MATTEO TONI “Santa Pace”

MATTEO TONI

Santa Pace

Still FizzyLa Fabbrica/Venus

MATTEO TONI è un cantautore ed eccellente chitarrista che avevamo già conosciuto, sulle pagine del Backstreets cartaceo, ai tempi del suo primo EP. Santa Pace è il suo esordio full lenght e, non solo mostra dei notevoli passi in avanti rispetto all’EP, ma si segnala come un ottimo album tout court. Prodotto da “Cooper” Cupertino e suonato da Toni (voce, chitarra weissborn, lap steel, banjo, armonica, glockenspiel, organo Hammond) con il solo aiuto di Giulio Martinelli (batteria), Santa Pace ci mostra un autore libero da costrizioni e non più ostaggio dei referenti ancora fin troppo evidenti nell’EP. Ora il suo songwriting e la sua abilità agli strumenti sono liberi di fluire in un cantautorato che oscilla tra i suoni duri e oscuri di Bruce Lee vs. Kareem Abdul-Jabbar e Isola Nera, le atmosfere solari della title-track (che ci fanno pensare ad una sorta di Jack Johnson all’italiana), i toni dolcemente intimi di Acqua Del Fiume, il blues psichedelico di una bellissima Fidati o di una Melodià che, più che Ben Harper, fa venire in mente un Chris Whitley particolarmente selvaggio. Le sue chitarre weissborn – suonate ovviamente da seduto e col bottleneck – svisano tracciando melodie, riff e solos, mentre anche come cantante dimostra di possedere una certa personalità. Disco davvero eccellente, insomma, ed un autore da tenere d’occhio.

Lino Brunetti

TWOAS4 “Audrey In Pain English”

TWOAS4

Audrey In Pain English

twoas4

La prima cosa che salta all’occhio – specie considerando che si tratta di un’auotoproduzione – è l’estrema cura data all’oggetto: il CD è inserito in una confezione in cartoncino, a sua volta posta all’interno di una busta tipo carta da pacchi. Ad accompagnare il tutto, un corposo libretto colmo d’appunti, atti ad integrare la parte musicale, compito riservato anche ad un’ulteriore foglio apribile a fisarmonica, dove sono riprodotti dei disegni, uno per ciascuna delle 10 canzoni. Credono in quello che fanno i twoas4 Oscar Corsetti (voce, chitarra, basso) e Alan Schiaretti (batteria e tastiere), più alcuni ospiti – che qui esordiscono con un disco prodotto da Paolo Mauri. Il loro suono sta da qualche parte tra la New Wave dark anni ’80, da cui ereditano un certo romanticismo e certe linee di basso e chitarra, ed il binomio Sonic Youth/Blonde Red Head. Registrato quasi interamente live, Audrey In Pain English, sconta al momento una scrittura ancora piuttosto acerba, specie in rapporto all’evidente disegno ambizioso. Le cose migliori, curiosamente, vengono da un quartetto di canzoni messe una in fila all’altra: la sentita ed elegiaca If I Had Now, il duetto con Christina Lubrani in Simplicity, il vigore ed il fraseggio pianistico di Amazing Lie, la psichedelia elettrico-rumorista, stile primi Mercury Rev, di So Captured. Il resto, invece, fatica un po’ ad emergere realmente e, spesso, suona un po’ monocorde e non del tutto a fuoco. Una piccola considerazione per concludere: ok autodefinirlo pain english, ma l’inglese con cui sono cantate quasi tutte queste canzoni, è, nell’insieme, solo imbarazzante.

