BEST OF THE YEAR 2012 – Lino Brunetti

Come è tipico di ogni fine anno, è giunto il momento dei bilanci. E dunque, come è stato questo 2012 in musica? Partiamo da una considerazione generale: ormai da tempo è impossibile identificare, non dico un album, ma anche solo uno stile, che possa essere rappresentativo dell’anno appena trascorso. Le tendenze musicali, che sono comunque propense a ripetersi ciclicamente, sono da tempo esplose in miriadi di rivoli che, lungi dal potersi (se non in sporadici casi) definire nuovi, hanno perso pure la loro capacità di caratterizzare un’epoca. Se un lascito ci rimarrà di questi anni di download selvaggio e strapotere della Rete, sarà quello di un azzeramento dell’asse temporale, non più verticale bensì orizzontale, dove passato, presente e futuro convivono allegramente assieme in una bolla dove non c’è più nessuna vera differenziazione. Lo si evince dall’enorme numero di ristampe, deluxe edition, cofanetti celebrativi, ma pure dalle musiche contenute nei dischi dei cosidetti artisti “nuovi”, talmente nuovi che a volte suonano esattamente come i loro omologhi di quarant’anni fa. In questo scenario, le cose migliori nel 2012 sono arrivate in larga parte proprio dai grandi vecchi o comunque da artisti sulle scene ormai da parecchio tempo. Bob Dylan è tornato con un disco stupendo, Tempest, celebrato (giustamente) ovunque. Non gli è stato da meno Neil Young che, assieme ai Crazy Horse, ha assestato due zampate delle sue, prima con le riletture di Americana, poi con le cavalcate elettriche di Psychedelic Pill. Dopo due ciofeche quali Magic Working On A DreamBruce Springsteen se ne è uscito finalmente con un disco vitale, intenso, potente sotto tutti i punti di vista. Magari imperfetto, di sicuro non un capolavoro, Wrecking Ball è comunque un album di grandissimo livello, che ha riposizionato il Boss ai livelli che gli competono. Rimanendo sui classici, bellissimo il nuovo Dr. John (Logged Down), splendido il Life Is People di Bill Fay, di gran classe il Leonard Cohen di Old Ideas (un disco che comunque io non ho amato pazzamente come altri hanno fatto), mentre solo discreto è stato il Banga di Patti Smith. Per la serie “e chi se l’aspettava?”, credeteci o no, è ottimo invece il nuovo ZZ TopLa Futura, band a cui la produzione di Rick Rubin ha fatto un gran bene. Ma non solo i “grandi vecchi” ci sono stati, anche se sempre tra i veterani  si è dovuto andare a cercare le cose migliori. Partiamo da quello che è senza dubbio il mio disco dell’anno, The Seer degli Swans, un triplo LP magnetico, ottundente, potentissimo e visionario. Poi, in ordine sparso, il sorprendente ritorno sulle scene dei Godspeed You! Black Emperor (‘Hallelujah! Don’t Bend! Ascend!), i Giant Sand sempre più Giant di Tucson, i loro fratelli Calexico con Algiers, i Dirty Three di Towards The Low Sun, gli Spiritualized di Sweet Heart Sweet Light, i Sigur Ros di Valtari, i Lambchop di Mr Mil Mark Stewart di The Politics Of Envy, i redivivi Spain di The Soul Of Spain, i Mission Of Burma di Unsound, gli Om  di Advaitic Songs, Dirty Projectors di Swing Lo Magellan. Deludente il ritorno dei PiL, decisamente buoni quelli di Jon Spencer Blues ExplosionLiars, EarthBeach House (sia pur meno efficace degli album precedenti), Six Organs Of AdmittanceAnimal CollectiveNeurosis, UnsaneThe Chrome CranksThee Oh SeesGuided By Voices (ben tre dischi!), Woven HandGrizzly BearPontiak (memorabile il loro Echo Ono, e non solo perché hanno avuto la bontà di mettere una mia foto sulla copertina della versione in vinile), la doppietta Clear Moon/Ocean Roar dei Mount Eerie, il Moon Duo di Circles, i Tu Fawning di A Monument, i Peaking Lights di Lucifer. Dagli artisti solisti non moltissimi dischi da ricordare a mio parere: di sicuro lo è quello di Hugo Race & Fatalists (We Never Had Control), tra le cose migliori dell’annata, anche superiore al Blues Funeral della Mark Lanegan Band (comunque bello), ma lo sono pure la doppietta di Chris Robinson Brotherhood, i due dischi di Andrew Bird (soprattutto Break It Yourself), l’esordio del leader dei Castanets come Raymond Byron & The White Freighter (Little Death Shaker) ed il The Broken Man di Matt Elliot. Ancora meglio ha fatto il gentil sesso: per una Cat Power a fasi alterne (Sun, solo parzialmente riuscito), ci sono state una Fiona Apple in odor di capolavoro (The Idler Wheel…), una grandissima Ani Di Franco (Which Side Are You On?), la sorprendente Gemma Ray (Island Fire), le sorelline svedesi First Aid Kit (The Lion’s Roar), la Beth Orton di Sugaring Season. Tra le nuove band, la palma di rivelazione dell’anno se la beccano i grandissimi Goat di World Music, seguiti a ruota dai The Men di Open Up Your Heart, dai Big Deal di Lights Out, dagli Islet di Illuminated People, dai Fenster di Bonesdagli Allah-Las e dalla Family Band di Grace & Lies. Tra le cose più sperimentali, vetta incontrastata allo Scott Walker di Bish Bosch, un disco per nulla facile ma di una intensità rarissima. In campo improvvisativo, grandi cose sono arrivate dagli svizzeri Tetras (Pareidolia il titolo del loro album). Altri dischi da non dimenticare, Effigy dei Pelt, msg rcvd dei Neptune, Fragments Of The Marble Plan degli AufgehobenWe Will Always Be di Windy & Carl. E l’Italia? Certo, anche l’Italia ci ha dato grandi cose. Gli Afterhours hanno pubblicato uno dei loro dischi più belli di sempre, Padania. Potente e visionaria l’opera in due parti degli Ufomammut, così come Il Mondo Nuovo de Il Teatro Degli Orrori. E poi: Sacri Cuori (Rosario), King Of The Opera (Nothing Outstanding), Father Murphy (Anyway, Your Children Will Deny It), Paolo Saporiti (L’ultimo Ricatto), Ronin (Fenice), Mattia Coletti (The Land), manZoni (Cucina Povera), Xabier Iriondo (Irrintzi), Sparkle In Grey (Mexico), Guano Padano (2), Calibro 35. E chissà quante altre cose mi son perso o avrò dimenticato! Qui sotto, la selezione della selezione. Ed ora, prepariamoci al 2013!

