THE KNIFE live @ Alcatraz 29 aprile 2013

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Non ci sono dubbi circa il fatto che Shaking The Habitual, l’ultimo album degli svedesi The Knife, sia uno dei dischi più interessanti ed artisticamente rimarchevoli tra quelli usciti negli ultimi tempi. Un moloch, in tre LP o due CD, in cui il pop elettronico del duo formato da Karin e Olof Dreijer, si atomizza fra momenti di sperimentazione isolazionista, tribalismi tutt’altro che accomodanti ed un gusto per la sottolineatura inquieta e tagliente. Un album notevole insomma, di cui potrete leggere più dettagliatamente sul numero di maggio del Busca. Sta di fatto che, proprio perché avevo apprezzato il disco così tanto – è fuori discussione, fin da adesso, il fatto che troverà un posto tra i miei migliori del 2013 – mi sono mosso subito per procurarmi un accredito per andarli a vedere dal vivo all’Alcatraz di Milano, data, tra l’altro, andata quasi subito sold out (del resto, erano ben sei anni che The Knife mancavano dal palco, sette dal disco che aveva preceduto quest’ultimo). Sono un ascoltatore eclettico; a parte pochissimi generi specifici a me indigesti, sono capace di ascoltare ed apprezzare musica proveniente dagli ambiti più disparati. Dico ciò per sottolineare che non ho nessuna preclusione nei confronti della musica elettronica, anche se magari posso ammettere che, dal vivo, la scena offerta da chitarre e batterie sia più esaltante di quella offerta da tastiere e laptop. Qualsiasi cosa potessi aspettarmi dal concerto dei The Knife, però, si è andato ad infrangere contro l’allucinante serata che mi sono trovato a vivere. Arrivo all’Alcatraz con la migliore predisposizione d’animo verso le 20.30. Fuori c’è un sacco di gente e pure dentro sta incominciando a riempirsi. Il pubblico è piuttosto giovane, ma non mancano i quarantenni. Quando sono all’incirca le 21.15 si spengono le luci, dalle nostre spalle arrivano le urla di un imbonitore che, per circa venti minuti, urlerà come un gallo strozzato sopra una base dance, nel tentativo di caricare il pubblico, inducendolo a ballare ed urlare. La faccenda non mi gasa per niente ed anzi, alla lunga, mi irrita pure un po’. Il tipo continua ad urlare: Are you alive? We are not afraid to die! e, per quanto sia ormai distratto, mi pare faccia pure una sorta di discorsetto sulla vita della gente ai tempi della crisi e sulle reazioni che possono avere le persone per tentare di cambiare le cose, intimandoci di non dimenticarcene mai. Parrebbe una cosa fuori posto, ma visto quello che è successo dopo, la cosa assume un senso. L’imbonitore smette di urlare, la musica cessa di martellare e dal palco partono fasci di luce e delle frequenze bassissime spacca cervello. Sul palco appaiono le indistinguibili silhouette della band, che si presenta con una formazione a sette. E’ A Cherry On Top ad aprire il concerto, in una versione plumbea e tutt’altro che festosa, doppiata subito dopo da un’iper percussiva Raging Lung. Ammesso e non concesso che anche quest’inizio non sia stata in realtà una finzione, il concerto finisce qui. Dal pezzo dopo, il palco viene velocemente sgomberato da tutti gli strumenti che vi si trovano sopra, e i sette iniziano a ballare. Nessuno canta, nessuno suona, quello che sentiamo, basilarmente è il CD. Non bastasse questo, le coerografie sono imbarazzanti, pare stiano facendo una lezione d’aerobica e persino male. Sembrano pure un po’ in debito d’ossigeno e mi aspetto che prima o poi qualcuno stramazzi a terra. In alcuni pezzi fanno finta di suonare strumenti immaginari o cantano palesemente in playback, in altri (ad esempio su Full Of Fire) si piantano come belle statuine a guardare impassibili il pubblico o a mimare con i gesti gli andamenti della musica, altre volte ancora non stanno neppure sul palco, lasciando il campo libero ai giochi di luce! Il mio disagio è indescrivibile, non riesco a credere a quello che sta succedendo. Attorno a me, il pubblico balla, ride e applaude felice come se sul palco ci fosse veramente una band a suonare. Ed è qui che finalmente capisco: non è quello che sta succedendo sul palco ad essere sbagliato, ma quello che sta accadendo sotto al palco! Da quella band politicizzata ed iconoclasta che sono, The Knife hanno messo in piedi un’enorme truffa, una provocazione gigante nei confronti del loro stesso pubblico, come a voler creare un’enorme metafora di quello che succede nella vita reale. Per entrare qua dentro, c’erano da pagare la bellezza di 25€, non proprio pochi al giorno d’oggi. Questo semplice passaggio sancisce un contratto: 25€ in cambio di un concerto. Ma se il concerto alla fine non avviene, se viene sostitutito da un puro surrogato, non avrebbero dovuto esserci proteste, urla, incazzature? Come nella vita reale, l’1% della popolazione si tiene tra le mani la fetta più grossa delle ricchezze del pianeta, ben sapendo che il 99% rimanente inspiegabilmente accetterà la situazione, facendo poco o nulla per cambiarla, qui sette persone hanno preso letteralmente per il culo le migliaia accorsi a vederli, i quali si son prestati al gioco ben felici, in larga parte non applicando il benché minimo senso critico ed anzi applaudendo e gioiendo beota. Se era davvero questo l’intento dei The Knife, l’esperimento (situazionista?) può dirsi riuscitissimo. In me è rimasto però un senso di sconsolata tristezza, di profonda e disillusa amarezza. Davvero non gliene frega niente a nessuno? Davvero siamo così ciechi ed addomesticati? Chi sono queste persone – che magari poche settimane prima avevano riempito lo stesso posto per i Mumford & Sons, ad esempio – che sono così platealmente cascati nella trappola dei The Knife? Che risposta dare a queste domande? Non lo so, davvero non lo so…