Lino Brunetti

LUCIANO MAGGIORE – FRANCESCO FUZZ BRASINI “Chàsm’ Achanès” + “How To Increase Light In The Ear”

LUCIANO MAGGIORE – FRANCESCO FUZZ BRASINI

Chàsm’ Achanès

How To Increase Light In The Ear

Boring Machines

Per tutti gli appassionati di drone music, il disco allestito, poco più di un anno fa, a quattro mani da LUCIANO MAGGIORE e FRANCESCO FUZZ BRASINI, Chàsm’ Achanès, fu un must assoluto ed un’esperienza sonora al limite del mistico. Allestito un set in una vecchia fabbrica con un organo a ventola, diversi tape recorder, tre chitarre e due ampli ad alta potenza, i due avevano iniziato ad improvvisare sfruttando il riverbero e gli echi naturali dell’ambiente. Delle quattro ore di materiale registrato, quello finito sul dischetto era il risultato dell’ultima take, captata in presa diretta. Come suggeriva il titolo – che deriva dal greco antico e, attraverso le parole di Parmenide, indica le profondità del caos sconfinato – la musica contenuta in Chàsm’ Achanès, era un magmatico sprofondare tra onde sonore senza confini e dai margini indistinti, dove l’organo risuonava come la sirena di una nave persa in una mare fumoso e fantasmatico, e dove lo sfrigolio delle chitarre e degli apparecchi elettronici ci risucchiava in abissi misteriosi e dal fascino imponderabile. Tra trance minimalista ed espressionismo estatico, i drones di Maggiore e Brasini ci guidavano in un territorio dove non c’era posto per le parole e le spiegazioni, ma solo per l’abbandono ai sogni dei propri sensi. Luciano Maggiore – musicista e filmmaker classe 1980, dedito alle sperimentazioni tramite nastro magnetico e apparecchiature elettroniche – e Francesco Brasini – chitarrista ed investigatore sonoro, ben conosciuto nell’ambito delle musiche di ricerca, visti i suoi numerosi lavori dagli anni ’80 ad oggi – oggi tornano con un nuovo lavoro che, in qualche modo, va a completare quanto fatto col disco precedente. Se in Chàsm’ Achanés erano state scandagliate soprattutto le basse frequenze, in How To Increase Light In The Ear è la volta di lasciare spazio in modo particolare a quelle alte. L’album è composto da due lunghi drones senza titolo, per una durata totale di oltre 50 minuti, dove i suoni si stendono come un flusso fatto di overtones, risonanze, armonici tintinnanti, melodie fatte di microtoni che s’intrecciano fra di loro con l’intento di creare un mood mantrico e luminoso. E’, ancora una volta, musica altamente emotiva, ai limiti dello spirituale, apparentemente fatta quasi di un nulla ma, al contrario, talmente densa da azzerare qualsiasi barriera. Un disco che, come suggerisce il titolo, è come se ci guidasse verso un universo in cui è di casa solo lo splendore accecante delle stelle. Per realizzarlo sono stati usati tape loops, electronics (Maggiore) e chitarre autocostruite (Brasini). Importante il contributo di Mattia Dallara quale ingegnere del suono.

Lino Brunetti

LA PIRAMIDE DI SANGUE “Tebe”

LA PIRAMIDE DI SANGUE

Tebe

Boring MachinesSound Of Cobra

Ha un fascino ineguagliabile questo disco de LA PIRAMIDE DI SANGUE, progetto nato sotto l’ombra della Mole Antonelliana, o forse dovremmo dire del Museo Egizio, per mano del multistrumentista (clarinetto, percussioni, chitarra, tastiere) Gianni Giublena Rosacroce (pseudonimo di Stefano Isaia dei Movie Star Junkies), raggiunto poi da membri di Love Boat e King Suffy Generator, tanto che oggi la band consta, oltre al clarinetto, di due chitarre, due bassi, batteria e synths. Pubblicato da Boring Machines, in collaborazione con la berlinese Sound Of Cobra, Tebe è il loro esordio (prima c’era stata solo una cassetta realizzata dal solo Rosacroce) ed esce con una tiratura limitata di 500 copie in vinile rosso. Immaginatevi un sontuoso mix di psichedelia, jazz etiope, suggestioni mediorientali e profumi mediterranei ed inizierete ad inquadrare la loro musica. Nelle sette canzoni di cui è composto l’album, registrate in un’unica take nel Blue Record Studio di Torino, la band dà vita a delle mirabolanti tracce strumentali in cui ritmi ipnotici e mantrici fanno da base ai fraseggi del clarinetto, al dialogo fra questo e le chitarre, le quali, a loro volta, portano una speziatura space-psichedelica che di tanto in tanto esplode in squarci elettrici ed esplosioni di wah-wah. Il potere suggestivo di queste musiche – per non dirne che una, ascoltatevi la tesa, potente e molto free-mediorientale, L’Invasione Delle Locuste – e l’abilità strumentale e compositiva della band, fanno di Tebe un disco immaginifico ed originale, che sarebbe un peccato imperdonabile perdersi. Consigliato a tutti quelli che sono capaci di viaggiare anche con la fantasia.