SWANS “THE SEER”

GOAT “WORLD MUSIC”

FIONA APPLE “THE IDLER WHEEL…”

PONTIAK “ECHO ONO”

GODSPEED YOU! BLACK EMEPEROR “‘ALLELUJAH! DON’T BEND! ASCEND!”

AFTERHOURS “PADANIA”

TETRAS “PAREIDOLIA”

MOUNT EERIE “CLEAR MOON/OCEAN ROAR”

HUGO RACE FATALISTS “WE NEVER HAD CONTROL”

THE MEN “OPEN UP YOUR HEART”

SCOTT WALKER “BISH BOSCH”

BRUCE SPRINGSTEEN “WRECKING BALL”

BOB DYLAN “TEMPEST”

NEIL YOUNG & CRAZY HORSE “AMERICANA/PSYCHEDELIC PILL”

FIRST AID KIT “THE LION’S ROAR”

GIANT GIANT SAND “TUCSON”

BOX SET: CAN “THE LOST TAPES”

Nelle terre dei SACRI CUORI – Intervista ad ANTONIO GRAMENTIERI

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Non c’è bisogno di tirare in ballo Francesco Guccini – celeberrimo il suo album dal vivo, Fra La Via Emilia e Il West, le cui note v’invito di andare a rileggere – per attestare una sorta di corrispondenza tra la pianura Padana dell’Emilia Romagna e le terre del Sud Ovest americano. Chissà, forse perché trattasi di una terra di sognatori, in qualche modo continua ad esserci un legame forte tra questi due luoghi che, negli ultimi anni, è stato rinverdito da un gruppo di musicisti autodenominatosi Sacri Cuori. Un nome evocativo, quasi misterioso questo, le cui fila sono principalmente tirate dal chitarrista e songwriter Antonio Gramentieri. Forse alcuni di voi si ricorderanno di Antonio quale una delle firme apparse anche sul Buscadero, qualcun altro, invece, si ricorderà del fatto che è lui l’eminenza grigia dietro quello spettacolare festival chiamato Strade Blu; a fianco di queste attività, però, da sempre ha coltivato quella del musicista, che lo ha visto passare dai territori del blues a questa cosa, per certi versi non più facilmente definibile, che sono i Sacri Cuori. La prima volta che si sentì questo nome fu, all’incirca, un paio d’anni fa, quando uscì Douglas & Dawn, il loro esordio, inizialmente pubblicato solo in vinile da Interbang Records, poi ristampato, con tre bonus tracks, da Gustaff l’anno seguente. Era un disco fortemente cinematico quello, tranne che nella cover di Shelter From The Storm di Dylan, completamente strumentale; un disco fatto di polvere del deserto, notti al chiaro di luna, allucinazioni quasi pinkfloydiane da colpo di sole, il tutto tradotto in una musica in qualche modo affratellata a quella dei primi Calexico o dei Friends Of Dean Martinez. Del resto, all’epoca di quel disco, i musicisti che avevano aiutato Gramentieri a realizzarlo, si chiamavano Howe Gelb, John Convertino, Nick Luca, Thoger Lund, e molti altri erano gli ospiti stranieri presenti in quelle canzoni. Anche tra gli addetti ai lavori, si fece strada l’idea che Sacri Cuori fosse una sorta di progetto occasionale, da una botta e via. Ovviamente le cose non stavano così, tanto che Antonio oggi ci racconta meglio come stavano le cose: Sacri Cuori era un’idea nata in maniera estemporanea, nel 2007, con una commissione per una colonna sonora (The Gilgames’ Tale di Heriz Bhodi Anam N.d.A.), diventato poi un disco ed un progetto, un progetto di collettivo centrato sulle mie composizioni. Non c’era l’intenzione di centrarlo sugli ospiti. L’idea era semplicemente di andare a prendere un suono dalla fonte… Comprensibilmente l’etichetta mise il parco ospiti molto in primo piano nella comunicazione e così mi trovai in questa situazione un pò strana in cui tutti lodavano il disco ma sembravano intenderlo come un one/off, nato intorno a Strade Blu, mentre invece era il primo passo di un progetto mio, da musicistalavoro che facevo da molto prima di inventare Strade Blu. In qualche modo era una specie di punto di maturazione per la mia attività di musicista, un deciso passo in avanti nella direzione di ciò che volevo fare. Agli inizi Sacri Cuori era soprattutto un gruppo condiviso da me e Diego Sapignoli, oggi è un sestetto a rotazione, nel senso che dal vivo a suonare siamo generalmente in quattro. Non un qualcosa di estemporaneo quindi, e tanto meno un progetto chiuso: anche nell’ultimo album i musicisti ospiti sono numerosi, ma i Sacri Cuori stessi hanno iniziato a mettersi al servizio di altri artisti che portano i nomi di Hugo Race (i Fatalists dei suoi ultimi dischi altro non sono che proprio loro), Dan Stuart, Richard Buckner, Woody Jackson, Robyn Hitchcock, Pan Del Diavolo. Un’attività intensa, riverberatasi in qualche modo sul nuovo album, Rosario, che è un bel passo avanti nella definizione di un suono sempre più personale. Rosario nasce da un percorso nella memoria personale che ho fatto negli ultimi tempi. Segna il riappropriarsi di una cultura musicale rimasta a lungo sopita dentro di me e che in qualche modo caratterizza una rinnovata italianità del nostro suono. L’andare a riscoprire le colonne sonore di Morricone, tra l’altro quello meno western, il Nino Rota felliniano, ma pure le musiche di grandissimi compositori quali Piccioni, Umiliani, è stato come un lungo viaggio dentro dei suoni che erano dentro di me e che andavano solo riscoperti. La fusione tra le più tipiche sonorità americane e le suggestioni derivanti da questi ascolti ci ha portato alla realizzazione di un album senz’altro diverso da quello d’esordio. Tieni poi presente che mentre Douglas & Dawn era un disco che si concentrava soprattutto sui suoni, questo è, nelle nostre intenzioni, quello dove affrontare più di petto la composizione di canzoni, dando un maggior peso alle melodie, agli arrangiamenti. Ed è proprio vero, le canzoni del nuovo disco paiono mettere in atto una sorta di cortocircuito tra i suoni dell’Ovest americano e quelli appartenenti alla cultura musicale nostrana. E’ buffo perché una volta, parlando con Howe Gelb e John Convertino, venne fuori che pure per loro, il suono western è quello delle colonne sonore di Morricone e degli spaghetti western. E’ chiaro che, per buona parte, l’America che viene fuori dai nostri dischi è quella del Mito, quella vista con occhi europei e quella filtrata da anni ed anni di ascolti, letture, visioni. La nostra musica è senza dubbio percepibile come musica di Frontiera; quella tra Messico e Stati Uniti senz’altro, ma pure, in maniera più sottile ma più profonda, quella tra noi e la nostra idea d’America. I cortocircuiti culturali che si mettono in atto suonando con musicisti americani, facendo tour in quei luoghi, registrando nei loro studi, sono ulteriore linfa per la nostra musica. Registrare a Los Angeles, ad esempio, è stato per noi anche un modo per riconettersi ai luoghi dove John Fante ha fatto vivere le storie di Arturo Bandini, o dove David Lynch ha dato corpo alle sue allucinazioni in capolavori come “Inland Empire” o “Mullholland Drive”.