Lino Brunetti

MUDHONEY live on KEXP

Mudhoney

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L’emittente radiofonica di Seattle KEXP Radio, come sarà senz’altro noto alla maggioranza di voi, è famosa per le numerose sessions live realizzate all’interno dei suoi studios e poi postate sul loro sito e sul loro canale YouTube. Il recente, ancora una volta ottimo, nuovo album dei MudhoneyVanishing Point, segna un doppio compleanno: il venticinquesimo anniversario della nascita sia della band, che dell’etichetta a cui quasi continuativamente sono stati legati indissolubilmente durante tutti questi anni, la Sub Pop. Consigliandovi ovviamente di farlo vostro e di andare a vedere i Mudhoney dal vivo, dovessero passare dalle vostre parti, qui sotto trovate il video del loro passaggio negli studi della KEXP. Buona visione!

Lino Brunetti

FABRIZIO TESTA “Mastice”

FABRIZIO TESTA

Mastice

Autoprodotto

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Cosa fare quando ci si trova di fronte ad un’opera spiazzante e molto intensa, tirata in sole cento copie numerate ed inserita in una confezione hand made (realizzata da Elisa Alberghi)? Custodirla gelosamente come un piccolo esoterico segreto o renderne conto nel miglior modo possibile, in modo da condividerla con quanti riusciranno poi ad agguantarla o sentirla? Fabrizio Testa si è fatto conoscere tramite il dark-folk oscuro de Il Lungo Addio e tramite i dischi pubblicati attraverso la sua Tarzan Records, fino ad oggi sempre molto interessanti. Oggi esordisce con questo particolarissimo Mastice, album difficilmente classificabile, in bilico tra racconto e poesia espressionista, avanguardia e canzone d’autore sui generis. Come se si trattasse di un’opera unitaria a più voci, Fabrizio ha chiamato qui a collaborare molti amici musicisti, in larga parte ciascuno intento a donare la propria espressività attoriale alle sette tracce in scaletta. Troviamo così Roberto Bertacchini e le sue declamazioni da teatro dell’assurdo, in una Alce E Martello in cui rifulge pure il sax di Gianni Mimmo, Alessandro Camilletti recitante sul drone spaziale di Marco Pierantoni (amico girovago di Testa, a cui tutto il disco è dedicato) e sui detriti quasi industrial di Cesenautico, Luca Barachetti dar vita all’inquietante Le Terme, un brano in cui la nebulosa e sospesa parte strumentale, concorre non poco a creare una decadente e fantasmatica atmosfera a là “Shining”, Cesare Malfatti affrontare il canto in una notturna e plumbea Senza Orfanità, Alessio Gastaldello far perdere le propria urla tra i suoni di gabbiani, le interferenze e i suoni in reverse di Mastice. Testa che, oltre a scrivere tutti i testi, suona chitarra, tapes, synth, field recording, oggetti e record player, si tiene per sé il momento più musicale di tutto l’album, la crooneristica e tutt’altro che serena Crudo, graziata dal suggestivo pianoforte di Miro Snejdr e con al suo interno la voce e alcune frasi, come sempre pregnanti, di Pasolini. Un disco complesso e chiaramente di non facile ascolto, probabilmente non per tutti. Allo stesso tempo, delirantemente affascinante. Per info: fabritesta@tiscali.it

