A poco più di due anni dall’omonimo esordio, tornano in azione gli ZEUS!, il duo composto dal bassista Luca Cavina (Calibro 35, Craxi, Incident On South Street) e dal batterista Paolo Mongardi (ex Jennifer Gentle, ora anche in Ronin, Fuzz Orchestra, FulKanelli ed al servizio di molti altri). Sono stati due anni intensi questi per i due, due anni passati a calcare palchi e a continuare a fare musica. Due anni che gli hanno permesso di far conoscere il loro nome anche fuori dai confini italiani, tanto che questo nuovo album, oltre che in Italia ed in Europa, sbarcherà pure negli Stati Uniti grazie alla Three One G di Justin Pearson (Locust, Swing Kids, Retox) ed alla distribuzione da parte di Rough Trade. In Opera,la cifra stilistica del duo non cambia rispetto all’esordio, procedendo piuttosto ad un più lucido affinamento. Nelle undici tracce qui contenute, il basso elettrico di Cavina trafigge coi suoi riff ed i suoi fraseggi metallici, mentre Mongardi dimostra ancora una volta di essere un batterista dalla potenza matematica. In bilico tra hardcore punk, metal e prog, i loro pezzi si stendono compressi ed intricati, violenti ed inarrestabili come Panzer, ma a loro modo raffinati per come sono costruiti in sezioni tutt’altro che semplici o figlie soltanto dell’aggressività. In qualche pezzo Cavina fa filtrare in filigrana la sua voce, che è più un urlo tra gli strumenti, in qualcuno appare un filo di tastiera, il theremin di Vincenzo Vasi o qualche noise ad opera di Nicola Ratti. In Sick And Destroy, il citato Justin Pearson dà sfogo ad una viscerale performance vocale, mentre memorabili sono i titoli di molti dei brani, vedi Lucy In The Sky With King Diamond, La Morte Young, Giorgio Gaslini Is Our Tom Araya, Bach To The Future o Blast But Not Liszt. E’ un disco, questo, che piacerà molto a tutti gli appassionati di musica estrema, a quelli che non hanno mai smesso di seguire tutto quanto sta tra gli Hella e le cose più potenti di John Zorn o Mike Patton. Bella anche la confezione e l’artwork curato da Mongardi e Carlotta Morelli, con gli insetti sul retro che, visto il titolo del disco, non possono che far venire in mente l’Opera di Dario Argento. Produzione, registrazione e missaggio di Tommaso Colliva, mastering dell’espertissimo James Plotkin.
Seguiamo i bergamaschi SAKEE SED fin dai loro inizi. Ecco qui una loro (quasi) nuova canzone (era in realtà già uscita in una compilation della community di DNA Concerti), Boccaleone, anticipazione di un loro imminente EP, in uscita per Appropolipo Records.
Novembre 1991. Entro dal mio spacciatore vinilitico preferito, ovviamente Carù Dischi, e mi compro, non uno, bensì due LP, diversissimi fra loro, in un colpo solo: uno è Levelling The Land dei Levellers, l’altro è Loveless dei My Bloody Valentine. Tornato a casa, li metto sul piatto e me li ascolto uno via l’altro. All’epoca ho diciott’anni, l’assurda convinzione di saperla lunga e, a primo ascolto, fra i due preferisco il disco dei Levellers; pensate fino a che punto può arrivare la coglionaggine! Passano i giorni e, nonostante la caratteristica di cui sopra, pure io mi rendo che non c’è proprio paragone e Loveless diventa una droga. Oggi, nonostante abbiano continuato a pubblicare un sacco di dischi (l’ultimo nel 2008), dei Levellers non si ricorda più nessuno, i My Bloody Valentine, invece, sono ancora un mito. L’abbiamo aspettato ventidue anni il seguito di Loveless, ventidue anni! Diciamoci la verità: eravamo tutti convinti che non sarebbe davvero mai arrivato, nonostante i tour degli anni recenti, nonostante l’uscita dal suo isolamento da parte di Kevin Shields, nonostante il programma di ristampe messo a punto l’anno scorso. E invece, infine, c’è, eccolo qui, esiste! Loveless fu un disco di portata letteralmente epocale: per la formazione irlandese trapiantata a Londra era soltanto il secondo