GOAT “World Music”

GOAT

World Music

Rocket Recordings

Korpolombolo è un piccolo villaggio situato nell’estremo nord della Svezia. Esiste una vecchia leggenda riguardante il luogo: si narra che, nei tempi antichi, gli abitanti del villaggio vennero iniziati alla pratica del voodoo da uno sciamano o da una strega e che a questi culti rimasero fedeli, fino a che i crociati non arrivarono a far piazza pulita sia degli eretici che delle loro credenze. Una simpatica storiella che, oggi, il collettivo dei Goat, originario proprio di Korpolombolo, fa proprio, dichiarandosi discendente di quella stirpe e riprendendone la simbologia fatta di maschere, costumi, riti. Questo è il contorno pittoresco, simpatico finché si vuole, ma solo contorno. Anche perché la sostanza sta invece tutta in un disco d’esordio, World Music, che è una bomba assoluta, uno di quegli album che, una volta messi sul piatto, non riesci più a togliere e che diventano di culto praticamente istantaneamente. L’ultimo posto che può venire in mente ad un ignaro ascoltatore, sentendo queste tracce, probabilmente è la Svezia. Nelle loro canzoni albergano, in misura alternativamente variabile, la psichedelia più selvaggia ed elettrica, l’esotismo dettato da un tribalismo che sa di afro-funk e di ethio-jazz, l’ipnotismo sfatto di certa freakedelia krauta, il paganesimo febbricitante di alcune pagine weird folk. Apparentemente un guazzabuglio inestricabile, nella realtà uno dei suoni più eccitanti sentiti quest’anno. Basta del resto metter su la prima traccia per precipitare in un mondo misterioso e tinto di paganesimo tribale: Diarabi, cover di un pezzo del chitarrista e cantante maliano, Boubacar Traoré, è uno psycho blues tinto d’Africa che, grazie alla sua tirata chitarristica, potrebbe provenire dalle più acide pagine dei Six Organs Of Admittance. La doppietta successiva, Goatman e Goathead, ci spedisce tra le maglie di un africanismo percussivo altamente ipnotico, dove canti femminili e distorsione vanno a braccetto nella ricerca di un ibrido sonoro che fa uscire di testa. Disco Fever è un gancio funky dal basso pulsante, le chitarre serratissime e l’organo a spandere ulteriori good vibrations, per un pezzo che fa pensare all’indimenticato Fela Kuti. E se Golden Dawn è soprattutto un assolo bruciante, Let It Bleed all’afro-rock aggiunge contorni quasi new wave ed un sax grezzo e free che ti prende per le budella, mentre Run To Your Mama pulsa feroce quasi fosse hard-rock. La cosa più simile ad una ballata nel disco è Goatlord, uno sballatissimo pezzo acustico dagli umori sixties, non così difficile da immaginare interpretato da un manipolo di fattoni, nudi attorno ad un fuoco. Il sunto dell’album però è nella conclusiva Dem Som Aldrig Forandras, che nel suo unire organo vintage, percussioni, melodie e ripetitività ipnotica, dà vita davvero ad una sorta di world music totale. Nel finale torna la melodia di Diarabi, in una maestosa versione epica, quasi come a voler chiudere il cerchio di un rito ancestrale. Non è un disco adatto a puristi, agli amanti del bel suono e delle voci precise al loro posto: è un disco dal suono sporco, viscerale, grezzo, un disco che ti prende alle parti basse, che fa cadere le inibizioni, che induce alla danza più sfrenata. Per me, è anche uno dei dischi dell’anno.

Lino Brunetti

SHIJO X “…If A Night”