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A questo punto della conversazione, chiedo ad Antonio, un’entusiasta, fluviale e sempre piacevole conversatore, qualcosa di più sulla realizzazione pratica di Rosario. In tutto l’album ci sono composizioni scritte, suonate e registrate nell’ultimo anno solare. Le registrazioni sono state fatte tra Los Angeles, Richmond e Lido di Dante. Durante le session americane abbiamo avuto l’opportunità di avere in studio vecchi amici e musicisti con cui forse mai avrei sognato di poter suonare. Ad esempio, Diego, il nostro batterista, era in procinto di diventare papà, e non potè chiaramente seguirci negli Stati Uniti. Ci saremmo così potuti trovare negli studi di Woody Jackson, a Richmond, ad aver bisogno di un batterista; John Convertino, una volta saputolo, si offrì subito di raggiungerci, in cambio solo del biglietto aereo, e Woody ci fece avere in studio nientemeno che Jim Keltner, senza dubbio un mio eroe, uno che ha suonato in moltissimi dischi che semplicemente adoro! Alla fine di batteristi ne avemmo tre, visto che venne con noi anche il “nostro” Enrico Mao Bocchini. Stessa cosa per Stephen McCarthy, un musicista che non avremmo mai potuto permetterci ma che, quasi miracolosamente, un giorno si presentò in studio armato di banjo e lapsteel. Il disco si apre con una canzone cantata da Isobel Campbell. Al contrario di quello che si potrebbe pensare, è stata lei a contattare noi. Ci eravamo conosciuti in Italia, in occasione di un suo tour, ed eravamo rimasti in contatto, con l’idea di fare forse qualcosa assieme in futuro. Non so come, ha saputo che eravamo a Los Angeles e così ci siamo sentiti. “Silver Dollar”, una delle due canzoni che canta nel disco, era nata come pezzo strumentale, ma fin troppo chiaramente si adattava a diventare una canzone nello stile di Lee Hazelwood con Nancy Sinatra. Ecco, alla fine, Isobel è stata la nostra fantastica Nancy Sinatra. Il disco ha tre bonus tracks in coda, non poi così slegate dal resto dell’album, suonate tra l’altro da una band stellare, con dentro, tra gli altri, Marc Ribot e David Hidalgo alle chitarre. Come mai non sono considerate parte integrante dell’album? Quelle tre tracce, fanno parte di una session isolata ed un po’ più vecchia. Tra l’altro i pezzi sono stati mixati da JD Foster ed hanno un sound più spigoloso rispetto agli altri. Mi rendo ben conto però che, non sapendolo, risaltano magari di più gli elementi unificanti che non quelli che li rendono sezione a parte rispetto al resto. L’idea era di farne un EP, però poi l’etichetta ha insistito parecchio perché venissero messi in coda al nuovo disco. Alla fine abbiamo ceduto e li abbiamo accontentati.  Tornando per un momento a parlare delle nuove sfumature presenti in Rosario, faccio notare ad Antonio quanto io consideri fondamentale l’apporto alle nuove canzoni di un multistrumentista (piano, hammond, clarinetto, tastiere varie, sax, chitarra) quale Christian Ravaglioli. Senz’altro! Christian, che in minima parte stava già sul primo album, è un musicista di grande talento. Forse, nella band, è quello col background musicale più dissimile al nostro, è quello con la formazione più classica. Proprio per questo, però, è in grado di suonare magistralmente e con gran fantasia qualsiasi tipo di partitura gli dia in mano, mettendoci pure la sua grande professionalità. Come dicevamo all’inizio, Gramentieri e i Sacri Cuori, in questi anni, si sono messi al servizio anche di numerosi altri musicisti, sia italiani che stranieri. La curiosità di sapere quale sia il loro apporto in questi dischi, sposta la conversazione in questa nuova direzione. La prendo un po’ alla lontana per far capire bene come stanno le cose. Una volta lessi un’illuminante intervista a T Bone Burnett, in cui gli si chiedeva circa i suoi metodi produttivi. Ebbene, rispose che una volta scelti i musicisti, il lavoro era sostanzialmente fatto. Nel mio piccolo, non è che mi voglio paragonare a Burnett,  questa è la mia stessa idea. In tutti i dischi in cui abbiamo suonato, mai lo abbiamo fatto con l’approccio dei sessionmen. Hugo Race, con cui il legame è ormai fortissimo, ci ha cercato per il lato oscuro del nostro sound, per il versante più impressionistico e meno tradizionale. Dan Stuart, che ancora oggi considero un songwriter eccezionale e che coi Green On Red è stato uno dei musicisti più importanti per la mia formazione musicale, al contrario, credo ci abbia voluto con sé perché suonassimo nella maniera più classica di cui siamo capaci. Negli ultimi due dischi di Dan, ho curato completamente io arrangiamenti e produzione. Lui è uno che arriva in studio con le canzoni e la chitarra acustica e lascia agli altri il resto. La mia idea dei Sacri Cuori, al di fuori dei nostri dischi, è quella di una sorta di “house band” capace di mettersi al servizio di musicisti differenti, adattandosi, ma pure portando del proprio ai dischi degli stessi. I lettori di una rivista come il Busca mi capiranno se cito, a mò d’esempio, una band quale Booker T & The Mg’s, presente in una miriade di dischi e con un curriculum tale da essere quasi ineguagliato. E non sono i soli, chiaramente; molti dischi degli anni sessanta erano contrassegnati da un manipolo di musicisti che, parallelalmente alle loro carriere, contribuivano alla realizzazione di un suono, lavorando magari in tutti i dischi di una data etichetta. Per continuare nella risposta alla tua domanda, per altri versi è stato interessantissimo anche andare in tour, come musicisti aggiunti, coi Pan Del Diavolo, una band giovane, con un pubblico completamente diverso da quello a cui siamo abituati, che magari neppure ha mai sentito nominare quelli che sono i miei eroi musicali, ma che ha dentro di sé quel qualcosa, magari in maniera inconscia, che porta avanti un discorso con radici lontane. Una gran bella esperienza. Queste ultime parole, imprimono un’ulteriore sterzata alla conversazione: s’inizia a parlare della sovrabbondanza di offerta musicale a fronte di un pubblico che si restringe sempre più, dei problemi (rispetto a soli dieci anni fa), nel trovare luoghi dove suonare dal vivo, del conservatorismo di un settore che predilige il cancro reazionario delle cover bands alla pluralità (politica) portata dai gruppi che suonano le proprie cose, al fatto che oggi, qualsiasi sia la musica suonata, anche le bands italiane devono confrontarsi su di un palcoscenico internazionale e non più puntare al proprio orticello, magari suonando come la miglior blues band dell’area di Modena, al fatto che i vari pubblici dovrebbero cercare di uscire dalle loro ormai asfittiche nicchie. Traspare una certa disillusione dalle sue parole, ma una disilluzione comunque costruttiva; è un musicista lucido Antonio Gramentieri, uno che ha delle cose da dire e che le dice con convinzione e con cognizione di causa. Per concludere gli chiedo se è venuta meno la sua attività di organizzatore di concerti (Non voleva essere una verà attività. All’inizio “Strade Blu” era nato con la volonta di far suonare dei musicisti amici miei, che poi col tempo si è ingrandita ben oltre quelle che erano le nostre aspettative. Oggi io continuo a scegliere il cast, lasciando ad altri gli oneri organizzativi.) e quali siano le sue prossime mosse (Stiamo per partire in tour con Hugo Race in Est Europa, dove abbiamo un fitto calendario di date per un mese. Al termine di esso, credo inizieremo a portare in giro il nuovo album dei Sacri Cuori.). In attesa che passino dalle vostri parti, voi intanto iniziate a far la conoscenza di Rosario e degli altri dischi in cui sono presenti– recensioni qui attorno – tutti album sicuramente da non perdere.