album ma, in esso, il perfezionista Kevin Shields, aveva cristallizzato tutte le sue idee rivoluzionarie e aveva dato forma alla sua musica, nello stesso modo in cui uno scultore estrae delle figure dalla nuda pietra. Per far ciò erano stati necessari diciotto (!) ingegneri del suono (tra cui Alan Moulder) e centinaia di migliaia di sterline (c’è chi dice 350000, chi 500000) che mandarono praticamente in bancarotta la Creation di Alan McGee. Pet Sounds che incontra Metal Machine Music, la più famosa ed azzeccata definizione di questo ambizioso capolavoro, senza dubbio uno dei capisaldi della musica degli anni novanta, in cui un angelico pop dalle ascendenze spectoriane, si calava in mezzo a stratificazioni di feedback estatico. Ovvio che dare un seguito ad un’opera del genere era cosa da far tremare letteralmente i polsi. Negli anni, a più riprese si è parlato dell’uscita del seguito di Loveless, nel 1997 una prima volta, dieci anni dopo una seconda. Dalle 23.58 di sabato 2 febbraio, quando è stato messo ufficialmente in vendita sul sito della band, quel seguito, MBV, è diventato realtà. E com’è, allora, questo tanto agognato disco? Non è e non poteva essere un capolavoro pari a Loveless, ovviamente, però non è neppure quella delusione che in molti temevamo. Scritto e forse registrato in un arco di tempo enorme, alla fine questo è, il resoconto di ventidue anni di esperimenti e ripensamenti, nonché di cambi di passo. Questa lettura critica è confermata dall’ascolto del disco. La prima traccia in scaletta, She Found Now, è la più diretta connessione con il lavoro precedente, tanto da sembrarne una outtakes: melodia Beach Boys seppellita in una nuvolaglia noise, mood avvolgente ed onirico. Only Tomorrow parte con un potentissimo basso fuzz e continua seppellendo la sua melodia sotto reiterate stratificazioni di distorsione, spesse come colate laviche, e un po’ lo stesso fa Who Sees You, avendo però dalla sua un tratteggio più indistinto, quasi astratto. Ci si inizia ad allontanare dai My Bloody Valentine più noti con Is This And Yes, dove Bilinda Butcher canta su di uno spesso bordone d’organo, con la batteria, ipnotica, a scandire il tempo sui tom. Decisamente pop i due pezzi seguenti: If I Am pare una melliflua ed intrigante loro versione degli Stereolab, mentre New You espone addirittura una leggerezza zuccherina priva di spigoli e rumore. Arriviamo così agli ultimi tre pezzi, quelli presumibilmente concepiti in tempi più recenti: In Another Way incalza con un tambureggiare ritmico mentre attorno ad esso i suoni s’irradiano come lamine taglienti, Nothing Is ha un andamento tra techno e kraut-rock, con la batteria tribale raddoppiata da distorsioni ossessive, da vero trip psichedelico – peccato solo che si fermi dopo neppure quattro minuti, questo era uno di quei pezzi che poteva andare avanti all’infinito. Il brano più sconvolgente è però proprio l’ultimo, Wonder 2, una cosa davvero aliena, che dà le stesse sensazioni che potrebbe dare il prendere il volo per lo spazio siderale su di una giostra impazzita: la melodia pare ricostruita da un collage di nastri in reverse, l’amfetaminico tessuto ritmico pare estrapolato dai dischi di Aphex Twin ed il tutto è contornato da sfasatissimi echi e da grasse pennellate di rumore. Se è questo quello su cui stanno lavorando, fin da adesso non vediamo l’ora di sentire il loro prossimo disco. Tra ventidue anni…
