Già autori di un paio di album, uno del 2004, l’altro del 2007, i newyorkesi VIETNAM erano quasi dati per dispersi. Negli ultimi anni, il loro deus ex machina, il cantante e chitarrista Michael Gerner, s’era dedicato ad un altro progetto (D.A.), alle colonne sonore ed allo studio di soundscapes ambientali fatti coi synth. Tornato a New York, dopo anni passati sulla West Coast, ha rimesso in piedi la sua vecchia band, rinnovandola completamente ed assestandola a sestetto, comprensivo oggi anche di un violinista e di un moog player. Con i pezzi legati fra di loro da field recordings, effetti e partiture sperimentali, an A.merican D.ream è in realtà una gran bella collezione di canzoni, piuttosto classiche nella scrittura e visionarie nella realizzazione. Gerner è una sorta di Pall Jenkins innamorato degli Stones, di Dylan, di tutto un tipo di psichedelia filtrato dalla passione per gli Spacemen 3 e per tutti quei gruppi retromaniaci a là Brian Jonestown Massacre. Un possibile gruppo affine potrebbero essere The War On Drugs: stesso è l’attaccamento alla tradizione rock, stessa è l’attitudine a filtrarla attraverso un approccio moderno e contemporaneo. E sia pur non dimostrando una gran varietà di scrittura, sono le canzoni, spesso in forma di ballata, a conquistare qui dentro: dalla verbosità dylaniana, chiusa da una patina di distorsione, di Stucco Roofs, al feeling anni ’70, con tanto di percussioni, dell’ottima Kitchen Kongas, dai toni bluesy e vagamente sognanti di Fight Water With Fire, al country rock visionario e profumato di Mexico di Flyin’, per giungere all’epica W.orld W.ar W.orries o agli accenti psichedelici di I Promise… Things Are Gonna Get Better, questo è un disco che sa tener desta l’attenzione. Una band da seguire.
Ogni mese la chicagoana Thrill Jockey (distribuita in Italia da Goodfellas) pubblica quattro album. Vediamo, in breve, quali sono i quattro di aprile. Partiamo da JOHN PARISH, il grande songwriter, chitarrista e produttore (celeberrimo il suo sodalizio con PJ Harvey e note le sue frequentazioni italiane), che, in Screenplay, raccoglie alcuni episodi tratti dalle colonne sonore da lui scritte per film quali “Nowhere Man”, “Sister”, “Plein Sud” e “Little Black Spiders”, opere di registi quali Ursula Meier o Patrice Toye. In bilico tra reminiscenze morriconiane, scampoli di lounge music, chitarre a là John Barry e momenti capaci con sapidi tocchi di creare un’atmosfera, le diciannove tracce qui contenute sono godibilissime anche senza il supporto delle immagini. Ottimo! Questa la formazione che porterà in giro il disco dal vivo: JOHN PARISH – chitarre, tastiere, vocals, JEAN-MARC BUTTY – batteria, MARTA COLLICA – tastiere, vocals, GIORGIA POLI – basso, vocals, JEREMY HOGG – chitarra, lap steel.
Interamente strumentale è anche la musica composta dai BARN OWL, il duo formato da Jon Porras ed Evan Caminiti. V segna un deciso scarto rispetto alle prove precedenti, lasciandosi alle spalle i drones chitarristici avant-folk e le derive rock psichedeliche, in favore di una musica più elettronica, tra dub e stratificazioni ambient. Non che non abbiano un loro fascino queste sonorità, ma il genere è davvero inflazionatissimo e noi, probabilmente, preferivamo i capitoli precedenti.
Sono un duo anche gli ZOMES, un tempo progetto personale del solo Asa Osborne (chitarrista dei Lungfish), oggi ampliatosi con l’innesto della vocalist Hanna degli Skull Defekts. In Time Was, il primo costruisce fraseggi e drones con l’organo, ipnotici, fluttuanti, magmatici, la seconda vi canta sopra delle melodie di volta in volta austere o sognanti, evocative e misteriose. Sotto, una drum machines tiene il ritmo metronomicamente, accentuando la minimale ripetitività del tutto. E’ chiaro quanto anche qui non ci sia nulla d’inedito, ma le varie canzoni non lasciano indifferenti e non è niente male lasciarsi cullare da queste oppiacee bolle velvettiane e dark. Da sentire.
Arriviamo così ai LIFE COACH, nuovo progetto di Phil Manley dei Trans Am che, alla sua nuova band, ha dato il nome del suo album solista di un paio d’anni fa. A dargli manforte in questa sortita, il batterista Jon Theodore ed il chitarrista Isaiah Mitchell. Alphawaves, disco quasi interamente strumentale,si apre con un drone di tanpura (Sunrise), prosegue con i sette turbinanti minuti della title-track, un affondo kraut-rock degno dei Neu, con batteria motorik e uno stilizzatissimo solo di chitarra, si cheta tra le rilassate trame di Limitless Possibilities, sprofonda tra le sospensioni psichedeliche della bellissima Into The Unknown, torna a farsi terreno tra i riff e la voce in falsetto di Fireball, funambolico hard-rock anni settanta, vibra chitarristicamente con la breve Life Experience, diventa moderatamente tamarro con l’hard-prog di Mind’s Eye, finendo poi col chiudere il cerchio con gli otto pulsanti ed oceanici minuti di Ohm, ennesimo drone che si ricollega in qualche modo all’inizio dell’album. Gran bel dischetto questo dei Life Coach; Phil Manley non ha ancora smesso di darci ottima musica.