Lino Brunetti

DEISON “Quiet Rooms”

DEISON

Quiet Rooms

Aagoo Records

Il friulano Cristiano Deison, in arte semplicemente DEISON, ha alle spalle una carriera ventennale, inizialmente spesa tra Meathead e Cinise, poi sviluppatasi in solitaria, sia pur con rimarchevoli collaborazioni con artisti quali Thurston Moore, KK Null e Scanner. Il suo ultimo lavoro s’intitola Quiet Rooms e consta di quattro affascinanti composizioni in bilico tra ambient e drone music. Partendo da registrazioni sul campo captate in vuote stanze d’hotel, Deison ha costruito un’immaginifica soundtrack, capace d’evocare il senso d’isolamento e spaesata solitudine, così come d’estatica serenità che, a volte, le stesse possono provocare nel viaggiatore. I rumori che arrivano dall’esterno – un treno in lontanaza, un gatto che miagola, porte che si aprono e che si chiudono, telefoni che suonano – s’amalgamano ai lunghi drones emotivi, specchio degli stati d’animo che si vogliono raccontare, e dal corto circuito fra questi due elementi, paiono alla fine scaturire dei fantasmi o delle ipotesi di storie. Il disco intero, poi, pare seguire, a sua volta, una sorta di percorso circolare, partendo da suoni cupi ed ovattati e muovendosi sempre più verso visioni ascensionali ed estatiche, per poi, nel finale, tornare a farsi più refrattario alla luce, come se il racconto in questione, attraversasse una lunga nottata insonne, cedente al sonno solo poco prima dell’alba. Affascinante.

Lino Brunetti

WHY? “Mumps Etc.”

WHY?

Mumps Etc.

City Slang/Self

Per Yoni Wolf, in arte WHY?, (indie) hip-hop ha fatto sempre rima con pop. Nato in seno al collettivo dei cLOUDDEAD – un gruppo che non poco ha lasciato il segno nel rinnovamento di un linguaggio, quello dell’hip-hop appunto, che ha ormai più di trent’anni di storia alle spalle – Why? giunge al quarto album forte dei consensi ricevuti con i dischi precedenti, soprattutto quell’Alopecia, considerabile già un piccolo classico. Mumps Etc., che ha già fatto storcere il naso a qualcuno (vedi la sonora stroncatura di Pitchfork), prova in qualche modo a rinnovare la sua musica e di tentare nuove strade. Il connubio di melodie pop, indie ed hip-hop rimane la base del tutto, ma qui viene inserito in un contesto in cui si fanno largo pure un senso melodico di sapore sixties, quasi alla ricerca di una consapevole classicità, qualche vaga spolveratura jazzata, l’uso misurato, ma comunque caratterizzante, degli archi. Il tono è intimo e meno frizzante che in passato, tanto che il mood pare non cambiare mai troppo lungo le tredici canzoni in scaletta. Nell’insieme l’ascolto è piacevole, anche se sconta un po’ la mancanza di veri picchi o di brani realmente memorabili. D’altro canto, non si riscontrano neppure vere cadute di tono, ed il talento del Nostro non appare veramente appannato. E’ semplicemente uno di quei dischi un po’ interlocutori Mumps Etc.; mentre lo ascolti ti prende e ti fa battere il piedino, appena finisce, improvvisamente, scivola via.