Immersi in quell’oceano di informazione tipico dei giorni nostri, è sempre difficile individuare bands emergenti valide che non si confondino nell’esasperato caos e sovraesposizione generale.E’ per puro caso che, qualche mese fa, ho assistito ad uno splendido ed inaspettato concerto (“The midnight show!”) semi-acustico di Pete Ross e Susy Sapphire, i quali si esibivano su di un piccolo palco, con un attento percussionista, davanti a poche persone.A catalizzare l’attenzione fu subito la presenza scenica di Pete che, nonostante il set semi-acustico, chiese spazio (solitamente, mi ha detto, suonano con una band elettrica e decisamente più r’n’r!!) seguito dalla ipnotica bellezza di Susy, statuaria con il suo fido basso Fender.Sintomatica, per capire il loro suono, la fine di questo piccolo show: hanno eseguito una splendida These boots are made for walkin’ di Nancy Sinatra a due voci (quella di Pete e Susy) seguita da una bellissima rendition di Wayfaring Stranger, un traditional affrontato, tra gli altri, anche dal mitico Johnny Cash.Pete è australiano e si porta con sé il tipico suono del deserto (da Nick Cave al romantico “twang” chitarristico, sino a lambire territori waitsiani).Questo è il suo terzo disco ed arriva dopo che lui ha già girato on the road mezzo mondo, compresi diversi tour australiani come chitarrista di Dan Brodie, artista di successo della EMI.Rollin’ on down the lane è la novità di questi giorni: registrato da Stefano Manca allo studio Sudest di Lecce, con arrangiamenti e mixing di Ivan A. Rossi (Zen Circus, Bachi da Pietra,….) e masterizzato da Giovanni Versari (Nautilus).Pleased to meet you apre questo album con una strepitosa alternanza di voci ed uno stupendo organo (presumibilmente Hammond C3 valvolare) che ci guida lungo un percorso con evidenti richiami a Nick Cave (periodo The good son).Si prosegue con l’irresistibile “twang” chitarristico di Devil inside (della quale gira anche un affascinante video che sfrutta con maestria il contrasto tra bianco-nero e colore girato dalla regista Viola Barbato).Grande versione di Rake, originariamente dell’amato Townes Van Zandt (dall’album Delta momma blues del 1971), virata su un tessuto cadenzato e tribale.Late last night è calata in uno scenario notturno e oscuro, come la sofferta To the wind.Altra cover adatta alla perfezione allo stile di Pete Ross e la sua band è Jesus gonna be here di Tom Waits, sviluppata su trame fumose e con una strepitosa interpretazione vocale di Pete.Temi ricorrenti di queste canzoni sono la sfortuna, il dubbio, il pentimento e il mistero, che hanno da sempre accompagnato certo rock decadente e maledetto.E’ sempre un piacere ascoltare dischi come questo.Irrinunciabile per tutti gli estimatori di Nick Cave, ma consigliato a tutte le persone che apprezzano la buona musica!
Non che corressero il rischio, ma con un nome quale HOW MUCH WOOD WOULD A WOODCHUCK CHUCK IF A WOODCHUCK COULD CHUCK WOOD?, i tre torinesi (Gher, Coccolo e Iside) che si nascondono dietro questa sigla, ho idea che possano scordarsi la possibilità di diventare delle star. Sono partito scherzando, ma è invece serissimo questo progetto che, dopo una manciata di CDr ed uno split coi Father Murphy, arriva oggi all’esordio con questo omonimo album, pubblicato solo in vinile. Poca luce e molta oscurità nelle sei tracce che lo compongono: For Nobody inizia con un plumbeo arpeggio di chitarra in primo piano, mentre sotto di esso una voce mormora chissà cosa ed in lontananza si odono malefiche folate noise. Joy And Rebellion, che ha il passo catatonico degli Earth più malati, ci aggiunge giusto un rintoccare percussivo mortuario, mentre Save Us punta più sulla distorsione ma, nonostante il titolo, non c’è nulla di liberatorio in essa. Davvero ottima la lunga In Aria, che apre la side B: un arpeggio che pare estrapolato da un vecchissimo disco dei Cure, ma come suonato dai Sunn O))), la voce narrante filtrata, agghiaccianti brusii noise dalle retrovie, un pezzo davvero magistrale. Leggermente più convenzionale le ultime due tracce: Oh Dark scopiazza spudoratamente il Michael Gira cantautorale più dark, The Rock, con la voce che borbotta disturbante, ha delle chitarre quasi epiche, a modo loro sulla scia dei Godspeed You! Black Emperor. Un bel disco, per gli amanti delle cose più underground.