Lino Brunetti

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SACRI CUORI “Rosario”

SACRI CUORI

Rosario

Decor CD – Interbang LP/Audioglobe

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Il primo album dei romagnoli Sacri Cuori, registrato nei Wavelab Studios di Tucson, Arizona nel 2008, ed uscito nella seconda metà del 2010, era stato uno di quei gioiellini a cui era davvero difficile resistere. Nella loro musica si mescolavano folk, blues, psichedelia, sonorità da soundtrack western ed un pizzico di astrattismo cinematico ed ambientale, tutti elementi fusi in un sound che da un lato evocava le traiettorie sperimentate dai primi Calexico o da una band quale Friends Of Dean Martinez (per non dire di certe cose Giant Sand, con Howe Gelb fattivamente coinvolto nella realizzazione dell’album) e dall’altro evidenziava già una personalità marcata, oggi più che mai evidente nel nuovo lavoro. Come ben sintetizza, nell’intervista pubblicata qui sul blog, Antonio Gramentieri, deus ex machina della formazione – oggi assestatasi a sestetto, con Gramentieri accompagnato da Diego Sapignoli (batteria e percussioni), Francesco Giampaoli (basso e contrabbasso), Christian Ravaglioli (tastiere varie e fiati), Denis Valentini (tuba, flugelhorn) e Enrico Mao Bocchini (batteria e percussioni) – il nuovo album segna uno scarto rispetto al passato, passando dalla ricerca impressionista sul suono del primo album, ad una maggiore concretezza melodica e strumentale, dai confini però sempre meno definiti, anche e soprattutto geograficamente parlando. Non è più possibile, non solo almeno, inserire la musica dei Sacri Cuori in un ipotetico scenario da colonna sonora western; il riappropriarsi delle suggestioni derivate dalla riscoperta dei più grandi compositori italiani di colonne sonore, l’allargamento a suoni provenienti dai più disparati ambiti (il surf ed il rock strumentale dei sixties, la torch song, qualche passaggio di gusto circense), fanno si che la loro sia oggi musica dalle caratteristiche sempre più imprevedibili. Il disco si apre con una stupenda ballata, Silver Dollar, riccamente arrangiata, dove alla voce appare una diafana ed ammalliante Isobel Campbell, e dove figurano musicisti quali Stephen McCarthy, JD Foster, Woody Jackson, per un pezzo che porta alla memoria le splendide canzoni fatte da Lee Hazelwood con Nancy Sinatra. E’ l’inizio di un viaggio che oltre ai soliti scenari desertici e da Sud Ovest americano (la bellissima Fortuna, gli ampi spazi evocati da Garrett, West e Where We Left, i colori accesi di Sundown, Rosa, una El Gone magistrale ed atmosferica), prevede fermate tra le volte di una soundtrack seventies (ma non western) dettata dall’organo di Ravaglioli e dai vocalizzi di Eloisa Atti (Quattro Passi), tra le avvolgenti spire di una Out Of Grace graziata da un languido sassofono, nel rimbalzante e circense svolgersi della felliniana Sipario!. Come dicevamo, a volte si fanno più presenti speziature sixties, vedi brani frizzanti e briosi come Teresita, El Conte, la divertente Lee-Show, quest’ultima parente di certe cose dei Guano Padano, altre volte i toni si fanno più intimi ed evocativi (Garrett, East, ancora con la Campbell, l’affascinante e languido tango Lido), altre volte diventano semplicemente una cosa a sé (la stranita Non Tornerò). Non dovesse bastarvi tutto ciò, in un disco che già vede la presenza di musicisti come Jim Keltner e John Convertino, al termine del programma ci sono tre bonus tracks, provenienti da una session con Marc Ribot e David Hidalgo e mixata da JD Foster: due versioni alternative di Teresita e Lido, più un bizzarro blues, Steamer, che potrebbe capitarvi d’incontrare in un film di David Lynch. Bellissimo disco!