Il suo album d’esordio, SIMONA GRETCHEN, lo pubblica per Disco Dada nel 2009. Gretchen Pensa Troppo Forte è un disco che da subito si fa notare per l’incredibile schiettezza dei suoi testi, tra ricerca viscerale e cerebrale autoanalisi, e per una musica scarna ma espressiva, in grado con pochi tocchi di dire moltissimo. Un cantautorato il suo, capace di guardare ad alcuni grandi maestri del rock italiano (in molti hanno tirato in ballo Giovanni Lindo Ferretti), ma di specchiarsi anche in musicisti a lei coevi (vedi il Vasco Brondi de Le Luci Della Centrale Elettrica). I riconoscimenti non mancano, il suo nome inizia a girare. Nel 2011 pubblica un 7″ con una nuova canzone ed una cover di Venus In Furs dei Velvet Underground e, nel 2013, arriva finalmente il suo secondo album, il recentissimo Post-Krieg. Annunciato dalla dichiarazione di essere l’ultimo della sua carriera, quest’album è una svolta decisa e netta nel fare musica di Simona. Post-Kriegè un disco tutt’altro che facile, per via di una certa oscurità che lo permea, per come vengono affrontate certe tematiche di grande profondità, per l’utilizzo di soluzioni musicali assai meno inquadrabili rispetto a quelle dell’esordio. Va da sé che tutte queste caratteristiche fanno di Post-Krieg uno dei dischi italiani più interessanti ed evocativi del momento. Contattare Simona per saperne di più è stato un piacere: la lucida intensità che ha messo nelle sue canzoni, si ritrova in qualche modo anche nelle sue risposte alle nostre domande.
Il tuo ultimo album segna un deciso scarto, sotto tutti i punti di vista, rispetto al tuo esordio, passando da un cantautorato, magari non classico ma comunque come cantautorato identificabile, a sonorità più coraggiose e meno accomodanti. Come è avvenuto questo passaggio?
Non ho mai avuto eccessiva dimestichezza con il cantautorato. Gretchen pensa troppo forte risulta cantautorale in quanto nato dall’esigenza di scrivere, innanzitutto, i testi dei brani che lo compongono. Gli arrangiamenti sono minimali, musicalmente è plasmato dalle liriche. Post-Krieg ha avuto in tutto e per tutto una genesi inversa: è nato da un’idea precisa cui sarebbe ruotato intorno tutto l’album, e le parole si sono adattate alla musica, sviluppatasi a partire dall’intreccio di basso e piano distorti, vero scheletro di questo secondo disco.
Ho letto che alla base di quest’album ci sono una serie di esperienze personali e la lettura di autori come Artaud, Jung, Nietzsche…
Gli autori che citi fanno da sfondo all’album, che è in realtà tremendamente autobiografico. In particolare la guerra dei princìpi, cui fa riferimento Artaud nel suo Eliogabalo, è il filo conduttore dei brani. Krieg era il termine che meglio potesse evocare quella guerra, materiale e spirituale, che consuma l’individuo scisso fra tendenze di natura opposta. Il conflitto fra principio maschile e femminile, come fra libertà e sudditanza, o fra promiscuità e isolamento – solo per fare qualche esempio – è al centro del discorso.
Dal punto di vista lirico, mi sembra che ci sia stato un passaggio dall’autoanalisi credo autobiografica dell’esordio, all’utilizzo di un simbolismo più visionario ed universale (senza che, come appunto dicevi, questo renda meno personale il tuo discorso). Sei d’accordo?
Non sono solo d’accordo: l’intento era esattamente quello. Non appena l’album ha cominciato a delinearsi nella mia mente ho capito mi avrebbe permesso, pur parlando di me (per quanto in terza persona – escamotage essenziale per poter essere sufficientemente spietata nei confronti di me stessa), di abbracciare (più) ampi territori. Era come se avessi trovato un codice, una lingua in cui esprimere quello che fino a quel momento non mi era stato possibile tradurre in versi.
In sede di recensione, avevo ipotizzato che il tema principale dell’album fossero le battaglie dicotomiche dell’essere umano. Vuoi parlarci delle tematiche di Post-Krieg? C’è, come pare, un legame forte fra le varie canzoni?
Infatti lo sono. Altro tema presente in tutto l’album è quello della fine. La fine della vita, di un ciclo, di un’idea; per me, poi, era naturale riferirmi anche alla fine dello stesso progetto musicale, sapendo di stare lavorando all’ultimo disco di Simona Gretchen. L’accettazione del presente in Post-Krieg finisce spesso per tradursi nell’accettazione della fine.