A tre anni di distanza dal precedente lavoro, i marchigiani EDIBLE WOMAN,tornano con il loro quarto disco, ancora una volta prodotto da Mattia Coletti e registrato praticamente in presa diretta. Di tutti i loro album, questo è probabilmente il più ambizioso ed il più lucido nel propugnare una forma canzone complessa ed originale, ormai ben oltre le radici post-punk evidenti all’inizio di carriera. Lo dimostra subito una canzone tra pop e post-rock come Heavy Skull e ancora di più l’andamento ben poco lineare, con organo, chitarre e ritmi ad intrecciarsi sapidamente con la voce, di un pezzo art-rock come Safe And Sound. Anche i pezzi che seguono proseguono lungo questo tracciato: vedi il piglio chitarristico wave di Psychic Surgery, l’incalzare allucinato della pianistica A Hate Supreme, il feeling prog di una lunga e vibrante Cancer. Un mood progressive, forse pure troppo, è riscontrabile anche in Money For Gold, mentre Nation ha un tocco più stilizzato ed inquieto, con un battito minimale ed una chitarra dai risvolti quasi blues, sotto un cantato Joy Division. Tutto ad altissimi livelli il finale di programma: Call Of The West/Black Merda è magistralmente ipnotica e visionaria, con una coda chitarristica pregnante, The Action Whirlpool è una ballata psichedelica, graziata da l’innesto di una tromba, subito bissata da un’altra psych-ballad, quasi a là Flaming Lips, come Will. Davvero un’ottima prova per gli Edible Woman, questa.
L’accoglienza con le melodie brillanti di Lei Dice Ormai, ci parla di un secondo album che fa un bel passo avanti rispetto all’esordio di tre anni fa. E’ il primo pezzo di Blah Blah Blah, nuovo disco dei, parzialmente rinnovati, VENUA di Bergamo. Ai membri storici, Samuele Ghidotti e Jodi Pedrali, si aggiungono oggi Fabio Dalè al basso ed il Jennifer Gentle Marco Fasolo alla batteria e alla produzione del disco. Le sonorità che facevano già bella mostra di sé nel primo album, oggi vengono rilanciate con maggior efficacia, con un suono più rifinito e attraverso una più matura ed oculata scrittura. Le ascendenze rimangono più o meno le stesse: i sixties pop e rock, il surf, un po’ di psichedelia o di blues. Brani come 9 Settembre o Se Vuoi Devi, fanno pensare ad una versione italianizzata degli ultimi Black Keys, Aprile Dolce Dormire, uno dei pezzi più platealmente rock in scaletta, non sarebbe stato male nel disco solista di Jack White, la sbarazzina ed ironica Bang!, al suo mood anni sessanta, aggiunge una sfumatura morriconiana. I sixties furoreggiano inoltre nelle trame della bella Alice, dove è l’organo lo strumento cardine, o nel pop virato surf di Sunday. Solo due, ma di gran livello, le ballate in scaletta: la notturna, con un bel dialogo piano-chitarra acustica, Via Petrarca, e la malinconica Nuova Amsterdam, con un sapido intreccio di chitarre che continua nella psichedelica A Presto.., un po’ la coda strumentale del pezzo precedente. Un disco di svagata ma non disimpegnata leggerezza. Da sentire.
Quartetto formato da membri di The Death Of Anna Karina, Nicker Hill Orchestra e Workout, gli ORNAMENTS si erano fatti conoscere attraverso l’attività live ed un demo venduto ai concerti, stampato in mille copie. L’esordio vero e proprio arriva oggi con Pneumologic, disco assai interessante, a partire dalla curatissima confezione in cartoncino e dallo splendido artwork di Luca Zampriolo. In quasi un’ora di durata, i quattro – coadiuvati da qualche ospite – danno vita a sette, mediamente lunghe composizioni, fatta eccezione che per due episodi, interamente strumentali. Partiamo da questi ultimi: in Breath, il cantato scuro ed affascinante di Silvia Donati, dona sfumature notturne e fumose, quasi mitteleuropee, al sound del quartetto. Diverso il contributo di Tommaso Garavini, autore anche del testo, in L’ora Del Corpo Spaccato, un urlo neurosisiano in bilico tra potenza e rabbia trattenuta. I restanti pezzi stanno tra pesanti reminiscenze post-rock – genere a cui gli Ornaments senza dubbio appartengono – e deviazioni pulsanti in odor di doom: le cavalcate elettriche post sono in prima linea in pezzi ipnotici come Pulse, Aer e Galeno – le ultime due vicine anche a certa epica Godspeed You! Black Emperor – mentre soprattutto in Pneuma le chitarre si inspessiscono riffeggiando metalliche e plumbee. Non è un suono inedito quello degli Ornaments, ma la materia la sanno maneggiare bene, tanto che Pneumologic si rivela un must per gli appassionati dei generi citati.