Lino Brunetti

KING OF THE OPERA “Nothing Outstanding”

KING OF THE OPERA

Nothing Outstanding

La Famosa Etichetta Trovarobato/Audioglobe

Fino ad oggi, per veicolare la sua musica, il ventiseienne Alberto Mariotti aveva utilizzato lo pseudonimo di Samuel Katarro. Chiunque segua, anche solo distrattamente, la scena musicale indipendente italiana, non avrà potuto non imbattersi in questo nome, visto che i suoi due dischi – Beach Party del 2008 e The Halfduck Mystery del 2010 – sono stati tra i più chiacchierati ed osannati dalla stampa negli ultimi anni. Non un abbaglio critico, giacché davvero la miscela di blues, psichedelia acida, folk, pop barrettiano e rock indipendente messo a segno in quei dischi, si è palesata quale una ventata di creatività ed aria fresca da far rizzare non poco le orecchie. Qualche mese fa, pubblicando prima il semi bootleg dal vivo Live At The Place e poi l’antologia (in digitale) The Death Of Samuel Katarro, Mariotti dava il via ad una nuova fase della sua carriera musicale, stavolta sotto la denominazione King Of The Opera. A giustificare il cambio d’intestazione, vi è una revisione dei canoni musicali fin qui proposti, anche se i musicisti che lo seguono in questa nuova avventura sono praticamente gli stessi, ovvero il batterista Simone Vassallo ed il multistrumentista Wassilij Kropotkin (chitarre, violino, piano, tastiere ed effetti). Il blues, che già era in buona parte scomparso nel secondo album, qui è del tutto assente, e lascia il posto a sonorità nettamente più rock. Anche la scrittura stessa dei brani pare muoversi verso territori meno bizzarri, lasciandosi alle spalle le derive barrettiane e watsiane del passato. In un primo momento, questo aspetto, aveva indotto a pensare ad un ridimensionamento del lato più originale della sua musica. Gli ascolti ripetuti hanno però alla fine fugato ogni dubbio: Nothing Outstanding è ancora un disco notevolissimo, probabilmente ancora più solido e lucido dei precedenti, un po’ più istintivi. Lo dimostra subito, del resto, l’attacco con Fabriciborio, un’espansa ballata lisergica, dapprima liquidamente lirica, poi sempre più rock nel suo svolgersi. Worried About, venisse da una band inglese, sarebbe un singolo perfetto: bella melodia in primo piano, stesa su un arrangiamento elettroacustico, reso dinamico da una propulsiva spinta pop-rock. La successiva GD invece rallenta, preferendo virare su malinconici lidi psych-folk, lasciando a The Floating Song il compito di tornare a far vibrare le chitarre, attraverso un pezzo che non poco porta alla memoria i Radiohead più rock, quelli di The Bends per intenderci. Molto d’atmosfera la title-track, guidata da un piano Rhodes e con un mood notturno e sospeso, mentre Heart Of Town è una lunga ballata dai tratti wave, percorsa da lancinanti lamine chitarristiche. Nine-Legged Spider getta un ponte verso le sonorità dei dischi di Katarro, esplicitando scenari da incubo bizzarro, ben sottolineati dal piano e dalla chitarra elettrica. In qualche modo fa lo stesso anche Pure Ash Dream, ma qui il proscenio è preso da un’inquieta filastrocca dark, contrappuntata dallo svisare di un violino e aperta nella seconda parte da un elettrico moto ascensionale, parente di certe cose dei Low. Rimanendo in tema di ponte col passato, la dolce ballata pianistica che chiude le danze, s’intitola The Halfduck Misery, quasi come il suo secondo album. In definitiva, un disco che rimane vario e molto creativo questo primo King Of The Opera, che conferma il talento di un ragazzo che, alla faccia dei tempi grami che stiamo vivendo a tutti i livelli, ha un grande futuro di fronte a sé. Consigliatissimo.