Riferendomi sempre alla domanda precedente, credo che questa dicotomia, si ritrovi anche negli altri elementi dell’album, partendo dalla copertina, per finire ai suoni, capaci di essere duri e distorti, ma pure d’abbandonarsi a momenti di più quieto lirismo. Era anche questo un aspetto preso in considerazione?
Un sacco di dettagli, anche apparentemente irrilevanti, sono tutto meno che casuali. La stratificazione di significati corrisponde visivamente ad una stratificazione simbolica. A questo proposito devo ringraziare eeviac e Karamazov, autori dell’artwork, per la pazienza e la dedizione con cui si sono calati nell’immaginario che stavo proponendo loro e per il lavoro splendido che hanno portato a termine. In Post-Krieg convivono tante anime (anche a livello sonoro, verissimo), ma, in un certo senso, in esso tutto si può ricondurre ad un qualche… dualismo. Ma non è di una convivenza pacifica che si parla: quelle anime, dal momento in cui prendono coscienza di loro stesse, sono in guerra, e spargono sangue, dentro e fuori l’entità che le ospita. Una ferita interiore, d’altra parte, porta spesso (anche in maniera non conscia) a ferire altri individui.
Ad un ascolto distratto, si potrebbe avere l’impressione che in Post-Krieg ci sia una preminenza dei suoni rispetto alle parole, visto quanto queste siano spesso seppellite nel mix sonoro. E’ evidente che non è così però… Come mai la scelta, credo consapevole, di rendere a volte i testi di queste canzoni difficilmente intellegibili?
Se non li avessi resi poco intellegibili l’attenzione si sarebbe focalizzata prevalentemente su di essi. Soprattutto dopo un album come il precedente. In Post-Krieg, invece, le parole andrebbero analizzate, nel caso lo si voglia fare, o prima, o, meglio ancora, dopo i primi ascolti. La forza di questo disco credo venga dall’impatto complessivo di sonorità, fonemi, versi. Vorrei che prima si venisse investiti dalle vibrazioni, dalle basse frequenze. Poi, eventualmente, si puntasse il microscopio su questo o quell’altro aspetto, testi compresi. Penso bisognerebbe perdere la pessima abitudine di considerare le liriche ancor prima della musica: non è innanzitutto di musica che stiamo parlando? O, meglio ancora, di un intreccio inscindibile di musica e parole? Non si tratta di preminenza dell’una sull’altra cosa.
Altra impressione, ascoltando Post-Krieg, è che sia un album da ascoltare interamente, che sia un’opera da assorbire nella sua unitarietà, che le varie canzoni assumano un valore aggiunto se ascoltate una in fila all’altra. E’ così? Sei d’accordo? Come ti poni nei confronti del modo d’ascoltare la musica che molti hanno oggi? (canzoni non album, ascolti su YouTube, playlist personalizzate etc.)
Secondo me queste canzoni, ascoltate una di seguito all’altra, e, soprattutto, in questo preciso ordine, possono assumere un valore aggiunto. D’altra parte si tratta più di una sorta di concept che di una raccolta di brani (cosa cui si potrebbe ricondurre, al contrario, Gretchen pensa troppo forte). Fra parentesi: ognuno ascolta ciò che gli pare come gli pare. Voglio dire: l’opera non è di chi la fa, non lo è mai stata e difficilmente un giorno lo sarà. Un musicista concepisce generalmente, in ogni caso, anche ogni singolo brano come un’opera a sé. Detto questo, non afferro nessuna buona ragione per cui si dovrebbe correre il rischio di perdere sfumature di un disco non ascoltandolo (almeno una volta) da cima a fondo.
In questo disco, con te, ci sono grandissimi musicisti quali Nicola Manzan o Paolo Mongardi. A parte ovviamente il suonare, qual è stato il loro contributo nella realizzazione di Post-Krieg? In che modo hai collaborato coi tuoi musicisti nella realizzazione di questo album?
E’ semplice: di Paolo Mongardi, così come di Nicola Manzan o Paolo Raineri, mi fidavo abbastanza da poter lasciar loro carta bianca. Ed è esattamente quello che ho fatto. Penso abbia dato un’impronta significativa al disco, oltre ai loro interventi, la produzione artistica di Lorenzo Montanà. Personalmente sono entusiasta del lavoro che hanno fatto.
Mi piace molto l’oscillazione fra vari tipi di sonorità a cui alludevi prima: si possono riscontrare momenti duri tra hard e stoner, una sensibilità più sperimentale che guarda al weird-folk (quasi medievaleggiante), il post-punk, certe cose che rimandano a grandi esperienze del rock italiano, tutti elementi poi fusi in un sound personale. Che tipo di ascoltatrice sei? E come, poi, i tuoi ascolti si riversano nella tua musica?
Non ne ho idea, mentre lavoro a qualcosa fra l’altro mi impongo di non ascoltare nulla. Posso passare mesi senza un CD nello stereo dell’auto. Siamo rielaboratori perfetti, quello che abbiamo ascoltato plasma il nostro modo di creare altra musica senza che razionalmente ci sia bisogno di far nulla. La cosa che mi piace di più di Post-Krieg è che in esso è presente l’eco di tante cose musicalmente fondamentali per me, anche distanti anni luce le une dalle altre. Sono lieta in Post-Krieg si possano sentire gli echi di classica e post-core, kraut e chamber music, cantautorato e stoner, ma lo sono soprattutto del fatto ci siano finiti in maniera del tutto inconsapevole.