Lino Brunetti

HUGO RACE & FATALISTS “We Never Had Control”

HUGO RACE & FATALISTS

We Never Had Control

Gustaff CD – Interbang Records LP/Goodfellas

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La seconda collaborazione tra il rocker australiano Hugo Race ed il nucleo centrale dei Sacri Cuori (Antonio Gramentieri, Diego Sapignoli e Francesco Giampaoli) mostra l’incredibile stato di grazia dei musicisti coinvolti. I tre italiani si appropriano del titolo del disco precedente, intestato solo a Hugo Race, e, appunto, come Fatalists, diventano la sua nuova band. Ad offrire poi ulteriori colorature alle nove splendide canzoni di cui è composto We Never Had Control, troviamo i synth di Franco Naddei, i violini e la viola di Vicky Brown e Catherine Graindorge, le voci di Violetta Del Conte Race e Hellhound Brown. E’ un disco come sempre ombroso ed oscuro We Never Had Control, blues inteso nel senso più ampio possibile, dotato di una scrittura davvero notevolissima. Nonostante la discografia di Race sia ormai decisamente ampia, non è difficile posizionare quest’ultimo lavoro tra i più riusciti della sua lunga carriera, tanto che spero riesca a girare tra molta più gente che non il solito agguerrito seguito di fan, che seguono comunque qualsiasi mossa fatta dall’australiano. Dice già tutto l’attacco di Dopefiends, un rock blues che si dipana lungo, melmoso, attraversato da luminosi tocchi di violino e con un lavoro magistrale alle chitarre di Gramentieri, a tratti dissonanti. Raddoppia subito Ghostwriter, con un ritmo tribale, ossessivo e reiterato, così come il suo giro di chitarra acustica, via via sempre più potente e screziato da lamine di synth. Con Meaning Gone sembra di andare nei territori scarni e minimali dell’afro-blues dei Dirt Music, ma poi, nel suo svolgimento, ci sono aperture verso sonorità avvolgenti ed evocative. Snowblind è una bellissima ballata dagli echi western, con delle chitarre stupende ed una melodia memorabile, cantata da Race con la giusta dose di partecipata emotività. Si cambia con la successiva No Angel Fear To Thread, un pezzo visionario, come sospeso, molto d’atmosfera e arrangiato con impagabile classe, dove sono i tocchi del violino e delle tastiere a reggere le fila. A dir poco commovente Shining Light, una ballata in cui il dialogo tra la voce calda di Race e gli strumenti dei Fatalists è al suo meglio, mentre No Stereotype si segnala come il momento più rabbioso e potente dell’album. La chiusa è ancora all’insegna della classe e della rarefazione: We Never Had Control, cantata a due voci con Violetta Del Conte Race, è un pezzo quasi lunare, astratto, con gli arrangiamenti sotto le voci pennellati quasi impressionisticamente, una meraviglia! Un disco notevole We Never Had Control, dove l’equilibrio tra puro songwriter e qualità dei suoni è praticamente perfetto (la produzione è di Race e Gramentieri). Se poi pensiamo che per registrarlo sono bastati solo cinque giorni nei Cosabeatstudio di Villafranca! Il disco che forse alcuni si aspettavano da Mark Lanegan quest’anno, eccolo qui! Grandioso!

Lino Brunetti

DAN STUART “The Deliverance Of Marlowe Billings”

DAN STUART

The Deliverance Of Marlowe Billings

Cadiz CD – Interbang Records LP

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Ero ancora alle scuole medie – si, ho avuto dei buoni maestri – quando scoprii i Green On Red, una band che per me fu poco meno che un’autentica rivelazione. Il disco era Here Comes The Snakes e segnò non poco la mia crescita musicale. Credo non siano pochi quelli a cui i loro dischi abbiano in qualche modo cambiato la vita – vogliamo parlare di un album grandissimo quale Gravity Talks? – ed è pertanto con grande gioia che salutiamo questo nuovo lavoro di Dan Stuart, che della band dell’Arizona era cantante e principale songwriter, e che ne certifica definitivamente il ritorno ai livelli che gli competono. Personaggio sempre spigoloso Dan Stuart – ricordo delle fantastiche interviste al vetriolo, oppure le cronache delle sue colossali sbronze – che non sempre è riuscito, durante la sua carriera solista, ad essere all’altezza del suo passato. A dar retta alla cartella stampa, la genesi di The Deliverance Of Marlowe Billings è stata a dir poco rocambolesca, ai confini con la tragedia: reduce da un matrimonio ormai imploso che lo aveva lasciato in pezzi, Dan venne ricoverato in una clinica newyorchese per malati di mente, da cui fuggì con l’intento di andare verso il confine col Messico per suicidarsi. Per fortuna le cose non sono evidentemente terminate in questo modo. Colpito dalla straordinaria bellezza del sud del Messico e messosi a confronto coi mali di quel paese (la corruzione endemica, l’estrema povertà di molta gente, le guerre dei narco trafficanti), semplicemente si sentì contento di essere vivo. Comprata una chitarra da un vecchio mariachi , si mise a scrivere canzoni, le stesse che oggi possiamo sentire in questo nuovo album. Ce n’è di che farne un film, ed invece ne è uscito un disco bellissimo, quasi una sorta di concept album. Registrato tra l’Italia e Los Angeles, con la produzione di Antonio Gramentieri e l’ex compagno nei Green On Red, Jack Waterson, e con i Sacri Cuori come backing band, The Deliverance Of Marlowe Billings ci consegna un Dan Stuart memorabile, come non lo ritrovavamo da tempo. Più pacificato, quantomeno musicalmente, rispetto ai vecchi tempi, è soprattutto nel territorio della ballata che si cimenta: Can’t Be Found avrebbe potuto stare in un disco come Scapegoats, la lunga e dylaniana Gonna Change è tinteggiata di sottile psichedelia, pezzi come Love Will Kill You o What Can I Say ci avvolgono con un calore intimo ed accorato, la magistrale Searchin’ Through The Pieces ci catapulta in uno scenario da notte nel deserto, con un mood commuovente ed un tessuto strumentale raffinatissimo. L’ottima scrittura di Stuart viene servita dai sempre calibrati arrangiamenti di Gramentieri e compagni, capaci di immettere una decisa dose di fantasia nelle strutture sommariamente classiche delle canzoni. Questo viene fuori in un brano dolce come Love So Rare, ma pure nei brani più movimentati, come l’elettrica e fangosa Clean White Sheet, la decisa What Are You Laughing About, nel jingle jangle irresistibilmente sixties di Gap Toothed Girl o nei suoni da mexican border di una Gringo Go Home che puzza dannatamente di Sam Peckinpah. L’addio, o meglio sarebbe dire, l’arrivederci, è con un atmosferico strumentale, Cetina’s Lament, e non ci potrebbe essere modo migliore per accomiatarsi da un così riuscito ritorno.