Lino Brunetti

MY DEAR KILLER “The Electric Dragon Of Venus”

MY DEAR KILLER

The Electric Dragon Of Venus

Boring Machines

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Mancava apparentemente dal 2006, My Dear Killer, pseudonimo del cantautore lombardo Stefano Santabarbara, l’anno in cui aveva pubblicato il precedente Clinical Shyness, un titolo, tra l’altro, che spiegava molto dell’approccio musicale del suo autore. Dicevo apparentemente perché, come sapranno i cultori più attenti dell’underground italiano, in realtà Stefano, in tutto questo tempo, non è che sia stato proprio assente dalle scene: è infatti, tra altre cose, il promotore principale dell’etichetta Under My Bed Recordings – qui ne festeggiavamo il decennale – con cui negli ultimi tempi ha portato avanti il rimarchevole progetto “Cinque Pezzi Facili”, serie di split che ha visto fino ad ora coinvolti gruppi ed artisti quali Morose, Tettu Mortu, Campofame, Lorca, Pillow, Mr 60, Frozen Fracture, EMV, Konstanzegraff, oltre che ovviamente se stesso. Da sempre legato al folk cantautorale più dimesso e lo-fi, My Dear Killer torna stavolta con un disco che segna un più sostanziale impegno produttivo ed una più matura consapevolezza musicale. Non cambiano i confini del suo fare musica in The Electric Dragon Of Venus – pubblicato solo in vinile dalla sempre benemerita Boring Machines – che rimangono definiti dall’amore sconfinato per Nick Drake da un lato e dalla passione per sonorità meno accomodanti e più sperimentali dall’altro, ma qui, complice anche l’apporto di molti amici musicisti, tutto appare meno provvisorio e precario, pur non rinunciando a quella intensa fragilità di fondo che è una delle caratteristiche principali del suo sound e del suo songwriting. Le sue canzoni dimesse e malinconiche, che in più di un’occasione non possono non ricordare anche lo slowcore sofferto di Red House Painters e Sophia in versione lo-fi, qui sono capaci di colorarsi tramite la spolverata di un trombone (Stella Riva, in Frozen Lakes) o attraverso il tocco di un elegiaco violoncello (suonato da Piergiorgio Storti in Scent Of The Water e Magnetic Storm). Importanti i contributi di ONQ/Luca Galuppini con synth, sega musicale e chitarra hawaiiana preparata, i field recordings di Matteo Uggeri e gli electronics ed i noises pilotati da Gherardo Della Croce. Stefano canta con voce dimessa e mormorante, dando vita a quadri di attonita malinconia come la splendida Good Night, a canzoni screziate da gelide folate di conturbante feedback (Mild Eyes, tra le altre), a brani persino potenzialmente rock come la quasi incalzante Nightime. Chiuso ed aperto, tanto da assumere una struttura circolare, dalle due parti della strumentale title-track, The Electric Dragon Of Venus è un disco da tenersi stretto e con cui cullarsi nei momenti di più profonda introspezione.