Quello che dicevo nella domanda precedente, ha senz’altro il suo culmine in Everted, la trilogia che chiude l’album…
Everted (che significa estroflesso) è la discesa all’inferno finale. E’ una suite tripartita, che coincide con il lato B dell’LP. Avevo in mente Sanguineti, la sua raccolta giovanile Laborintus, in particolare, il continuo riferimento alla palus putredinis che è sorgente di vita e di morte. L’analisi (la psicoanalisi soprattutto) è affine all’estroflessione, in un certo senso. In questa culla (un po’ bara, un po’ alcova) il cerchio si chiude; princìpi (e organi) sono indistinguibili; la guerra (krieg), così come la catarsi, è al suo culmine.
Ho lasciato alla fine la domanda che avrei voluto farti come prima. Davvero con quest’album chiudi la tua carriera musicale o è l’ultimo capitolo di una fase, in attesa dell’apertura di un’altra? Da quello che ho sentito fino ad ora, credo che tu abbia ancora molto da dare alla musica italiana…
Questo progetto è chiuso, non ci saranno altri album di Simona Gretchen. Non è detto aprirò con qualcun altro un nuovo progetto. Non è detto neppure continui a suonare. Non sto pensando al futuro, e non voglio pensarci; non voglio sapere se avrà a che fare con la musica o meno: vorrei dare un’occhiata in giro. In attesa di input abbastanza forti da catturare la mia attenzione, in ogni caso, non credo mi annoierò: ci sono un sacco di cose che nell’ultimo paio d’anni ho rimandato ad oggi. Ora come ora, ad ogni modo, trovo fantastico non sapere cosa farò né dove sarò fra qualche settimana, mese o anno.
Nell’arco di circa un mese, gli spettatori d’area milanese, hanno avuto l’opportunità di vedere in azione due delle più leggendarie indie-rock band americane, entrambe nate negli anni ’80, entrambe con un nuovo disco recentemente pubblicato ed entrambe alla loro unica data italiana. Partiamo dai Dinosaur Jr, giunti a metà febbraio in un Bloom prevedibilmente sold out. Ad aprire la serata, un bel set voce e chitarra ad opera dell’ex Come e Codeine (ma a dire il vero anche molto altro) Chris Brokaw, intento a presentare le canzoni del suo recente Gambler’s Ecstasy. Una mezz’oretta introduttiva, che ha anticipato il profluvio di distorsione che sarebbe di lì a poco arrivata. Un concerto dei Dinosaur Jr è, ancora oggi, una prova per i propri paudiglioni auricolari. Nessun fronzolo, nessun elemento accessorio: solo J Mascis, la sua chitarra, il muro di amplificatori Marshall, e la martellante sezione ritmica operata da Lou Barlow e da Murph. Rispetto all’ultima volta che li avevo visti, un paio d’anni fa, in cui m’erano parsi un po’ svogliati, stavolta son sembrati in gran forma. Mascis rimane il solito orso che, se dice qualche parola, lo fa quasi grugnendo, però la sua chitarra è ancora capace d’infliggere sferzate d’elettricità, ed è proprio quest’ultima, come sempre, la protagonista della serata. In un’ora e mezza di show e sedici canzoni, hanno saccheggiato in lungo ed in largo il loro repertorio, attingendo dall’ultimo I Bet On Sky con moderazione (giusto Watch The Corners e Rude), e per il resto affidandosi a pezzi accolti con entusiasmo come Wagon, Out There, Feel The Pain e In A Jar. Il meglio nel finale, quando parte la sempre attesa Freak Scene e quando superano la soglia del dolore, nel bis, con l’accoppiata Just Like Heaven/Sludgefeast. Quasi un mese dopo, il 10 marzo, è stata invece la volta degli Yo La Tengo, finalmente tornati a Milano dopo una lunga assenza. Sul palco del Limelight – un ex cinema, ora una discoteca che, probabilmente, molti di voi ricorderanno col nome di City Square o Propaganda – campeggiano tre alberelli cartonati, i quali rimandano ovviamente al grande albero che fa bella mostra di sé sulla copertina dell’ultimo, ottimo Fade. Unica, piccola concessione scenografica in un concerto che, per il resto, ha emozionato fondamentalmente con della grande musica. Grandissima idea del tour che stanno portando in giro in questo momento, è quella del doppio set: in pratica, ad un’oretta completamente acustica, ne segue un’altra, al contrario, del tutto elettrica. Qui a Milano, salgono sul palco abbastanza puntuali: Ira Kaplan con maglietta a righe ed il solito aspetto da bravo ragazzo, Georgia Hubley con camicia da boscaiola e la solita timidezza imbronciata, James McNew grande, grosso e impassibile dietro il suo basso e alle tastiere. La prima parte dello show è quella acustica: i tre sono sul palco seduti, in fila tutti su una stessa linea. Suonano quasi come un sussurro gli Yo La Tengo, delicatissimi, intrisi di dolcezza poetica. Giusto qui e là entra una linea di basso a movimentare le acque, fa capolino una tastiera a riempire un po’, oppure la batteria ha un piccolo impeto, ma in generale, questa prima parte, rimane un momento come sospeso nell’aria e tenerissimo. Ottima la versione della nuova Ohm, splendide I’m On My Way, l’incantevole Cornelia And Jane e Decora (A Rehearsal), tutte presenti in un set assai poco d’impatto ma, comunque, apprezzato lo stesso dal pubblico. E’ chiaro, però, che tutti si aspettavano la parte elettrica dello show. Al termine del set acustico, i tre scendono dal palco, il quale viene riassestato e, dopo una pausa a