Trio insolito fin dal nome che si sono scelto, quello composto da Gabriele Ciampichetti (chitarra, basso, electronics, voci), Matteo Dicembrio (synth, campionamenti, voci) e Stefano Orzes (batteria, percussioni). Con Urna Elettorale – poteva esserci titolo più attuale di questo, sto mese? – THE CRAZY CRAZY WORLD OF MR. RUBIK pubblicano il loro secondo album, disco impregnato, nei temi, di questi assurdi tempi che viviamo, mentre musicalmente è ancora una volta orientato a mescolare rock, elettronica e percussivismi etno. Le si ritrovano subito, queste ultime, in Sebele, sorta di filastrocca wave che apre il disco, ma pure in Pabababè, altrimenti attraversata da liquide chitarre psichedeliche. La Nona Rivoluzione Silenziosa (Del Lighi Gighi Gi) scurisce i propri riff di chitarra, forse in linea con quanto racconta e pure Cambiamo Forma, brano wave ipnotico, guidato da una tastiera ovattata, ha un tono abbastanza dark. Per il resto, Fantasamba, di samba ha assai poco, in compenso espone un ossessivo fraseggio chitarristico, la lunga title-track ha un andamento tribalistico e la rilettura di Live In Punkow dei CCCP, in salsa etno-sintetica, anticipa la chiusa visionaria di E’ Tempo Di…. Assai piacevole nella gran parte dei suoi episodi, il disco non mantiene, però, tutto quanto promesso. Non so se è una faccenda di registrazione o di produzione, ma nell’insieme suona un po’ troppo piatto e freddo, come se la band avesse viaggiato con il freno a mano tirato. Quello che qui s’intuisce grande – e che probabilmente lo diventerà dal vivo – con un approccio più deciso avrebbe potuto esserlo ancora di più. Bravi comunque…
Il debutto dei livornesi PLATONICK DIVE ci pone di fronte al più tipico dei dilemma critici: un’opera va valutata semplicemente per la qualità della musica che contiene o, piuttosto, per come essa viene inserita in un quadro più ampio? E’ una domanda retorica, ovviamente, che però ci aiuta a parlare del contenuto di Therapeutic Portrait. L’apertura dell’album è affidata ad un brano intitolato Meet Me In The Forest: l’inizio è all’insegna di un’elettronica pulsante, fino a che non entrano in scena le chitarre e tutto si muove verso il più classico crescendo post-rock. In linea di massima, queste sono le coordinate su cui si muoverà tutto il loro lavoro, tra momenti di stasi seguiti alle classiche detonazioni chitarristiche, inframmezzate da diversi momenti in cui ha un maggior predominio qualche passaggio d’elettronica al confine con la glitch music. Il tutto è ben fatto e non si può dire che le tracce – una per tutte, l’ottima Wall Gazing – lascino indifferenti. Nello stesso tempo, però, l’ascoltatore più smaliziato (ma forse neanche tanto) non potrà che ricondurre quanto ascoltato, in quel dato passaggio ai Mogwai, in quell’altro agli Explosion In The Sky, in quell’altro ancora ai 65DaysOfStatic, e così via discorrendo. Mancano un po’ della capacità di sorprendere, per farla breve, le canzoni dei Platonick Dive, rendendo il loro album più che un film già visto, il classico esempio di “disco di genere”. Ben fatto, ribadisco, ma ancora troppo prevedibile nelle soluzioni adottate e troppo ligio alle “regole”.