Lino Brunetti

SWANS @ Locomotiv – 30 novembre 2012

Se state leggendo queste righe, ormai è chiara una cosa: non era la fine del mondo quella profetizzata dai Maya. Ora, a meno che non si riferissero alla ridiscesa in campo di Berlusconi, ci sono forti probabilità che avessero presagito l’apocalisse scatenata dagli Swans durante i loro più recenti concerti. Scherzi a parte, andiamo a raccontare una serata che ha avuto tutte le caratteristiche tali, da rimanere indelebilmente scolpita nella memoria. Il Locomotiv è un locale di Bologna, situato all’interno di un parchetto posto alle spalle della ferrovia e, tutto sommato, non lontanissimo dalla stazione dei treni. La sera del 30 è piovosa e fredda e, complice la luce illividita che si riverbera per le strade, è il classico tempo che induce a cercare un riparo. Il locale apre i battenti verso le 20.30 ed il pubblico – tra cui molti venuti da fuori città, Roma, Milano, Torino, Genova – iniziare a riempirne gli spazi. La data è sold out e quindi, un po’ alla volta, la gente si stipa in quella che sembra in tutto e per tutto una ex piscina coperta, riempita di cemento per essere trasformata in un locale per concerti o una balera. Puntualissimo come un orologio svizzero, alle 21 sale sul palco il grande Sir Richard Bishop. In una mezz’ora buona, l’ex Sun City Girls c’intratterrà con i suoi strumentali per chitarra acustica, in bilico tra tradizione folk, finger-picking faheyano ed ipnosi da raga indiano. Una partenza notevole, anche per via del contrasto con quello che sarebbe venuto dopo. Se qualcuno ha trovato prolisso ed estremo The Seer – per me, molto semplicemente, il disco dell’anno – probabilmente finirebbe con accogliere con un certo terrore gli Swans dal vivo di quest’ultimo tour. L’aveva preannunciato Michael Gira che, in concerto, le canzoni avrebbero continuato a mutare e a trasformarsi in qualcosa di diverso. Forse nessuno, però, si aspettava un simile tour de force ed una prova di così estrema potenza. Sul palco sono posti a semicerchio, con Gira al centro quale direttore d’orchestra: all’estrema sinistra c’è Christoph Hahn alle pedal steel, che mai come in questo caso sono parse uno strumento così poco country; a seguire Thor Harris, una sorta di selvaggio guerriero vichingo, intento a percuotere campane, gong, percussioni in genere; sul fondo, al centro, c’è la batteria del grandissimo Phil Puleo, che molti ricorderanno come l’ex batterista dei mai dimenticati Cop Shoot Cop; alla sua destra, Chris Pravdica, il bassista, nonché membro visibilmente più giovane in formazione, e Norman Westberg, a fianco di Gira da tempo ormai immemorabile, tutto tatuato e con lo sguardo di ghiaccio di un killer prezzolato, la cui arma è però una Fender Telecaster. Di quello che è successo durante le quasi tre ore di concerto, da questo punto in poi, non posso che darvi delle sensazioni sparse, visto che in breve tempo sono stato risucchiato tra le maglie di un suono ottundente e doloroso, talmente ipnotico e reiterato che quasi m’ha fatto perdere la cognizione di spazio e tempo. Dal vivo, i pezzi degli Swans, perdono qualsiasi struttura che non sia quella dettata dall’improvvisazione del momento. Gira si comporta come un vero maestro d’orchestra: guida la sua band spingendola verso sonorità sempre più estreme, facendogli assemblare veri e propri momenti di estasi wagneriana noise, costruiti come blocchi di suono letteralmente materico. Non c’è tregua per il pubblico, ma neppure per la band stessa, costretta a seguire gli ordini di un Gira che compone le sue visioni direttamente sul palco (e ad un certo punto ci sarà anche un palese battibecco, con tanto di fuck you, tra Gira e Pravdica, quest’ultimo colpevole di non essere sufficientemente attento alle direttive del leader). Brandelli di pezzi conosciuti si susseguono nella serata, ma sono resti martoriati, canovacci sanguinolenti su cui infierire con una musica che torna a recuperare macerie industrial. Anche la ripresa della vecchissima Coward (da Holy Money, loro celeberrimo album del 1986) va in questa direzione, suonando, se possibile, ancora più inquietante e pericolosa di come ce la ricordavamo. Quando poi, durante l’esecuzione di una infinita The Seer, prima salta la corrente, lasciandoci al buio storditi (e con gli Swans che continuavano imperterriti a suonare) e poi una ragazza cade svenuta, non si sa se per il caldo (visti anche i fari perennemente puntati sul pubblico), per la ressa o per l’oltranzismo del suono, e come se tutti i pezzi di una scientemente orchestrata dissoluzione della coscienza, andassero al loro posto. Ripristinata la corrente, i sei hanno riattaccato con rinnovata energia, con un ulteriore mezz’ora di lancinante violenza, stavolta si, quasi oltre la soglia del dolore. Un concerto monolitico, estenuante, in bilico tra la forza bruta della materia e l’estasi dettata dalla reiteratività ipnotica delle figure sonore. Mentre molti grandi gruppi dal passato estremo s’ammorbidiscono, Michael Gira, a quasi 60 anni, non dà segni di cedimento. Il suo sorriso sadico, alla fine della maratona, non ce lo dimenticheremo tanto facilmente. A modo suo, il concerto dell’anno (che è continuato anche nei tre giorni successivi, visto quanto mi fischiavano le orecchie!).