SHIJO X

…If A Night

Bombanella/Audioglobe

Salutiamo la nascita della neonata Bombanella Records, label di Maranello, nata attorno allo studio di Davide Cristiani, a cui facciamo i nostri migliori auguri. In questo periodo, qualsiasi cosa nasca non può che essere salutata con gioia. Prima uscita dell’etichetta è questo secondo disco degli SHIJO X, quartetto contrassegnato dalla bella e versatile voce di Laura Sinigaglia, accompagnata dal piano e dai synth di Davide Verticelli, dal basso di Federico Fazia e dalla batteria di Federico Adriani. Racconta una sorta di storia questo disco, la storia di una notte costellata di sogni, di odori, di ricordi, di sensazioni che al mattino rimangono per un attimo, prima di evaporare. Opportunamente, le canzoni del quartetto assumono proprio i contorni di una musica sinuosa e notturna, elegante, minimale, raffinata ed avvolgente, evocativa eppur sempre concreta. Immaginatevi atmosfere fumose da jazz-club all’ora di chiusura, servite in salsa trip-hop ed inizierete ad avvicinarvi alla loro idea di musica. Le melodie cantate da Laura svettano con gran maestria sopra ogni cosa, ma non sono da meno i fraseggi ammallianti del pianoforte, oppure una sezione ritmica che tutto lega con fantasia, sia quando si fa aiutare da un po’ d’elettronica, che quando swinga, affrescando in maniera convincente un mood organico e vibrante. Una gran bella prova insomma, curata in tutti i minimi dettagli. Bello anche l’artwork, approntato da Caterina Sinigaglia.

Lino Brunetti

CONVERGE “All We Love We Leave Behind”

CONVERGE

All We Love We Leave Behind

Epitaph

Più il tempo passa, più i dischi si accumulano, più si rafforza la mia idea: i Converge non sono una band hardcore tra le migliori, sono la band hardcore migliore. Sono quelli che dettano i tempi, gli umori, le sensazioni. Hanno una tecnica di esecuzione che ormai rasenta la perfezione, hanno una tecnica compositiva che ha pochi eguali, ma soprattutto hanno carisma da vendere e una sicurezza nei propri mezzi disarmante. Dal vivo sono devastanti, Jacob Bannon è ormai un’icona, piaccia o meno, e i dischi fin qui messi in fila non hanno (quasi) mai mostrato segni di cedimento. Furiosi, incalzanti, riflessivi e a volte rallentati, addirittura acustici in alcuni passaggi, e potrebbe sembrare un’eresia: non per loro perché anche in quei frangenti sono sempre e comunque hardcore al 100%. Poi si potrebbe disquisire sul fatto che da Jane Doe (2001), il loro indubbio vertice compositivo, la band si sia adagiata su una comoda posizione di preminenza e che le uscite successive nulla abbiano aggiunto. Può essere, ma poco importa, fintanto che la qualità delle “repliche” è tale da soddisfare il mio palato (e quello dei loro numerosi estimatori). A me invece pare che, anche se in maniera subdola e ben mascherata, i Converge stiano inserendo elementi contrastanti nella loro musica, aggiungendo sfumature che potrebbero portarli anche da qualche parte diversa dall’hardcore intransigente ed ultratecnico. Basterebbe a questo proposito andare ad ascoltarsi la parte conclusiva del disco, a partire da una strepitosa Coral Blue nella quale si sente un respiro melodico inaspettato, la velocità si riduce e Bannon sembra provare un nuovo modo di modulare la sua voce, notizia che già di per sé è notevole, costruendo una canzone che potrebbe spostare i loro assi compositivi nel futuro. Precipice è un breve strumentale sinfonico con addirittura il pianoforte che precede la title track: tapping chitarristici che fuggono verso il metal, molto melodica nella sua costruzione convulsa, grandi accelerazioni, voce sofferta e quasi in sottofondo, finale di impressionante potenza, anche questo un brano che da la sensazione di un cambiamento in atto. Shame In The Way fila verso il metal, durissimo, spurio, quasi trash e Predatory Glow si allinea a coordinate semi industriali dalla ritmica pazzesca chiudendo l’album. Precedentemente, tanto per ribadire al mondo il proprio violentissimo approccio alla musica, avevano infilato Aimless Arrow e Veins And Veils, devastanti, molto tecniche e dalle chitarre fratturate. Trespasses e Sparrows Fall più tradizionalmente conducibili al loro classico sound, Tender Abuse un assalto impressionante e pesantissimo senza alcuna pausa. Poi Empty On The Inside che viaggia su ritmi marziali, A Glacial Pace che rallenta i tempi (beh, si fa per dire) per poi accellerare su tecnicismi esasperanti. Praticamente sempre uguali, ma lucidamente in grado di dare nuove angolazioni al proprio sound, e pure qualche bella martellata a convenzioni ormai acquisite, vedi la voce di Bannon, mixata bassissima e che si modella sulle melodie come mai prima. Rimane comunque pazzesca la loro capacità di rendere credibili e soprattutto comprensibili composizioni con così tanto “suono” dentro senza peccare in confusione, ripulendo tutto il possibile pur rimanendo sempre e comunque estremi. A dispetto di chi li ha ormai bollati come “sempre la solita roba” e di chi afferma che l’ultimo Axe To Fall sia stato il loro disco peggiore (condivisibile, ma sempre un gran bel sentire) io mi sento di donare ai Converge lo status di immortali, All We Love We Leave Behind è una bomba a picco sul mio cranio e me lo tengo stretto.