Lino Brunetti

My Dear Killer - Foto © Lino Brunetti

My Dear Killer – Foto © Lino Brunetti

SANANDA MAITREYA “Return To Zooathalon”

SANANDA MAITREYA

Return To Zooathalon

Treehouse Publishing

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Superstar internazionale, a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 col nome di Terence Trent D’Arby, all’età di 33 anni SANANDA MAITREYA dice basta. Basta coi compromessi che l’industria musicale vuole imporgli, basta con le pressioni che gli arrivano dal successo e coi tentativi di censurargli le sue idee. E’ il 1995 quando cambia, musicalmente e legalmente, nome ed inizia la sua nuova carriera musicale e, di conseguenza, la sua nuova vita. Oggi Sananda vive a Milano con moglie e due figli e, in tutti questi anni, ha continuato a comporre, suonare e pubblicare musica in quella totale libertà tanto cercata. Non farò finta di conoscere tutto quello che ha fatto nella sua carriera, perché non sarebbe vero, però, quello che posso dirvi, è che Return To Zooathalon, suo nono album in studio, il diciottesimo se contiamo anche i live, è un disco per molti versi sorprendente. Opera mastodontica (22 brani per oltre 75 minuti di musica) e sorta di concept dedicato allo Zooathalon (la parata degli archetipi psicologici che si relazionano al progresso della mente umana attraverso la “ruota del tempo”, nientemeno), questo nuovo album è una girandola di canzoni dove rock, blues , pop e soul si fondono in un melange black, dove l’inconfondibile voce di Sananda ha modo di rifulgere. Interamente scritto, prodotto e suonato da Maitreya stesso – che dà prova di essere un polistrumentista coi controfiocchi, il disco è tutt’altro che minimale – Return To Zooathalon colpisce inoltre per la verve dinamica di cui sono intrisi la maggior parte degli episodi: dal soul psichedelico di DFM (Don’t Follow Me) alla propulsione melodica di Save Me, dalla doppietta intitolata Stagger Lee (funky nella prima parte, come dei Beatles virati black nella seconda) alla solarità a là Garland Jeffreys di Albuquerque, passando per ballate pulsanti come Ornella Or Nothing o Where Do Teardrops Fall?, davvero non si conoscono pause. Belli i numerosi pezzi rock in scaletta (Tequila Mockingbird, She’s Not Right, la title-track, ad esempio), così come quelli dove si mischiano un po’ le carte (l’insolita Mr. Grüberschnickel, l’eterea e notturna Walkaway). Forse fin troppo lungo e dispersivo, comunque un piacevole sentire. Per info qui.

Lino Brunetti

KADAVAR “Abra Kadavar”

KADAVAR

Abra Kadavar

Nuclear Blast

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I Kadavar (nome completamente sbagliato, che evoca trucidi combo di black metal e invece…) sono Berlinesi e sono tre tipi che sembrano sopraggiungere da epoche lontane, in un miscuglio non troppo sofisticato di metal tedesco della prima ora, tanto blues, tanto hard rock e una sana propensione a costruire semplici ma intriganti brani musicali che hanno nella forza e nella potenza, più che nella psichedelia, la loro forza maggiore. Sarà per questo che la Nuclear Blast li ha voluti tra le proprie fila, continuando un percorso di diversificazione che stà dando buoni frutti, inserendo accanto ai gruppi più metal in senso stretto anche altre derive decisamente più psichedeliche e “fumose”. In questo secondo disco i Kadavar non scoprono di certo l’acqua calda ma ci danno dentro a testa bassa senza troppi arzigogoli, andando dritti al sodo (tipico di queste band teutoniche) posizionando riff brutali in stile doom (Black Snake), conditi da decisi assalti della chitarra solista, che imperversa in ogni brano con tremende scorribande. I brani spaziano (ma non troppo) tra la tradizione metallica tipicamente europea e in effetti Doomsday Machine ci riporta per esempio alla prima era del metal, verso quegli Accept ancora acerbi di Restless and Wild, Come Back To Life è invece un trascinante hard in tipico stile seventies, Dust per contro sono i Black Sabbath più metallici, Fire rimanda a quanto fatto dai Pentagram, un brano incalzante e sostenuto da quei riff epici e marziali che tante volte abbiamo ascoltato. La precisione ferrea nella quale si muove il trio è la loro dote maggiore, tutto sembra fatto nella maniera migliore e nulla è lasciato al caso, con la chitarra scrocchiante vecchia maniera e la batteria che senza strafare si infila in un vorticoso accompagnamento. Le sorprese migliori arrivano comunque nella parte finale del disco, che si abbandona su livelli più psichedelici con il metronomico riff Hawkwindiano di Liquid Dream, e le spinte psichedeliche ricche di fuzz e riverberi di Rythm For Endless Minds che trascinanano le proprie spire nel sixtie sound liquido e debordante di Abra Kadabra. Non dei fuoriclasse assoluti ma degni alfieri di un sound che stà prepotentemente imponendo la propria capacità di coinvolgere nuovamente orecchie, come le mie, abituate da trent’anni ad ascoltare, senza stancarsi, la solita formula: ma attenzione, se questa è la qualità del risultato, assolutamente non c’è alcuna ragione per andare a scovare difetti, ma ce ne è a sufficienza per esaltarne i pregi.