Lino Brunetti

B. FLEISCHMANN “I’m Not Ready For The Grave Yet”

B. FLEISCHMANN

I’m Not Ready For The Grave Yet

Morr Music/Goodfellas

Chissà se intendeva in qualche modo riferirsi allo stato di salute del suo genere d’elezione, l’indietronica, B. Fleischmann, intitolando il suo ultimo album, Non sono ancora pronto per la fossa? Si sa che il connubio tra indie-rock (inteso nel senso più ampio, e quindi pop, folk etc.) ed elettronica, è stato in passato foriero di ottimi dischi ed altrettanto ottime formazioni; col tempo, però, la vena si è esaurita e questo tipo di suono si è un po’ adagiato su una serie di cliché che hanno smorzato gli entusiasmi anche dei fan più accaniti. Fleischmann, da sempre un protagonista nell’ambito, mostra tutta la sua intelligenza in queste nuove dieci canzoni, da una parte perché non rinnega affatto né il suo passato né la sua sostanziale appartenenza al filone indietronico, ma dall’altro perché riesce a superarne i limiti proponendo una scrittura in qualche modo universale. E’ vero, continua l’interazione tra strumenti suonati ed elettronica, ma questo è solo un dettaglio in un songwriting maturo, oscillante tra pop e cantautorato intimista. Il suo modo di cantare rimane distaccato e molto tedesco, qua e là da fumoso crooner o vicino ad un talking rilassato, ma il calore portato dagli arrangiamenti dettagliati e pure da un pugno di strumentali che ancor più definiscono le sottili ambizioni di questa musica, ci mostrano un autore con ancora qualcosa da dire. In definitiva, quindi, sì, il titolo del tuo nuovo album è davvero azzeccato Bernhard!

Lino Brunetti

THREE SECOND KISS “Tastyville”

THREE SECOND KISS

Tastyville

Africantape/Goodfellas

Quando si dice la classe! E’ facile rilevare che la musica suonata dai THREE SECOND KISS non sia più, oggi, a là page come in quel 1996 in cui iniziarono a muovere i primi passi. Oggi i June Of 44 non ci sono più, gli Shellac continuano a suonare in giro ma è dal 2007 che non pubblicano qualcosa di nuovo, e per Ian Williams, sia i Don Caballero che gli Stormandstress, sono un ricordo, visto quanto oggi è impegnato in quella sorta di prog mutante che sono i Battles. Faccio questi nomi giusto per arginare, dovesse esserci qualcuno che non li ha mai sentiti nominare, quali sono i lidi sonori della band bolognese. Dicevamo di classe, però, e non si può non rilevarla nelle nove canzoni che compongono Tastyville, album numero sei per una formazione che buon ben dirsi ormai veterana dell’indie-rock italiano. La musica dei Three Second Kiss ha la rimarchevole qualità di essere contemporaneamente istintiva e di pancia e, nello stesso tempo, a suo modo, cervellotica. Solo così si spiega il fatto di come le loro canzoni riescano a darti una sensazione di grandissima energia, suonando vigorosamente punk a livello d’attitudine, ma lo facciano con delle strutture ritmiche e armoniche tutt’altro che convenzionali. I loro pezzi sono un continuo attorcigliarsi di spigolosi fraseggi chitarristici, un coacervo di ritmi in libera uscita, un caleidoscopio di cambi di tempo e ritmo, una gara a seguire l’umorale svolgimento di un estro che non si pone confini che non siano quelli della creatività. Potrei citarvi uno qualsiasi di questi nove episodi, in cui a tratti fa capolino pure qualche passaggio che diresti melodico, ma sarebbe un puro esercizio di stile. Ciascuno di essi è il fulgido tassello di una storia che continua a colpire con immutata forza.