Daniele Ghiro

 

DIRTY THREE live @ Tunnel – 15 novembre 2012

Si apre con la performance degli inglesi, di Bristol, Zun Zun Egui, la data milanese dei Dirty Three. La formazione britannica, il cui disco d’esordio c’aveva colpito non poco, dal vivo, dimostra di avere delle carte da giocare – a partire da una evidente capacità tecnica sugli strumenti – ma anche di dover lavorare ancora su qualche particolare (qualche inutile lungaggine, un cantante che dovrebbe imparare a modulare un po’ di più la sua voce, senza urlare sempre). Ad ogni modo, una mezz’oretta divertente che ci ha scaldato nell’attesa che sul palco arrivassero gli sporchi australiani. Cosa c’è da aggiungere ancora, sul trio guidato da Warren Ellis, che già non abbiamo detto in passato? Probabilmente poco. I Dirty Three dal vivo sono una potenza stratosferica ed una garanzia che, col passare degli anni, non conosce cedimenti di sorta. E come potrebbe essere altrimenti? Ellis, le cui presentazioni ai brani hanno ormai del leggendario – stasera era particolarmente intento a tessere messaggi d’amore al tecnico delle luci del locale, oltre a ricordarci, a modo suo, quanto il mondo sia inevitabilmente fottuto – è un autentico tarantolato, un piccolo folletto barbuto che urla, strepita, violenta il suo strumento, che ha con lui e con il pubblico un rapporto che non si può non definire fisico. Di tutt’altra caratura la presenza sul palco di Mick Turner, impassibile come una sfinge, da sempre l’uomo che non sorride mai, che non si limita a suonare la chitarra, ma che da essa tira fuori delle note che più che altro sono pennellate impressioniste. A tenere insieme il tutto, il grandissimo Jim White, un tipo che pare abbia appena finito il suo turno notturno di scaricatore al porto, e che invece è semplicemente uno dei più grandi e personali batteristi al mondo. Non si limita, banalmente, a tenere il tempo: dalle sue bacchette e dai suoi tamburi, il ritmo sguscia fuori rotolante, allo stesso tempo raffinatamente jazzato ed invariabilmente potente come una serie di calci nel culo ben assestati. C’è molta improvvisazione in un concerto dei Dirty Three. I tre suonano sempre guardandosi l’un l’altro, pronti a seguire l’onda di una musica che viaggia sempre sull’onda dell’emozione del momento. I loro pezzi, si potrebbe quasi dire, sono quasi dei canovacci su cui di volta in volta incistare mutazioni, ed in questo, certamente, pur senza esserlo assolutamente, risiede la loro attitudine jazz. E’ per questo che poi, citare un pezzo piuttosto che un altro, è quasi inutile. Un loro concerto è un’esperienza unitaria, un flusso sonoro che ti prende l’anima e te la strizza fino alla fine.  Poi, qualche momento particolarmente intenso, nell’ora e quarantacinque di show, comunque c’è stato, a partire da una sempre indiavolata The Zither Player o, al contrario, per una poetica ed elegiaca Ashen Snow, in gran parte suonata da Ellis al piano e sempre più lirica durante il suo svolgimento. Non rimane più molto da dire per narrare la grandezza dei Dirty Three. La prossima volta che passeranno dalle vostre parti, non perdeteveli per nulla al mondo!