Daniele Ghiro

ORCHID “THE MOUTHS OF MADNESS”

ORCHID

The Mouths Of Madness

Nuclear Blast

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Potremmo stare qui a disquisire per ore sull’utilità di un disco del genere nell’anno 2013, esattamente quarantadue anni dopo l’uscita del proprio disco di riferimento, quello che in maniera indiscutibile è praticamente copiato nei suoni, nelle tematiche e nelle atmosfere dal gruppo americano, giunto alla realizzazione del secondo lavoro con questo The Mouths Of Madness. Ma sinceramente non ho nessuna voglia di invischiarmi nel vicolo cieco della guerra tra innovazione vs tradizione, prendo la musica per quello che è e vado ad ascoltare. Immaginatevi dunque di essere nel luglio del 1971 quando quattro loschi figuri inglesi a nome Black Sabbath pubblicarono il loro terzo album, Master Of Reality, un indiscusso caposaldo della musica heavy. Ora provate ad immaginarvene la reincarnazione, non quella di una reunion opinabile (spero fino a prova contraria), bensì una reincarnazione vera e propria, con quattro loschi figuri (questa volta americani di San Francisco) che suonano esattamente come i loro illustri predecessori e probabilmente loro idoli. Non a caso, proprio in quell’album un breve e struggente strumentale era intitolato Orchid e i conti tornano quindi alla perfezione, tanto più che la band non fa nulla per nascondersi, giocando a carte scoperte. Amate i Black Sabbath? Questo disco vi piacerà, senza se e senza ma, per il semplice fatto che le canzoni sono belle, la registrazione è discretamente vintage, anche se le chitarre hanno un sound più metallico, ma l’armonica che ad esempio imperversa in Marching Dog Of War è una di quelle piccole finezze che fanno grande un disco. Come già detto non stiamo qui a cercare cose nuove ma solo a provare emozioni per suoni che musicalmente ci fanno sobbalzare da tempo immemore e che ancora oggi, se ben calibrati, danno ancora brividi sulla schiena (il doom propedeutico di Silent One con quei tipici deragliamenti free negli assoli e le campane a rintocco mortuario). Nomad insegue il riff di Killing Yourself To Live, Mountains Of Steel è praticamente uguale ad A National Acrobat, con addirittura quel piano sinistro che fece di Sabbra Cadabra un autentico capolavoro, ma ad essere sinceri in ogni brano del disco ci potrebbe essere un riferimento ai maestri, così come lo era stato ad esempio per i grandissimi Witchfinder General, quindi lasciamo perdere l’elenco e affidiamoci solo alla proposta attuale che pur essendo quindi pesamente vincolata non risente in alcun modo di stanchezza compositiva o di noia del già sentito. Il merito indiscutibile del gruppo è quello di saper scrivere belle canzoni, che si lasciano piacevolmente ascoltare, a volte dure (la bellissima Wizard Of War), a volte lente (Loving Hand Of God), a volte dall’ampio respiro melodico e più psichedelico (Leaving It All Behind) brani che non stancano e che chiudendo gli occhi, con un po’ di immaginazione, riportano con gusto le lancette degli anni un bel po’ indietro. Innovatori e allergici alla polvere statene alla larga, nostalgici e amanti di quei suoni fatevi avanti che c’è pane per i vostri denti.