Lino Brunetti

Swans © Lino Brunetti

Swans © Lino Brunetti

Swans © Lino Brunetti

Swans © Lino Brunetti

Swans © Lino Brunetti

Swans © Lino Brunetti

SPAIN @ Teatro Dal Verme – 29 novembre 2012

Una bella rassegna “Music Club” che, per l’ennesima volta, ha allietato i pomeriggi di quanti potevano permettersi di andare al Teatro Dal Verme di Milano, in un orario normalmente destinato agli aperitivi, anziché per sorseggiare un cocktail, per assistere a dei gran bei concerti, con artisti quali Mick Harvey, Josephine Foster, Thony, tra gli altri. Il 29 novembre è stata la volta dei rinnovati Spain di Josh Haden, tornati al disco e ai tour dopo una pausa durata oltre dieci anni. Ma andiamo con ordine: ad aprire la serata c’era il bravo cantautore siciliano Fabrizio Cammarata, che alcuni ricorderanno anche col nome The Second Grace. Voce, chitarra acustica e tamburello, per un set che ha saputo emozionare attraverso un pugno di canzoni che, al cantautorato nostrano, aggiungono suggestioni latine (ha eseguito anche una bellissima versione di La Llorona) e provenienti dagli Stati Uniti (il suo ultimo disco è prodotto da JD Foster e vede alcuni Calexico collaborare). Giustamente un po’ emozionato – era la prima data di un tour tutto di spalla agli Spain in Europa – ha convinto attraverso una voce sicura e a suo agio sia nel sussurro che nell’urlo e grazie ad un’umanità evidente. Cammarata è sceso dal palco da pochi minuti, che ecco prontamente sopra di esso gli Spain. La formazione è quella dell’ultimo album, l’ottimo The Soul Of Spain, quindi con Haden a voce e basso, Daniel Brummel alla chitarra elettrica, Randy Kirk a tastiere e seconda chitarra e Matt Mayhall alla batteria. L’idea di questo nuovo tour è quello non solo di presentare le canzoni dell’ultimo album ma, pure, di fare un completo excursus sulla loro produzione discografica. Ed è a questo che abbiamo assistito durante lo show. L’attacco è quasi tutto ad appannaggio dei brani più recenti ma, ben presto, iniziano ad arrivare anche quelli tratti dai primi tre album, in particolare dall’immortale The Blue Moods Of Spain. Sul palco i quattro non è che siano proprio vivaci. Haden è forse il più improbabile frontman che abbia mai visto: ha la verve di un bradipo, quando parla, giochicchiando un po’ con la sua mancata vena di entertainer, dice una parola ogni tre secondi e appare quantomeno bizzarro. Gli altri musicisti non sono particolarmente più calorosi, ma dai loro strumenti sanno come distillare turbamenti. E’ infatti tutto da una musica che una volta era slowcore, ma che oggi è semplicemente un blues notturno ed avvolgente, che giungono le emozioni. Gli interventi di Brummel alla chitarra sono sempre incisivi e raffinati allo stesso tempo, Kirk è un musicista intelligente capace di legare con il suo Hammond, col piano ed anche, a volte, con una seconda chitarra elettrica, le varie componenti del suono Spain, mentre la sezione ritmica ha quasi sempre quel passo rallentato e narcotico che è un po’ il marchio di fabbrica della formazione. La voce di Haden è calda ed espressiva e non ha mai cedimenti, sia che si tratti delle loro tipiche ballate come Only Love, sia che stia cantando pezzi più movimentati e pop quale la bella She Haunts My Dreams. I punti più alti nel finale, quando uno via l’altra sfilano una World Of Blue, in cui finalmente la band si lascia andare al fragore degli strumenti con una coda elettrica clamorosa, ed una Spiritual letteralmente da lacrime agli occhi, un pezzo di cui anche Johnny Cash aveva riconosciuto la grandezza. Un graditissimo ritorno per una delle band culto degli anni ’90.

Lino Brunetti

Spain (Josh Haden) © Lino Brunetti

Spain (Josh Haden) © Lino Brunetti

Spain (Josh Haden & Daniel Brummel) © Lino Brunetti

Spain (Josh Haden & Daniel Brummel) © Lino Brunetti

Fabrizio Cammarata © Lino Brunetti

Fabrizio Cammarata © Lino Brunetti

SUFJAN STEVENS “Silver & Gold”

SUFJAN STEVENS

Silver & Gold

Asthmatic Kitty/Goodfellas – Box Set 5CD

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E così Sufjan Stevens l’ha fatto ancora! Ricorderete senz’altro il cofanetto del 2006, Songs For Christmas, opera in cui raccoglieva tutti gli EP a tema natalizio, da lui realizzati per essere diffusi fra amici e parenti. Era una bizzaria già all’epoca, visto che la cartella stampa ci rendeva edotti circa l’avversione profonda di Sufjan per i suddetti motivi. Ma il cantautore del Michigan è un tipo ben strano ed imprevedibile, ormai lo sappiamo, e quella tradizione non l’ha di certo interrotta, tanto che oggi vengono raccolti in questo sontuoso Silver & Gold, i cinque volumi successivi, quelli presumibilmente effettuati tra il 2007 ed il 2011. Si tratta di 5 EP – Gloria, I Am Santa’s Helper, Christmas Infinity Voyage, Let It Snow e Christmas Unicorn – per quasi tre ore di musica che coprono all’incirca l’intero range espressivo di Stevens, da quello folk a quello rock, da quello barocco a quello lo-fi minimale, da quello orchestrale a quello capace di flirtare con l’elettronica (quest’ultima cosa particolarmente evidente nei pezzi di Christmas Infinity Voyage, il capitolo più strano ma anche quello meno convincente). Il repertorio non potrebbe essere più vario, includendo sia traditional conosciuti praticamente da tutti (Silent Night, Jingle Bells) che pezzi più o meno celebri dei più disparati autori (per dirne uno di quelli famosi, Santa Claus Is Coming To Town, in una versione stupenda), oltre ovviamente ad una marea di pezzi autografi e perfino una sua versione dell’Ave Maria di Shubert, attribuita inoltre a God Himself! In totale sono cinquantotto canzoni che vi allieteranno il Natale come non mai e che, ancora una volta, mostrano tutto il talento di uno dei più grandi songwriter della sua generazione. E’ infatti impossibile non sciogliersi di fronte a queste piccole carole, a questi bozzetti d’infinita dolcezza, a canzoni che riescono ad avvolgere con l’impagabile calore di una melodia, di un coro di voci o di una musicalità sempre memorabile. Ho fatto scorrere queste canzoni lungo un intero pomeriggio e la loro serena forza positiva mi è come entrata dentro, inducendomi quasi ad attendere il Natale con gioia e commozione. Numerosi gli ospiti ed i collaboratori, da Aaron e Bryce Dessner dei National a Richard Reed Perry degli Arcade Fire, passando per Sebastian Krueger degli Inlets, fino a diversi membri della famiglia Danielson. Essendo, basilarmente, un perfetto regalo di Natale, anche i gadgets non mancano: nel box troverete un bel libretto con note, testi e accordi delle canzoni, adesivi natalizi, tatuaggi temporanei, un poster, dei disegni psichedelici e via discorrendo. Che altro aggiungere? Sia pur con un po’ d’anticipo, tanti auguri a tutti!