Lino Brunetti

Warren Ellis (Dirty Three) Photo © Lino Brunetti

ANDREW BIRD live @ Magazzini Generali – 14 novembre 2012

In un novembre straordinariamente ricco di concerti immancabili – ad averci il tempo ed i soldi naturalmente, soprattutto questi ultimi – esattamente a metà mese, il 14 novembre, è stata la volta di Andrew Bird che, addirittura in anticipo sul categorico orario d’inizio comunicato dagli organizzatori del concerto, alle 20.25 s’è presentato sul palco dei Magazzini Generali, letteralmente stipati da un pubblico attento e partecipe, per offrirci due ore della sua bellissima musica. Non è la prima volta per Bird in territorio milanese, ma lo è con una band, visto che le altre volte s’era sempre presentato in solitaria. Stasera invece è accompagnato da un piccolo combo formato dal batterista Martin Dosh, dal bassista Alan Hampton e dal chitarrista Jeremy Ylvisaker. L’inizio dello show lo vede comunque da solo sul palco, con l’accoppiata Hole In The Ocean Floor e Why?. Bird, con una serie di pedali e delay, si autocampiona mentre suona, canta e fischia, creando dei loops che lo accompagnano durante lo svolgimento delle sue canzoni. E’ una tecnica che usa sia quando è da solo, che quando suona col resto della band e che dona ai suoi pezzi una orchestralità che una formazione così ridotta non potrebbe avere. La bellezza della sue canzoni sta in buona parte, oltre che in una scrittura eccelsa, sia melodica che strettamente musicale, nel loro essere pop ed allo stesso tempo in qualche modo addirittura sperimentali. Non c’è linearità nelle sue composizioni o un andamento banale e prevedibile, tanto che viene quasi da stupirsi – piacevolmente, ovviamente – del fatto che sia seguito da un così ampio pubblico. Nella scaletta saccheggia parecchio l’ultimo, vero album, l’ottimo Break It Yourself, da cui arrivano pezzi stupendi come Desperation Breeds, Danse Caribe, Lusitania, Orpheo Looks Back, Eyeoneye, tutte suonate nella prima parte del concerto. Terminata proprio Eyeoneye, Bird e compagni si dispongono in cerchio attorno ad un unico microfono panoramico e danno vita ad una apprezzatissima parentesi acustica: sfilano in questa sezione intimista, la melodicissima Give It Away, la cover di un pezzo degli Handsome Family, When The Elicopter Comes, un’accorata MX Missiles ed una sempre stupenda Something Biblical, con il violino a ricamare ineffabilmente. Chiusa questa parentesi, il suono torna a farsi elettrico con altri quattro brani, tra cui particolarmente hanno brillato una lunga Plasticities ed una ballata quasi da lacrime come Fatal Shore. L’encore si riapre all’insegna dell’acustico, stavolta tinteggiato di country, con la cover della If I Needed You di Townes Van Zandt ed una Railroad Bill a dir poco campagnola. La chiusa definitiva, dopo due ore di grande musica ed emozioni, arriva invece con una rockata e particolarmente elettrica Fake Palindromes. Bellissimo concerto!

Lino Brunetti

FISHBONE live @ Arci Lo-Fi – 14 novembre 2012

A volte le aspettative per un concerto non sono quelle giuste. Capita di avere una voglia matta di andarsi ad ascoltare un gruppo e se ne esce delusi. Poi ci sono quelle serate in cui ti chiedi: “vado o non vado?”, non è che ne hai tanta voglia, e i motivi possono essere svariati, poi stai a casa e ti penti oppure decidi di passare una serata ad ascoltare musica. Fortunatamente ho deciso di muovere il culo verso il LO-FI per gustarmi i Fishbone e ne sono stato ampiamente ripagato. Non che ci fosse il pienone ma tant’è: io mi sono divertito, stupito e entusiasmato. Inizio un po’ difficoltoso con qualche problema agli ampli e il tecnico del suono decisamente nervoso, poi tutto si è risolto nel migliore dei modi e i sette si sono immessi sulla loro autostrada fatta di funky, swing, ska, rocksteady, heavy metal, hardcore per lasciarla un’ora e quaranta minuti dopo. Dalla formazione originale i superstiti sono solo un’allampanato John Norwood Fisher al basso ed un devastante Angelo Moore, voce, terhemin e sax di ogni tipo. Un’alchimia perfetta ed una macchina sonora impressionante, sia quando tirano fuori quei funky melmosi con la chitarra che straborda sia quando si immettono su swing dai fiati impressionanti. Poi quà e là accelerano e si lasciano andare a furiose escursioni nel punk, senza tralasciare le spruzzate ska ed una latente ma sempre presente dose di rap. Angelo è un cabarettista prestato alla musica, tiene il palco alla grande, canta, soffia nel sax, balla, si dimena, incita il pubblico trovando anche il tempo per una passeggiata di saluto con baci e abbracci al gentil sesso. Una band che a dispetto del lungo periodo di silenzio sembra avere ancora la forza per andare avanti, l’ultimo Crazy Glue ne è una dignitosa dimostrazione, ma non è sulle tracce fisiche che i Fishbone danno il meglio di sé: dal vivo è tutta un’altra storia, particolari, potentissimi, divertenti, ancora in pista e ne sono contento. Pensare che ho rischiato di rimanere attaccato al divano di casa. Mi sarei perso un pezzo di storia.