Daniele Ghiro

DIECI ANNI DOPO: STEVE VON TILL “If I Should Fall To The Field”

Dal Buscadero 245, aprile 2003

STEVE VON TILL

If I Should Fall To The Field

Neurot Recordings/Goodfellas

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Conosciuto ai più come il cantante e il chitarrista dei Neurosis, band orbitante nell’area del rock più estremo, Steve Von Till sorprese i suoi fans, già quando pubblicò il suo primo album solista As The Crow Flies. Abbandonate le atmosfere sature ed oltranziste della band madre, si proponeva lì, invece, come novello cantautore dalle tinte oscure, ma che trovava nel folk e nel blues, o comunque nella musica delle radici, il cuore pulsante della sua musica più personale. If I Should Fall To The Field si riallaccia al discorso iniziato con l’esordio e, alzando ulteriormente il tiro, pone Von Till come una delle voci più autorevoli nell’odierno panorama cantautorale. E’ profondo il senso di appartenenza e il legame tra l’autore e la memoria della musica americana che si percepiscono tra questi solchi. Il suono è generalmente scarno, spettrale, che poco o nulla concede in termini di ammiccamento all’ascoltatore. Gli arrangiamenti sono sempre misurati e puntano a raggiungere il massimo del risultato col minimo dei mezzi, e permettono alla voce roca e profonda di ergersi sul tutto e riempire i vuoti. Prendiamo ad esempio Am I Born To Die, un traditional che Von Till fa rivivere solo tramite il fiddle di Doug Adams e su cui canta con straordinaria intensità. Breathe è fatta di un filo d’organo e da una chitarra acustica, ed è subito un entrare nel mondo oscuro di un blues catacombale. To The Field si concede un urlo trattenuto, in uno dei rari momenti elettrici dell’album, mentre My Work Is Done è un blues fuori dal tempo, cadenzato dal suono del banjo. Hallowed Ground, uno dei capolavori del disco, ha una tensione interna straziante, tanto più che non arriva mai a scioglierla in una qualche fuga strumentale catartica, attesa per tutto il brano, ma la mantiene intatta lungo la durata dell’intera canzone. This River è colonna sonora perfetta per una storia alla Spoon River, con un evocativo intreccio di banjo e chitarra elettrica. Running Dry, ottima rilettura, è quella di Neil Young (stava su Everybody Knows This Is Nowhere). The Wild Hunt è folk dalle tinte gotiche, inesorabile e plumbeo, tale da far sembrare i 16 Horsepower delle spensierate educande. Anche Dawn viaggia attraverso questi lidi desolati, prima dell’addio lasciato a The Harpy, dove il nonno di Von Till, registrato dal figlio, recita una poesia sopra un drone di chitarra lasciato sullo sfondo a pennellare le ultime note di malinconia (quando si dice di generazione in generazione!). Un disco veramente molto bello If I Should Fall To The Field, che piacerà di sicuro a tutti quelli che hanno amato il Lanegan solista o l’ultimo album di Papa M. Di questi Von Till rappresenta la versione più dark, ma vi assicuro che se riuscirete a penetrare questo disco, vi catturerà e non vi lascerà più andare.

Lino Brunetti

NOTTURNO GIOVANI e VA SUL PALCO 2013

NOTTURNO GIOVANI: musica e protagonismo giovanile tra opportunità di oggi, risultati passati e prospettive future.

Va sul Palco 2013: ritorna il concorso nazionale per band emergenti varesino con cinque serate all’insegna della musica di qualità. In uscita con Ghost Records “Shipwrecks”, l’album dei Videodreams, vincitori di Va sul Palco 2012.

Comunicato stampa
Torna alle luci della ribalta “Va sul Palco!”, concorso nazionale per band emergenti giunto alla sua settima edizione. Il concorso negli anni, grazie al bando Giovani Energie in Comune di ANCI e Ministero della Gioventù nel quale il Comune di Varese è giunto primo a livello nazionale nel 2010-2011, e, grazie al contributo di Fondazione Cariplo nel 2012, ha offerto ottime occasioni di crescita professionale per i gruppi che hanno partecipato.