Lino Brunetti

GODSPEED YOU! BLACK EMPEROR “Allelujah! Don’t Bend! Ascend!”

GODSPEED YOU! BLACK EMPEROR

‘Allelujah! Don’t Bend! Ascend!

Constellation/Goodfellas

Spero che mi scuserete se, per una volta, parlando del nuovo disco dei Godspeed You! Black Emperor sfocerò in parte nel personale. Non posso fare altrimenti però, perché c’è stato un tempo – sarà successo anche voi, con altri nomi ovviamente – in cui ero veramente ossessionato dai dischi della compagine canadese. Un tempo in cui non passava giorno senza che li ascoltassi, un tempo in cui mi sobbarcavo delle belle sgroppate in macchina per andarli a vedere dal vivo, anche se magari di lì a poco avrebbe suonato pure dietro casa. Naturalmente ero stato conquistato dalla loro musica: in piena era post-rock avevano portato un mirabolante senso dell’epica, capace di passare dalla più inquieta malinconia alla più catartica delle esplosioni rock, inglobando inoltre elementi cameristici, dissonanze provenienti da ambiti più avanguardisti, la capacità di narrare senza far uso delle parole, se non di qualche voce raccolta per le strade, chissà dove. C’era poi tutta la questione delle loro indipendenza e del loro essere estremamente politicizzati: ve li ricordate gli screzi col regista Danny Boyle, colpevole di essersi fatto distribuire un film (per il resto indipendente) da una major, un film nella cui colonna sonora c’erano proprio dei pezzi dei GYBE? Oppure, ancora meglio, andate a riguardarvi il grafico sul retro copertina di Yanqui U.X.O., dove venivano ben visualizzate le connessioni tra le multinazionali discografiche e l’industria bellica.  Ce n’era d’avanzo per la creazione di un mito, per me come per molti altri. Poi, ad un certo punto, senza in realtà sciogliersi mai, scomparvero. Brandelli della loro musica e alcuni loro musicisti continuarono a far sentire la loro voce nei molti dischi targati Constellation – i Silver Mt. Zion, i due album con Vic Chesnutt, ad esempio – e, in fondo, al ritorno dei Godspeed non ci si pensava proprio più. Ed invece, in sordina, com’è loro abitudine, prima un tour mondiale che li ha visti passare anche dall’Italia (nel 2010) ed ora un disco nuovo, in uscita proprio a metà ottobre senza troppi proclami. ‘Allelujah! Don’t Bend! Ascend! è un disco che fa finta che non siano passati dieci anni dall’ultima volta. Anzi, volutamente si riconnette a dove si erano interrotti, riprendendo e sviluppando due pezzi composti nel 2003, suonati a volte dal vivo, ma mai incisi fino ad ora. Conosciute un tempo come Albanian e Gamelan, queste due composizioni appaiono oggi rinnovate e reintitolate Mladic e We Drift Like Worried Fire: sono la parte più consistente e pulsante del nuovo album, due brani che si spingono oltre i venti minuti di durata ciascuno, ponendosi come uno dei momenti più intensamente rock della loro carriera (la prima, tra scansioni kraute, melodie dal sapore mediorientale, massimalismo epico chitarristico) e affrontando il consueto lirismo fatto di momenti attendisti, alternati ad altri più “sinfonici” (la seconda). L’album è poi completato da altri due brani che ne allungano di un altro quarto d’ora la durata, due drones minimalisti e dal sapore intensamente cinematico. Sarebbe facile criticare quest’album come un puro, nostalgico tuffo nel passato. In parte, ovviamente, così è. Però, allo stesso tempo, al di là del fatto che di musica comunque splendida stiamo parlando, a me piace pensare che i GYBE abbiano deciso di tornare proprio adesso, in questo 2012 di crisi mondiale, perché della loro energia, delle loro idee, del loro rifiuto di un sistema che è sempre più solo un ingranaggio stritolante, c’era un gran bisogno. I Godspeed sono tornati, evviva!

Lino Brunetti