Daniele Ghiro

TAME IMPALA & SPIRITUALIZED live @ Magazzini Generali – 26 ottobre 2012 / 11 novembre 2012

Come in una sorta di virtuale confronto a distanza, separate da una quindicina di giorni l’uno dall’altro, calano in due brumose serate milanesi, due gruppi che, ciascuno per la propria generazione, possono ben dirsi punte di diamante dell’indie rock, versante psichedelico. I giovani, australiani Tame Impala, si presentano in dei Magazzini Generali prevedibilmente sold out, forti di un hype che li ha visti essere di casa sia nelle radio che sui quotidiani, così come sui giornali generalisti. Merito di un primo album, Innerspeaker, che aveva raccolto plausi praticamente ovunque, e del secondo, recente Lonerism, che li ha ulteriormente rilanciati, andando in direzione di una maggiore ricercatezza, probabilmente meno immediata e per certi versi un filo più sperimentale. Preceduti dall’esibizione degli impalpabili e subito dimenticati Young Dreams, i Tame Impala si presentano davanti ad un platea piuttosto giovane, col leader Kevin Parker (voce e chitarra), che se su album fa praticamente quasi tutto da sé, qui è attorniato da altri quattro musicisti, due tastieristi (all’occorrenza anche alle chitarre), un bassista ed un batterista. Il concerto si apre con la stessa doppietta che apre l’ultimo lavoro, Be Above It e Endors Toi. Il sound è potente ma a tratti pure fin troppo magniloquente: Parker, che ha indicato quale una delle fonti d’ispirazione dell’ultimo album il Todd Rungren di A Wizard, A True Star, e che immagina la musica della sua band, pop come Kylie Minogue e nello stesso tempo alternativa, insieme ai suoi compagni, pare andare più in direzione progressive che non in braccio alle derive psichedeliche che ci si poteva aspettare. Questa cosa viene fuori in maniera piuttosto chiara in pezzi dalla palese impronta pop-prog (pare di sentire certe cose dell’ultimo Ariel Pink) come Music To Walk On By, dalla predilezione accordata alle tastiere piuttosto che alle chitarre, sempre pesantemente effettate, persino da l’apparire di un assolo di batteria. Non si può negare che i Tame Impala sappiano a modo loro essere d’impatto – tutti i vecchi pezzi suonati, Solitude Is Bliss, It Is Not Meant To Be, Desire Be Desire Go, Why Won’t You Make Up Your Mind?, già piccoli classici, vengono accolti con dei boati – ma la sensazione che si fa largo dentro di me è che siano alla fine un tantinello sopravvalutati. Le canzoni, che vogliono essere pop, non sono poi così memorabili, e per il resto, una certa timidezza, fa si che dal palco non arrivi questo gran calore. Forse semplicemente non fanno troppo per me, ma nell’insieme, per quello che mi riguarda, l’ora e mezza scarsa di show scorre via tra qualche piacevolezza ed un po’ di noia, riuscendo a scalfirmi veramente solo nel bis, quando ci danno dentro – finalmente! – col tripudio chitarristico dell’ipnotica e lunga Half Full Glasses Of Wine, tra l’altro un pezzo che non appare neppure su uno dei loro album. Tutt’altra storia, la sera dell’11 novembre, quando ad arrivare ai Magazzini Generali sono gli Spiritualized di Jason Pierce, per la loro unica data italiana. L’unica cosa in comune con la sera dei Tame Impala è che piove, mentre tutto il resto è diverso: se pure l’affluenza di pubblico è palesemente inferiore alle aspettative – forse anche, solita crisi a parte, per via dell’enorme numero di concerti concentrati in pochi giorni – le due ore di concerto sono state un trip da brivido unico e pure il gruppo in apertura ha, come si dice in gergo, spaccato. Partiamo da questi ultimi: Roy And The Devil’s Motorcycle sono un quartetto svizzero, di Berna, attivo sin dal 1991 e con una discreta discografia alle spalle. Formata dai tre fratelli Markus, Matthias e Christian Stähli (tutti a voce e chitarra elettrica) e dal batterista Alain Perret Gentil (anche lui alla voce ed armonica), la band ha dato vita ad una divertente mezz’ora di weird garage psichedelico, a tratti rumorista e simile agli ultimi JOMF, altre volte sporcato di country-folk e servito in salsa minimal-tribaloide dai chiari echi velvettiani. Con un aspetto da drop-out strafatti, sono stati un ottimo antipasto al gruppo principale ed una bella scoperta. Gli Spiritualized si presentano sul palco a semicerchio: ai due lati, il concentrato Pierce, seduto su uno sgabello, e l’altro chitarrista, l’ottimo Tony “Doggen” Foster, al centro il tastierista, il batterista ed il bassista, più defilate sullo sfondo due coriste. La musica degli Spiritualized ha come qualcosa d’intimamente spirituale dentro di sé; non è solo per l’evidente aderenza a stilemi gospel o soul, è più per quel moto ascensionale verso una luminosità sonica che, in questo caso, si traduce spesso in strati e strati di elettriche scariche chitarristiche. Il modo con cui il concerto inizia è esemplare, coi quindici minuti di una quasi messianica Hey Jane, ipnotica, reiterativa, con quel break nel centro che prepara alla progressiva saturazione conclusiva. Sono tanti i momenti dello show che giocano su questa intensità, sul potere taumaturgico della vibrazione chitarristica, sull’ipnosi mistica del drone. Anche l’impassibilità e la distanza, quantomeno apparente, di Pierce/J Spaceman, pare avere un ruolo in tutto ciò: è un po’ come se dicesse “Non guardate me, è nel potere della musica che dovete cercare la salvezza”. In una scaletta esemplare, dove sono stati ripescati pure manufatti d’epoca Spacemen 3 (la bluesata Come Down Easy), non sono certo mancati anche i momenti più quieti e dedicati alle ballate – l’intensissima Mary, la memorabile So Long You Pretty Thing, la sempre ben accetta e poeticissima Ladies And Gentlemen We Are Floating In Space, Perfect Miracle, per dirne qualcuna – o quelli più propriamente rock – una potentissima e liquida “A” Song, Take Your Time, la lisergica Electric Mainline – ma delle due ore in cui la band ha calcato il palco, a me rimarranno soprattutto quelle trafiggenti ondate di potenza al calor bianco, così pure, così intense, così necessarie, definitivamente al culmine nel lancinante finale di Smiles. Spiace solo che a vederli fossero solo qualche centinaio di persone. Diciamocelo francamente, chi non c’era s’è perso proprio un concerto memorabile, uno dei migliori dell’anno, di una band a dir poco grandissima!