Ne sono un esempio i Videodreams – Filippo e Marco Marra, duo di fratelli udinesi e vincitori del premio della giuria tecnica dell’edizione passata del contest – con un album in uscita il 9 aprile per la casa discografica Ghost Records (“Shipwrecks”), partner del progetto Notturno Giovani. Registrato tra novembre e dicembre 2012 — EDAC Studio (Como) e Ghost Studios (Varese) da Enrico Mangione, mix e master a cura di Valentino Cimenti — quest’album si può definire come un sequel del secondo ep “Wet Pain”, ma anche come la chiusura di un capitolo. “Shipwrecks sta per “naufragi”, una metafora usata qui per descrivere delle situazioni in cui è necessario mettere in discussione tutto per sopravvivere (come la fine di una storia d’amore)” dice la band. “Cosa tenere, cosa lasciar andare, in sostanza si tratta di prendere delle decisioni fondamentali. Quello che si “guadagna” poi alla fine di un naufragio è un nuovo punto di vista sulle cose, si torna nel mondo con una nuova pelle, si è più inclini a non trattenere le cose inutili e più grati verso quello che si ha e che la vita offre.” I Videodreams sono anche reduci dalle riprese del loro primo videoclip, altro premio della giuria tecnica dell’ed. 2012 di Va sul Palco, grazie alla collaborazione di Mondovisione di Cantù (CO), partner del progetto Notturno Giovani e alla regia di Lucia Bulgheroni, giovane videomaker varesina vincitrice della sezione “Notturno Giovani Videoclip” di Cortisonici 2012.

Tra i risultati di successo del progetto Notturno Giovani è d’obbligo citare l’album “Tutte le canzoni” – (Ghost Records) de Il Triangolo, band del luinese vincitrice del concorso nell’edizione 2011 e rivelazione del 2012, annoverato tra i 10 migliori album del 2012 dal MEI- Meeting delle Etichette Indipendenti e da Il Mucchio, importante rivista del panorama musicale indipendente (http://www.statoquotidiano.it/11/02/2013/mei-e-mucchio-indipendenti-ventanni-dopo/127165/).
Quest’anno nonostante le ridotte disponibilità economiche e i tagli subiti dal progetto Notturno Giovani si è tentato di riproporre premi di qualità e all’altezza di quelli messi in palio nelle edizioni passate. Il premio più importante, quello assegnato dalla giuria tecnica, consisterà anche quest’anno infatti nella produzione, nella stampa e nella promozione di un CD per la band vincitrice.
Cinquanta le iscrizioni giunte da ogni angolo di Italia (qualche band dalla Sicilia, Campania, Lazio, Liguria, Emilia Romagna, Piemonte). Chiusa la fase di selezione delle 12 band che accederanno al concorso, si entra ora nel vivo del contest. Tutte le serate si svolgeranno presso le cantine della COOPUF in via De Cristoforis n. 5 a Varese, grazie alla collaborazione della cooperativa stessa e saranno ad ingresso gratuito.

  • Svolgimento delle serate. Nelle prime quattro serate si esibiranno 3 gruppi per serata e nel corso della serata finale si esibiranno solo le 3 band in lizza per il premio relativo alla giuria tecnica. Ecco il programma e le band in concorso:
  • 1°serata di concorso: sabato 13 aprile 2013 PLANKTON DADA WAVE, MARCELLO UBERTONE, IL RUMORE DELLA TREGUA
  • 2°serata: sabato 20 aprile 2013 2FACES, DISTINTO, SUSPENSION DOTS
  • 3°serata: sabato 4 maggio 2013 JUNK FOOD, LORENZO PISANELLO, SOVIET MALPENSA
  • 4°serata: sabato 11 maggio 2013 DEAD BEAT, GOUTON ROUGE, SCRATCH ON THE BLACKBOARD
  • Finale: sabato 18 maggio 2013

* I PREMI IN PALIO E LE GIURIE. Premio della giuria tecnica: produzione, stampa di un CD e relativa promozione a cura di un’agenzia qualificata.
Premio della giuria giovani: mini tournèe nazionale e/o possibilità di avere una data internazionale. Premio della giuria popolare: buono acquisto di 250,00 € in strumentazione musicale ed esibizione live presso il Gasch Festival di Gazzada Schianno (VA) che si terrà a luglio 2013 (https://www.facebook.com/gasch.musicfestival.3) e che ha visto in passato la possibilità di alcune band emergenti di aprire artisti come Dente, Lo Stato Sociale, etc.

