionati followers abbiano una ragione per festeggiare con noi.

Abbiamo quindi deciso che dalle 00.01 di sabato 5 maggio fino alle 23.59 dello stesso giorno (se venerdì notte avete fatto tardi, non preoccupatevi.. c’è tutto sabato per scaricarli!) collegandovi al nostro sito www.foolica.com troverete le istruzioni per riceverete GRATIS i primi 4 album della Foolica in MP3.

Si tratta di: Keep Clear dei VickersInspiration Is Not Here dei CAMERA237, Kumar Solarium dei Did e De Fauna Et Flora dei The R’s.
Gli album che hanno segnato, e positivamente, l’inizio della nostra storia.

Festeggiate insieme a noi e non perdete l’occasione di avere i primi 4 album in free-download!

THE PHONOMETAK LABS ISSUES vol. IX e X

WALTER PRATI & EVAN PARKER/LUKAS LIGETI & JOAO ORECCHIA

Phonometak #9

PAOLO CANTU’/XABIER IRIONDO

Phonometak #10

Wallace/Audioglobe

Con i volumi IX e X (questo secondo, fresco di stampa), si chiude la cosiddetta serie gialla, messa assieme tramite lo sforzo congiunto di Wallace Records e Phonometak Labs. L’intera serie è composta da dieci split album (in vinile 10″, tiratura limitata e numerata di 500 copie), il cui unico imperativo è sempre stato la più totale libertà, senza preoccuparsi troppo di seguire una linea precostituita che non fosse, semplicemente, quella di pubblicare grande musica. Ed è così che negli otto volumi precedenti si è passati dall’avanguardia al doom, dal jazz alle sperimentazioni rock e così via, spesso all’interno dello stesso LP. Tanti i nomi importanti che si sono susseguiti, sia italiani che internazionali: gli Zu (con Iriondo) e gli IceburnMats Gustaffson Paolo Angeli, gli OvO e i Sinistri (ancora una volta con Iriondo), Damu Suzuki (con Metak Network e con gli Zu), i Talibam! e i Jealousy PartyGianni Gebbia Miss Massive Snowflake, il trio Uchihasi KazuhisaMassimo PupilloYoshigaki Yasuhiro e gli On Fillmore, gli Scarnella di Nels Cline Carla Bozulich ed i Fluorescent Pigs. Nel nono volume della serie, il primo lato è occupato dalla collaborazione tra il sassofonista (al soprano) Evan Parker ed il compositore e ricercatore musicale Walter Prati (electronics, violoncello), già in passato protagonisti pure in un progetto musicale che vedeva coinvolto Thurston Moore dei Sonic Youth. Due tracce, la prima registrata durante una performance al Vancouver Jazz Festival del 2004, la seconda, invece, a Risonanze, a Venezia, datata 1999: The Western Front espone un serratissimo fraseggio di sax, mescolato alle infiltrazioni degli electronics, in modo da dar vita ad un sound brulicante e densissimo; più nebulosa e sospesa è invece Sonanze, decisamente più cinematica ed evocativa, tanto da guidare l’ascoltatore in un paesaggio indistinto, misterioso, fumoso. Sul secondo lato ci sono invece tre tracce fuoriuscite da una session tra Lukas Ligeti (batteria, microfoni) ed il sudafricano Joao Orecchia (electronics, chitarra, armonica, voce). Tre tracce, le loro, che pongono l’enfasi sui ritmi dettati dalle bacchette di Ligeti, attorno ai quali si attorcigliano le folate soniche in bilico tra avant, jazz e sperimentazione rock di Orecchia. In un pezzo come Fox paiono farsi avanti anche delle derive etno che aggiungono ulteriore carne al fuoco. Per il capitolo finale della serie si è, giustamente, deciso di giocare in casa: i titolari dell’ultimo split sono il proprietario stesso di Phonometak Labs, l’Afterhours e molto altro Xabier Iriondo, ed il suo compagno di mille avventure (Six Minute War Madness, A Short Apnea, Uncode Duello, gli ultimi Tasaday), Paolo Cantù. Quattro tracce, sul primo lato, per quest’ultimo, due sul secondo per Iriondo. L’idea di partenza, qui, per le musiche di entrambi è simile, è sta nel far interagire field recordings e reperti etnografici con nuova musica di matrice avant rock/elettronica. Sono assai diverse, però, le modalità che i due utilizzano: Cantù, armato di chitarre, clarinetto, batteria, sanza, organo, zither, voce, electronics e tapes, utilizza le registrazioni del passato come elementi d’arrangiamento, quindi come parti di nuove canzoni vere e proprie, ottimamente orchestrate e musicalmente d’incredibile fascino. Iriondo fa qualcosa di diverso: prende vecchie gommalacche a 78 giri, con registrazioni di vecchi jazzettini, canti delle mondine, voci e ne fa dei collage su cui poi interviene con svantagliate noise e ritmiche sfrangiate e destabilizzanti, creando dei cortocircuiti tra passato e presente di notevole impatto. Una chiusa, insomma, davvero ottima per l’intera serie che, ci auguriamo, possa essere un giorno raccolta in un unico cofanetto, magari anche in CD.

Lino Brunetti