Lino Brunetti

Jason Pierce (Spiritualized) – foto © Lino Brunetti

ED “One Hand Clapping (Or The LP With One Sound)

ED

One Hand Clapping (Or The LP With One Sound)

Vulcanophono/Audioglobe

Ha alle spalle un paio d’apprezzati EP ed un demo, mentre oggi esordisce con un full lenght intitolato One Hand Clapping (Or The Lp With One Sound). Stiamo parlando di ED, nome d’arte del cantautore Marco Rossi, qui accompagnato dal fratello Paolo e da Ivan Borsari. Ispirate dai “Nove Racconti” di Salinger, le canzoni di questo disco ci mostrano un autore capace di tratteggiare un indie-pop elettroacustico, memore della lezione dell’indimenticato Elliot Smith, in grado di essere efficace sia quando esse veleggiano dalle parti di una malinconia comunque dolce e mai rassegnata, sia quando si smuovono di più, prendendo un tono più frizzante e vibrante (la bellissima It Wouldn’t Be The Same potrebbe contenere entrambi gli aspetti). Canta in inglese ED, cosa che, in questi anni di riscoperta dell’italiano, non dovrebbe però tenervi lontani dal fare la conoscenza della sua musica. Anche perché vi basterà anche un ascolto distratto, per rendervi conto del talento dell’autore di queste canzoni.