dire il vero un po’ lunghetta, vi tornano sopra cambiando radicalmente sonorità. Tanto la prima parte era stata lieve e sussurrata, tanto questa è rumorosa e acida. Paiono un’altra band, ma chi conosce la discografia degli Yo La Tengo, sa che entrambi gli elementi fanno parte del loro modo d’essere. Detta subito il passo a quello che seguirà l’attacco con Stupid Things, un concentrato di feedback e dissonanze elettriche, presto raddoppiate dall’ipnosi sonicyouthiana di una stratosferica Flyng Lesson (Hot Chicken #1), dalla potenza garage di Watch Out For Me Ronnie e dalla ripresa di Ohm che, nella sua veste elettrica, dimostra di essere già un nuovo classico per la band. L’apoteosi arriva però con la Little Honda dei Beach Boys dove, per oltre dieci minuti, danno vita ad una devastante deflagrazione di rumore bianco e distorsione estatica. Pare il finale perfetto questo ma, nel bis, c’è ancora spazio per nuove emozioni: dapprima una bellissima Upside-Down, poi un’arrabbiatissima cover di Nervous Breakdown dei Black Flag (cantata da McNew) ed infine la ciliegina sulla torta con la Tried So Hard di Gene Clark, che faceva bella mostra di sé già sul loro Fakebook del 1990. Non sono invecchiati di una virgola, da allora, gli Yo La Tengo. Dio o chi per esso li mantenga sempre così. Concerto straordinario!
Chiunque sia stato negli ultimi anni ad un concerto degli Zen Circus, si sarà facilmente reso conto di un paio di cosette: primo, che razza di eccezionale live band essi siano, secondo, quanto la loro popolarità sia ormai cosa assodata e consolidata. Da sempre degli infaticabili operai del rock, perennemente on the road, per il 2013 gli Zen hanno deciso di prendersi una piccola pausa di riposo. Che vuol dire, di solito, pausa di riposo per musicisti come loro? Significa continuare a fare musica con progetti diversi. Ha iniziato Karim, il batterista, con i suoi La Notte Dei Lunghi Coltelli, ma è abbastanza prevedibile che il disco più atteso fosse questo di Appino, cantante, chitarrista e autore principale delle canzoni della band pisana. Il Testamento è un disco interessante a più livelli: senza dubbio conferma quanto Appino sia un autore di testi graffianti e capace di racchiudere mondi in pochi versi, nonché quanto sia abile a creare melodie e canzoni in grado di imporsi con rarissima efficacia. Dal suo esordio solista, musicalmente parlando, ci si poteva forse attendere un qualcosa orientato a sonorità più cantautorali; quello che invece ha messo in piedi, con la collaborazione di Giulio Ragno Favero (basso e produzione) e Franz Valente (batteria), entrambi de Il Teatro Degli Orrori, oltre che con ospiti quali Rodrigo D’Erasmo (Afterhours), Marina Rei, Tommaso Novi e altri, è il disco più livido, duro e prepotentemente rock della sua intera carriera. I temi principali dell’album sono il rapporto con la famiglia, il proprio ego, la schizofrenia. Appino stesso così ha presentato l’album: E’ la totale liberazione dei miei dolori più profondi, la vera e difficile storia della mia famiglia usata come veicolo per una terapia di gruppo, necessaria e a tratti violenta. In queste canzoni, spesso veramente toccanti, manca un po’ l’ironia tipica della pagine più conosciute degli Zen, ma non il disincanto e la capacità di parlare di cose profondissime senza patetismi ed evitando di fare la morale a chicchessia. Si prende qualche rischio, qui dentro, Appino: un pezzo come Specchio Dell’Anima, sorta di meditazione sull’affrontare il nostro peggior nemico, noi stessi, esagera con qualche durezza di troppo e con qualche tastiera indigesta, brani come Solo Gli Stronzi Muiono o Schizofrenia si spingono quasi verso confini hardcore (la seconda però ha un bell’intro western-morriconiano), 1983, che ha uno dei testi più belli mai scritti da Appino, in coda volge verso un inatteso electro-pop. Sono gli episodi più discutibili di un disco che, nell’insieme, però, può ben dirsi assai riuscito, a partire dalla title-track posta in apertura, una neanche troppo velata dedica alla scelta di chiamarsi fuori dalla vita di Mario Monicelli, passando per una filastrocca nera come Che Il Lupo Cattivo Vegli Su Di Te o per il rock sottilmente attraversato da un filo di malinconia di Passaporto. Niente male Fuoco!, con una delle melodie più Zen Circus di tutto il disco, ma è La Festa Della Liberazione, un folk-rock dylaniano, uno degli apici del disco, per parole (da sentire, straordinarie) e musica. Tristissima la storia narrata in Questione d’Orario, un bel brano rock attraversato dal piano e dal violoncello, dal bel drive chitarristico Fiume Padre, brano che ribalta la retorica rock della fuga, sostanzialmente cantautorale, anche se arrangiata con piglio moderno, I Giorni Della Merla, mentre Tre Ponti ha un feeling folk-rock sixties, con archi e twang guitars, e Godi (Adesso Che Puoi) ha le sembianze di una confessione intima, per voce e due chitarre. E’ un disco molto personale e sentito Il Testamento, che a volte si scherma con la potenza di un rock ottundente, quasi col timore di andare veramente troppo in là nell’esporsi di fronte agli altri. I numerosi fan degli Zen Circus comunque lo apprezzeranno parecchio e noi, ovviamente, con loro.