Lino Brunetti

PS per attenuare un po’ il serpeggiante buonismo del post qui sopra, uno dei video che vi metto qua sotto, oltre a rendere evidente l’ironia che il buon Sufjan mette in questi suoi dischi, propone un bel Natale… horror!!

MARTHA TILSTON “Machines Of Love And Grace”

MARTHA TILSTON

Machines Of Love And Grace

Squiggly Records

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Confesso questa mia mancanza: fino a quando non ho ricevuto a casa una copia di Machines Of Love And Grace, Martha Tilston non l’avevo mai sentita neppure nominare. Eppure, basta una piccolissima ricerca su internet per scoprire che, dal 2000 ad oggi, sono diversi i dischi che la vedono protagonista. Inizialmente col duo Mouse (in pratica lei più il chitarrista Nick Marshall), poi attraverso una serie di dischi solisti che, con quest’ultimo, arrivano a quota cinque. Da aggiungere rimangono un ennesimo album (in free download), accreditato a Martha Tilston And The Woods, e la collaboraziione al disco degli Zero 7, Year Ghost. Inglese, figlia del cantautore Steve Tilston e figliastra della folk singer irlandese Maggie Boyle, Martha ha dunque un bel curriculum alle spalle ed anche una certa esperienza, come appare chiaro all’ascolto di queste sue nuove undici canzoni, che sono bellissime, tanto vale dirlo subito. La Tilston è la tipica cantautrice folk – ipotizziamo qualcosa tra Beth Orton ed Alela Diane – e se c’è un problema nella sua musica, è solo quello di giocare in un campionato affollato quanto mai. Peccare di sufficienza e liquidarla come l’ennesima cantautrice acustica, però, potrebbe davvero risultare uno sbaglio. La sua scrittura, magari non sempre definibile come originale, è a dir poco eccelsa, sia dal punto di vista strettamente melodico, che in rapporto al modo oculato con cui vengono gestiti i suoni che, in linea di massima, si mantengono minimali ma assai variegati nelle timbriche e nelle diverse sfumature che si susseguono. E’ così che a volte vieni colpito da un insieme particolarmente aggraziato (Stags Bellow), altre dal ricamare di una chitarra solista (quella del citato Marshall nella splendida Silent Women), altre ancora da un semplice backing vocal maschile (Blue Eyes) o da un insolito intro quasi psichedelico quale quello di Survival Guide. Lo svisare di un violino, il tocco di un pianoforte, l’intrecciarsi di corde elettriche ed acustiche, l’apparire di un autoharp o di un bouzouki, il felpato passo di qualche percussione o quello più impegnativo di un contrabbasso, sono gli elementi tipici di queste canzoni. Qualche pezzo farebbe la propria figura anche arrangiata da rock song, portandone chiaramente in vista i connotati (Wall Street, la memorabile More, Shiny Gold Car), qualcun’altra azzarda qualche sconfinamento, comunque sempre misurato (gli archi e quel pizzico d’elettronica che appaiono in Suburbia, le congas che accompagnano Butterflies, gli arrangiamenti più marcati di una psichedelica Let Them Glow, resa pulsante da un basso quasi dub). Come che sia, sono tutti esempi di un disco privo di cadute di tono, che sarebbe davvero un peccato far passare sotto silenzio. Il consiglio implicito mi pare chiaro: non fatelo!

Lino Brunetti

UFOMAMMUT + BOLOGNA VIOLENTA live @ Magnolia – 29 novembre 2012

Come giustamente mi faceva notare il mio amico Lino in quel del Magnolia, per assistere ad un concerto di Nicola Manzan, alias Bologna Violenta, bisogna arrivarci con un minimo di preparazione, altrimenti si rischia di rimanere quantomeno spiazzati davanti alla sua performance. Si presenta sul palco con chitarra, set di pedali e le sue basi, scatenando mezzora di inferno. Il suo grind core, mischiato ad elettronica (“altro che Skrillex” urla) punk, rumore puro, a volte spruzzate classiche, violenza e velocità è un’originale performance ai confini della musica. Poi bisogna riconoscergli grande ironia e un’ottima presenza, con quel suo sinistro fare luciferino, salta, implora drammaticamente pietà a dio, imbraccia un violino e lo tortura, insomma, come detto in apertura anche per chi è avvezzo già alla sua musica si rimane piacevolmente sorpresi. Immagino (e ho origliato) commenti di stupore, ma gli va dato atto di avere una coerenza esemplare nel portare avanti il suo non facile credo musicale. Dopo una breve pausa (insolitamente stringati i tempi questa sera) ecco gli Ufomammut, freschi di contratto con Neurot e di un tour europeo che ha ulteriormente consolidato la loro crescente fama. Si perché dopo la doppia release di Oro, le loro quotazioni sono in netta ascesa e decidono di prendersi un meritato periodo di riposo non prima di aver salutato il proprio paese con quest’ultimo show. Discreta la partecipazione di pubblico e la loro partenza è un diesel che lentamente si mette in moto, fino al raggiungimento del giusto regime e dell’esplosione che puntualmente avviene dopo pochi minuti. La presentazione del loro ultimo lavoro è compatta e sulfurea, suoni possenti e fortemente doom si alternano a piccoli momenti di quiete, spazzati poi via dalle impressionanti accelerazioni che ne caratterizzano il sound. Vita è un batterista che picchia come un dannato, Urlo da sfogo a basso ed headbanging, cimentandosi anche in un cantato proveniente dall’oltretomba, Poia piazza riff a ripetizione scatenando la sua barba contro l’audience. Un volume decisamente alto ma che permette di cogliere appieno tutte le sfumature del loro sound, una partecipazione dei tre caratterizzata da grande impegno (senza spiaccicare una parola, però) catalizzano l’entusiasmo del pubblico che ancora una volta ha avuto la sua sana razione di orecchie fumanti e pesantezze varie.

Daniele Ghiro

Bologna Violenta © Lino Brunetti

Bologna Violenta © Lino Brunetti

Ufomammut (Urlo) © Lino Brunetti

Ufomammut (Urlo) © Lino Brunetti

Ufomammut (Poia) © Lino Brunetti

Ufomammut (Poia) © Lino Brunetti

Ufomammut (Vita) © Lino Brunetti

Ufomammut (Vita) © Lino Brunetti