Lino Brunetti

REKKIABILLY “Banana Split”

REKKIABILLY

Banana Split

Volume! Records/ Venus

Da Louis Prima a Fred Buscaglione, è sempre esistita una qualche corrispondenza tra lo swing e l’Italia, ed anche se  nel nostro paese il genere non è mai confluito in una scena come è successo negli Stati Uniti nella seconda metà degli anni ’90, non sembra mancare qualcuno ancora capace di credere nell’intramontabile fascino dell’era aurea del rock’n’roll. I baresi Rekkiabilly, un’oriunda contrazione tra il piatto principe della cucina pugliese e lo stile proposto, sono tra coloro che non hanno mai smesso di sognare l’ebrezza di una Ford Thunderbird, il sole nascente della storica Sun Records o l’aria fumosa ed equivoca dei jazz club degli anni ’50: una passione che trapela da ogni singola nota di Banana Split, la seconda prova discografica del quintetto e forse, al momento, il più eccitante esempio di rockabilly targato Italia. Dalla brillante rilettura garagista di una delle pagine meno celebri della Motown, come Six By Six di Earl Van Dyke, fino allo strepitoso psyco-surf della traccia fantasma, Banana Split è un’esplosivo e furioso condensato di rock’n’roll, swing, soul, country e surf, che suona fresco e divertente come se il leggendario singolo di Elvis Presley That’s Alright (Mama) fosse uscito oggi, passando attraverso una varietà di atmosfere che vanno dalle fiammate rock’n’roll della surreale L’astronauta; al country&western di Mezzanotte di fuoco, sospeso tra Johnny Cash, la cronaca nera ed le strisce di Morris per Lucky Luke; al jazz fascinoso di Lulù Swing; fino al mood notturno e waitsiano di Compare, che sembra sfuggita ad una qualsiasi produzione di Joe Henry. Accanto ad un suono ispirato ai classici d’oltreoceano, l’uso della lingua italiana impiegato nelle liriche risulta inoltre particolarmente interessante, dato che la poetica dei Rekkiabilly non contempla solo divertenti aneddoti legati alle ore piccole (la titletrack e Notte Notte Notte) o agli incerti del mestiere dell’artista (Questo è il rock ‘n’ roll), ma seppur con una certa ironia e perfino un pizzico di sarcasmo, affonda anche nella contemporaneità (Sisma) o nel sociale (La Pensione), svelando il lato più profondo di una musica che non è solo semplice intrattenimento, ma che in un certo senso tiene vivo quello spirito ribelle che è alla base di tutto il rock’n’roll. Oggi i Rekkiabilly suonano come la versione “orecchiette e peperoni” di formazioni come Heavy Trash o Jim Jones Revue e ad esse non hanno nulla da invidiare.

Luca Salmini

THE HACIENDA / WEMEN “WH” + TELESTAR “Telestar”

THE HACIENDA / WEMEN

WH

Black Candy/Audioglobe

TELESTAR

Telestar

Autoprodotto/Audioglobe

Parliamo qui brevemente di una coppia di dischetti, freschi di stampa, che offrono diverse angolazioni della pop music. Partiamo con WH (Black Candy/Audioglobe), split di poco più di venti minuti che vede protagoniste due delle più titolate formazioni italiane dedite ad una musica melodica, molto british e dalle ascendenze sixties. Quest’ultima cosa vale soprattutto per THE HACIENDA, qui presenti con tre pezzi, due più soavemente pop, la terza – She’s Mine As The Sun, quella che io preferisco – più chitarristica e potente. Gli altri tre pezzi in programma, invece, sono a carico dei WEMEN, caratterizzati da tinte solari e melodie a pronta presa, come dimostra un pezzo che avrebbe fatto furore negli anni ’80 come Playa Do Rei. Un bel diversivo in attesa di nuovi dischi per le due formazioni. Sono al debutto i toscani TELESTAR, il cui album, autoprodotto ma distribuito da Audioglobe, s’intitola con il loro stesso nome. Rimaniamo in territorio tra pop e rock, che per loro significa tentare di fondere un pizzico di vecchia New Wave, tanta melodia, chitarre potenti ma tirate a lucido, in un approccio generale piuttosto mainstream. Voce in primo piano, qualche sfumatura U2 ultima maniera, una cornice da pop britannico e la tendenza ad andare più verso sonorità sanremesi che non verso l’underground. Tutto ineccepibile nel suo genere ma, se vogliamo essere sinceri, non proprio la mia tazza di the.

Lino Brunetti