Seconda puntata della nostra riedizione di recensioni pubblicate sul Buscadero a dieci anni di distanza dall’uscita dei dischi in questione. Buscadero 244, marzo 2003, ecco cosa scrivevo del nuovo (allora) disco dell’ex leader dei Pavement.
STEPHEN MALKMUS & THE JICKS
Pig Lib
Domino Recordings
Per iniziare a parlarvi del nuovo album di Stephen Malkmus e dei suoi Jicks non posso prescindere dal citare i Pavement, gruppo di cui Steve fu prima voce, prima chitarra e principale compositore e quindi in ultima istanza “volto”. Troppo, troppo importanti i Pavement perché la loro ombra non si allunghi ancora sul Nostro e in qualche modo non condizioni chiunque si approcci ai suoi dischi solisti. Alfieri di quella che nei primi novanta venne definita “slacker generation” (ci penserà poi Beck a fornirgli l’inno definitivo con Loser ) e autori di cinque splendidi album (più una raccolta di EP), di cui almeno il primo tranquillamente inseribile tra gli album capitali dei novanta, sono tornati d’attualità proprio in questi giorni per via della pubblicazione del doppio DVD Slow Century (contenente un documentario, spezzoni live ed altro) e per l’album tributo approntato dalla nostrana Homesleep, intitolato Everything is Ending Here, che vanta la partecipazione, oltreché di alcuni dei migliori gruppi nostrani come Julie’s Haircut, Perturbazione o Yuppie Flu, anche di titolati artisti stranieri del calibro di Fuck, Bardo Pond, Tindersticks etc. E naturalmente per via dell’uscita di questo Pig Lib, secondo parto discografico, dopo l’omonimo esordio di due anni fa , che a sua volta usciva a ridosso dello scioglimento della band e di cui in realtà non rappresentava una rottura col passato ma una sorta di prosecuzione. All’epoca si parlò di Pavement con un’altra sezione ritmica. In sostanza, chi si aspettava qualcosa di radicalmente nuovo, rimase inevitabilmente deluso, mentre tutti gli altri non poterono far altro che godere ancora di un pugno di canzoni col marchio di fabbrica doc del nostro. E diciamolo subito, anche il nuovo album si pone lungo il tracciato di un percorso già battuto e si colloca come naturale seguito di un tragitto discografico che non prevede sbandamenti. Ho ascoltato questo disco molte volte e con gran attenzione, e i miei sentimenti nei suoi confronti sono a poco a poco cambiati. Allo scetticismo iniziale, dovuto principalmente alla sensazione che ormai la maniera si fosse impadronita della scrittura di Malkmus, è subentrata la sensazione di trovarsi di fronte ad un autore definibile ormai come classico. E non solo perché le canzoni, fin dai tempi dei Pavement, hanno, disco dopo disco, perso quella folle obliquità che le contraddistinguevano agli inizi, in virtù di una maggiore aderenza alla tradizione americana ma, soprattutto, perché, nel fare questo, Malkmus ha cristallizzato la propria scrittura senza perdere la propria personalità e le proprie peculiarità, divenendo anzi pietra di paragone per un sacco di bands a lui ispirate, come una sorta di, chessò, Lou Reed delle ultime generazioni. E tutto ciò continuando nello stesso tempo a mantenere un low-profile e a creare musica all’apparenza svagata quando non buttata lì, evitando così di essere (troppo) “istituzionalizzato”. Ed anche in questo disco quindi, si susseguono pezzi pigri e rilassati (Ramp of Death,Vanessa from Queens), venati da una vaga isteria (Water and a Seat), dall’anima pop ((Do Not Feed The)Oyster). Ci sono brani che ti ritrovi a canticchiare in una giornata di sole come Craw Song ed altri dall’anima più oscura come Dark Wave, che anche musicalmente dà quello che il titolo promette. Joanna Bolme al basso e John Moen alla batteria, assecondano il Nostro in maniera egregia (e si guadagnano pure l’intestazione del disco a fianco del nome di Steve) ma è la sua chitarra, forse mai così presente, a segnare la maggior parte dei pezzi con arpeggi e assolo, che in 1% of One esplodono a getto continuo, andando a formare un caleidoscopio di suoni per quello che è uno dei pezzi centrali del disco e per lo stato della musica di Stephen Malkmus, anno 2003. Le canzoni crescono con gli ascolti, anzi mi verrebbe da dire che sbocciano; quello che fino ad un attimo prima ti sembrava non convincente ad un trattosi apre in un improvviso splendore. Certo, anche stavolta nessuna rivoluzione, ma probabilmente non è da queste parti che vanno cercate. Qui ci sono solo belle canzoni. Se vi pare poco…