Le band saranno valutate da una giuria tecnica, una giuria giovani e una giuria popolare. La giuria tecnica sarà composta da esperti del settore musicale. La giuria giovani sarà composta da ragazzi contattati dal servizio Informagiovani e Politiche Giovanili del Comune di Varese e dalla Coop. Soc. NATURArt. La giuria popolare sarà composta dal pubblico presente alle serate.
* NOVITA’ 2013: durante la serata finale del concorso verrà richiesto alle 3 band in lizza per il premio della giuria tecnica, un’esibizione live in versione unplugged, con un arrangiamento e un’esecuzione dei propri brani in maniera originale attraverso proiezioni di video, presenza di ospiti sul palco, etc. Continua la partnership col sito Indieroccia.it, media partner del progetto mentre quest’anno NeverWas Radio sarà la radio web ufficiale del concorso attraverso cui si darà spazio alle interviste in diretta, sia per conoscere i gruppi in gara sia al pubblico per raccogliere pareri e commentare le esibizioni. Essa verrà gestita in collaborazione con l’associazione di promozione sociale “s.m.Art”. Ai microfoni oltre gli speaker ufficiali, ci saranno anche i ragazzi coinvolti dal progetto da Naturart e Informagiovani di Varese.

* IL PROGETTO NOTTURNO GIOVANI – PARTNER: Comune di Varese – Informagiovani e Politiche Giovanili, la Cooperativa Sociale NATURArt, la casa discografica Ghost Records, il Centro di Formazione Musicale di Barasso (VA), la Cooperativa Sociale Mondovisione di Cantù (CO), l’agenzia di booking La Frequenza, l’agenzia di ricerca sociale CODICI, COOPUF, Twiggy Cafè, gruppo giovani Pro Loco Luvinate per Luvonrock, Gasch Music Festival di Gazzada Schianno (VA), S.m.Art e mediapartner Indieroccia.it

*PER INFO: Facebook: Notturno Giovani – Twitter: @VaSulPalco – E-mail: notturnogiovani@gmail.com
tel. Informagiovani Varese 0332-255445 o 0332-255441 – Cooperativa Naturart: 392-9610911

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JENNY HVAL “Innocence Is Kinky”

JENNY HVAL

Innocence Is Kinky

Rune Grammofon/Goodfellas

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Non capita tutti i giorni d’imbattersi nel disco di una ragazza che si apre con la dichiarazione di essere davanti al computer eccitata a guardare gente che scopa. Non che sia questo il merito di quest’album ma, certamente, un po’ di curiosità la mette. JENNY HVAL è una giovane cantautrice ed artista norvegese, al secondo album, dopo un passato con i Rockettothesky. Il suo impegno nell’arte contemporanea è facilmente riscontrabile anche nel suo fare musica. Con la produzione di John Parish, ed accompagnata da un quintetto di multistrumentisti, in Innocence Is Kinky dà vita ad una bella selezione di numeri avant-pop, in continua altalenanza tra le dissonaze rock, quasi a là Throwing Muses, di I Called, gli spigoli della title-track, l’elettronica bjorkiana di Renée Falconetti Of Orléans, le trasfigurazioni avant blues di I Got No Strings, le narrazioni poetiche in salsa noise di Oslo Oedipus o Give Me That Sound e la visionarietà degna di un’allucinata PJ Harvey di Is There Anything On Me That Doesn’t Speak?, Amphibious Androgynous e The Seer. Attorniata da chitarre, archi, samples e ritmi, al centro di tutto c’è la sua voce, capace di svettante lirismo, così come di ridursi ad un sussurro. Disco decisamente affascinante ed indubbiamente da sentire.

Lino Brunetti