RUSH
Clockwork Angels
Roadrunner
Inutile stare qui a raccontare la storia dei Rush. Se non li conoscete vi siete persi un piccolo pezzo di storia, altrimenti saprete già tutto. Altrettanto inutile decantare le strabilianti doti tecniche dei tre, che presi singolarmente, Geddy Lee basso, Alex Lifeson chitarra e Neil Peart, batteria, potrebbero benissimo entrare tra i top ten di sempre dei singoli strumenti. Quello che conta è sapere se i canadesi hanno ancora senso, se hanno ancora forza, se un loro nuovo disco può essere nel 2012 (mancano “solo” cento anni al 2112) ancora accettato. Beh, dopo Vapor Trails, appena decente, e Snake and Arrows, mediocre, la risposta è sì, perche i tre hanno deciso di ritornare la polveriera infuocata che fu, con i distinguo del caso, ci mancherebbe, ma comunque ancora in pista e decisamente pimpanti. Addirittura la potenza che immettono in questo nuovo lavoro è addirittura eccessiva in alcune occasioni, quasi a voler rimarcare ossessivamente che non sono dei vecchi rammolliti. Clockwork Angels è un concept, e fin qui ci stà, dalla storia complicata e fantasiosa fatta di alchimisti, ladri, orologiai implacabili, e qui ci sta un po’ meno, ma i testi di Peart riescono comunque a sorprendere e probabilmente pubblicherà addirittura un libro su questo argomento. Caravan apre le danze e il primo sussulto è servito perché l’inizio è molto simile alla suite di 2112, chitarre e atmosfere sono vecchio stile ma gli squarci melodici sono figli dei loro dischi degli anni novanta. BU2B ha un durissimo riff di chitarra e Geddy Lee incornicia armonie vocali di vecchia data. Che tutto l’armamentario sonico qui presente sia prodotto da un trio sembra incredibile, e non è che la versione in studio sia diversa da quella live, perché se li avete visti dal vivo sarete sicuramente rimasti a bocca aperta nel sentire uscire questà enorme quantità di suoni esplodere dagli amplificatori. Canzoni figlie dei loro dischi di tarda carriera (Roll The Bones, Presto) stanno nel bel mezzo del guado tra pesantezza e melodia, così sono abilmente costruite The Garden, lenta ma non troppo, The Wreckers e Carnies. Poi si dà ampio spazio a quegli anthem hard rock secchi e taglienti che spesso popolavano i loro primi lavori: The Anarchist è indiavolata, Wish Them Well è più standard ma esaltante nella progressione. Halo Effects ricorda per costruzione l’indimenticabile Closer To The Heart, ma nel computo generale del disco, e sono le canzoni che lo rendono decisamente più appetibile degli ultimi loro, ce ne sono almeno tre che hanno una marcia in più. Clockwork Angel si dipana su parti tranquille contrapposte ad altre più dure, il ritornello risulta un po’ forzato, quello sì, ma la sezione ritmica impressionante e un assolo di Lifeson che si tuffa nel blues sono accattivanti. Seven Cities Of Gold ha un giro di basso iniziale che è uno spettacolo e Lee in questo è un maestro, una chitarra liquida che deborda in un riff alla Tom Morello, e questi sono i Rush che non si sentivano da molto tempo, mentre Lifeson ancora imperversa. Headlong Flight è la più bella, ricorda da vicino Freewill e le atmosfere di Permanent Waves, violenta e ben costruita, dallo spaziale drum kit di Peart provengono un’infinità di suoni e la chitarra di Lifeson è semplicemente devastante, un vero mago del suono. Quindi, dopo aver fatto qualche somma, Clockwork Angels passa a pieni voti la prova del tempo, restituendoci anche in studio un gruppo che ancora riesce a mettere insieme i cocci del proprio passato con dignità, dal vivo non l’hanno certo mai persa ed ora sono pronti a mettere ancora sotto scacco i propri fans con il prossimo tour.
Daniele Ghiro