Basta uno sguardo fugace al disegno di copertina – opera di Silvia Bresolin – per iniziare a farsi un’idea dei possibili contenuti di questo disco d’esordio di LIMONE, giovane cantautore del Nordest, il cui vero nome è Filippo Fantinato. Ho parlato d’esordio, però non è esattamente alla sua prima esperienza Filippo: inanzitutto ha fatto parte di diverse rock bands del suo territorio (come compositore, cantante e chitarrista) e poi ha sempre messo in piedi tonnellate di registrazioni casalinghe, utilizzate come un vero e proprio sfogo, dovuto all’esigenza di chiarirsi le idee e dare una forma musicale a pensieri e sensazioni sul mondo circostante. Quest’ultima cosa rimane un po’ il leit motiv anche delle canzoni di Spazio, Tempo eCircostanze: i testi di questi brani appaiono sempre, quantomeno apparentemente, molto intimi e personali, e riescono ad essere profondi e sensibili, pur utilizzando un tono ed uno stile spesso svagato, leggero e naif. Sulla stessa linea si muove la parte musicale del lavoro, orientandosi verso un pop limpido e giocoso, per buona parte caratterizzato da sonorità electro, con synth e batterie elettroniche a farla da padrone (manovrate dal co-produttore Leslie Lello). In questi pezzi si parla degli effimeri discorsi da aperitivo, dei sogni di gloria tarpati dal mercato discografico, di condoni edilizi e di quanto è bello abbandonarsi agli amori primaverili. Personalmente, i brani che preferisco sono quelli più introspettivi, anche musicalmente (Proiettile Di Lana, Chi Sono Io?, per dirne due), ma nell’insieme, pur essendo anni luce dai miei gusti musicali, devo ammettere che quest’album di frecce al proprio arco ne ha diverse. Gli amanti del Samuele Bersani più volatile o del Dente meno malinconico, potrebbero fare con questo disco una nuova scoperta.
ANNUNCIATO ANCHE IL TERZO GRUPPO ITALIANO CHE FARA’ PARTE DELLA DELEGAZIONE ITALIANA AL PRIMAVERA PRO/PRIMAVERA SOUND 2013 A BARCELLONA.
E’ con grande piacere che possiamo comunicare il terzo gruppo italiano scelto dai direttori artistici del Primavera Sound festival, che va ad aggiungersi ai già annunciati BLUE WILLA e HONEYBIRD & THE BIRDIES: si tratta deiFOXHOUND.
Le tre formazioni italiane, nei giorni del festival, oltre al concerto sull’adidas stage del Primavera Sound, si esibiranno anche in uno showcase all’interno del Primavera Pro, davanti ad un pubblico selezionato di professionisti del settore musicale; un terzo concerto avrà luogo su uno dei palchi allestiti all’interno della città di Barcellona.
BLUE WILLA
Progetto artistico proveniente da Prato, nato sulle ceneri dei già noti Baby Blue, che col proprio debutto discografico nel gennaio 2013 ha meritato la copertina de “Il Mucchio Selvaggio”. Il disco, omonimo, è uscito per l’etichetta Trovarobato ed è stato prodotto artisticamente dalla visionaria Carla Bozulich (Evangelista, The Geraldine Fibbers, Scarnella, Ethyl Meatplow).
Le affinità tra la band e Carla tracciano un percorso trasversale tra Pixies e Diamanda Galás, Kurt Weill e Iggy Pop, melodie mediterranee e richiami di nativi americani, fantasticherie tra Poe e Calvino, rumori inquietanti, animali, campane, gitani, punk.
Il loro sound è multiforme e spazia da dolci melodie, ad opera della splendida voce di Serena Alessandra Altavilla, a nevrotici e vertiginosi riff chitarristici: elementi e sentimenti punk, noise, folk, hardcore, cabaret e blues malato forniscono l’ossatura alle canzoni che ne scaturiscono.
Blue Willa, un buco nero che si nutre di emozione ed energia. http://www.bluewilla.com
FOXHOUND
Foxhound, un quartetto di ventenni dalla maturità artistica straordinaria per l’età; provenienti da Torino, ma musicalmente così onnivori ed eterogenei da poter inglobare influenze internazionali in maniera estremamente spontanea.
Insomma: quattro navigati artisti, “stranieri” ma con cittadinanza italiana.
Il loro è un live che attraversa a sguardo fisso il mare di gruppi emergenti, puntando altrove, oltre confine, attraversandolo e arrivando a dimostrarci che è possibile navigare oltre ai propri orizzonti ottici senza rischiare di affogare.
Nell’estate 2012 hanno preso parte ai più importanti festival della penisola tra i quali Traffic Festival, Spaziale Festival, No fest e MI AMI. Scelti da MTV New Generation per esibirsi al teatro Masini a Faenza nell’ambito di Supersound, vincono il 29 settembre 2012 la Targa Giovani come Miglior Gruppo dell’anno.
Dal 25 gennaio 2013 ‘Concordia’, loro album d’esordio, viene distribuito a livello internazionale dalla storica Rough Trade. http://www.foxhoundband.com
HONEYBIRD & THE BIRDIES
Gli honeybird & the birdies sono un trio italo-americano attivo sulle scene dal 2007 e composto da personaggi eccentrici come uccellini e dolci come il miele.
Los Angeles, Catania e Torino sono le città da cui provengono; voci, charango, chitarra, ukulele, basso, xuxuca e percussioni sono gli strumenti usati per una miscela energica di sonorità brasiliane, indie-rock, psichedelia tropicalista e punk.
Il loro album “You Should Reproduce” è uscito nell’ottobre 2012 per Trovarobato e vede la produzione artistica di Enrico Gabrielli (Calibro 35, Mariposa) ed il mix di Tommaso Colliva.
Hanno rappresentato l’Italia al festival Eurosonic nel gennaio del 2013 e, prima di partire per Barcellona, saranno ospiti del festival “Cherchez la Femme” di Bratislava ad aprile. http://www.honeybird.net
Girava da un bel po’, questo disco, per casa mia – è uscito nel luglio 2012 – e mi scuso sia con voi lettori che con gli stessi autori se solo oggi arrivo a parlarvene. Lo faccio oggi per due ben distinti motivi: il primo perché, ovviamente, è un ottimo lavoro e merita in pieno di essere conosciuto ed ascoltato da più gente possibile, il secondo, intendendo questa recensione come una forma di omaggio nei confronti del maestro Armando Trovajoli, recentemente scomparso, la cui Sesso Matto figura tra le tracce coverizzate in The American Dream. Ma procediamo con ordine. MARCO CAPPELLI, napoletano ma ormai da tempo residente a New York, è un chitarrista assai versatile, capace di stare in bilico tra gli avventurosi sentieri dell’avanguardia e dell’improvvisazione, così come in quelli della musica contemporanea, senza però dimenticare la ricerca sulle radici del folk e del blues e qualche sconfinamento in direzione del pop e del rock più ricercato. Con una cospicua ed eterogenea discografia alle spalle (su etichette quali Mode e Tzadik), molteplici collaborazioni con musicisti come Marc Ribot, Elliot Sharp, Butch Morris e Kato Hideki (giusto per dirne qualcuno) e l’importante esperienza dell’Ensemble Dissonanzen, Cappelli, qui, si unisce al noto batterista Francesco Cusa (Feet Of Mud, Skrunch, Switters, fra i suoi moti progetti) ed al bassista Luca Lo Bianco (anche lui con all’attivo moltissimi lavori) e dà vita all’ITALIAN SURF ACADEMY. La genesi di questo progetto e di questo disco nasce da una serie di conversazioni avute con Marc Ribot, il quale sosteneva che, volendo capire l’essenza della chitarra elettrica, bisognava necessariamente ascoltare la surf music. The American Dream non è però necessariamente solo un disco di surf music, bensì ingloba quel linguaggio in un discorso ben più ampio, sia musicalmente che culturalmente. Inanzitutto è un sentito omaggio all’opera di compositori come il citato Trovajoli, come Bacalov, Umiliani, Morricone, Ortolani, Rustichelli, le cui colonne sonore hanno segnato ben più che un’epoca. Ma è inoltre una testimonianza d’affetto nei confronti di un’America mitica, quella che veniva fuori dai suoni elaborati da un manipolo di grandi compositori italiani che proprio alla surf music americana guardavano per orchestrare le loro musiche destinate a film quali Django, 5 Bambole per la luna d’Agosto, Il Buono, il Brutto e il Cattivo, 6 Donne per l’assassino. I tre, con la collaborazione della brava cantante Gaia Mattiuzzi in un paio di tracce, danno vita ad un inestricabile mescolarsi di surf e tendenze avant, lounge music dai risvolti jazz, scampoli di temi da spy story (in Secret Agent Man di Steve Barri e P.F. Sloan, l’unica cover non italiana), risvegliando, in maniera assai creativa e brillante, tutto quell’immaginario così ben raccontato nel “Mondo Exotica” di Francesco Adinolfi e ben esemplificato dall’immagine posta in copertina. La chitarra di Cappelli si dimostra eclettica e capace di muoversi fra mille sfumature, così come è a dir poco ottima la base ritmica fornita da Cusa e Lo Bianco. Chi ama gruppi come Sacri Cuori, Guano Padano e Calibro 35, non potrà che innamorarsi anche di questo disco.