POND “Hobo Rocket”

POND

Hobo Rocket

Modular Recordings/Audioglobe

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Difficile considerare gli australiani Pond un side-project dei Tame Impala, visto che, mentre i primi arrivano con quest’ultimo nientemeno che al quinto album, i secondi ne hanno pubblicato solo due. È però la dura legge dei numeri a regnare; e così, mentre i Tame Impala sono definitivamente sulla buona strada per diventare delle super star, i Pond sono ancora oggi una band di culto, non ancora conosciuta dal grande pubblico, quantomeno qui da noi. Ben due i membri in comune fra le due formazioni, il chitarrista e tastierista Jay Watson ed il batterista Cam Avery, senza dimenticare che il cantante e chitarrista dei Pond, Nick Allbrook, ha fatto parte anche dei Tame Impala, mentre il leader di questi ultimi, Kevin Parker, spesso ha suonato la batteria nei Pond (la band è completata dal chitarrista Joseph Ryan e dal bassista e tastierista Jamie Terry). I punti in comune, musicalmente parlando, fra le due bands, ovviamente non mancano: entrambe fanno ruotare il loro sound attorno ad un concetto il più possibile espanso di psichedelia, anche se poi, da quella base, ognuna prende la propria strada. Il tambureggiare ritmico con cui Hobo Rocket si apre è preludio ad un trip space psichedelico, comune a tutte le sette tracce in scaletta, dove anche elementi prog e glam sono di casa. Le stratificazioni immaginifiche della iper satura Whatever Happened To The Million Head Collide, tra cambi improvvisi e chitarre, tastiere e fiati a mescolarsi, scivolano nella successiva Xan Man, quasi un seventies rhythm & blues, ma come suonato dai Flaming Lips. Una netta influenza quella della band di Wayne Coyne e compagni, specie quelli del periodo The Soft Bulletin, che è facile riscontrare in diversi episodi, vedi la ballata espansa e corale Odarma, o la chiusa epica e caleidoscopica della bella Midnight Mass. Non si può dire che la componente pop non ci sia nella musica dei Pond, però, è altrettanto vero che sono più i suoni che le canzoni a rimanere in mente. Di Alone A Flame A Flower rimangono i riff da potente cavalcata cosmica, di Giant Tortoise le deflagrazioni Motorpsycho incistate su una tavolozza pinkfloydiana, della title-track le derive chitarristiche. Sono trentacinque minuti che non prevedono soste, che gli amanti del moderno suono psichedelico apprezzeranno non poco. Ed intanto, è stato annunciato un altro album in uscita entro fine anno, di cui si sa già il titolo: Man, It Feels Like Space Again. Si attendono nuove notizie dallo spazio, ordunque.

Lino Brunetti

IGGY & THE STOOGES @ IPPODROMO SAN SIRO, MILANO, 11 luglio 2013

IGGY & THE STOOGES

IPPODROMO SAN SIRO

MILANO

11 LUGLIO 2013

Diciamoci la verità: Iggy Pop avrà pure quasi settant’anni (!), sarà sciancato quanto volete e a qualcuno potrà pure risultare un po’ patetico, ma quando si parla di rock’n’roll e di punk-rock, è ancora in grado di dare la zuppa al 99% delle bands in circolazione. Con un disco nuovo alle spalle – Ready To Die, tramite il quale ha riesumato ancora una volta il nome degli Stooges – alla fine ben più efficace di quanto m’era parso durante i primi ascolti, rieccolo ancora in pista a tenere in vita l’aspetto più iconico, viscerale e selvaggio del rock. Quando si presenta sul palco a petto nudo, indifferente ai segni del tempo che quel corpo inevitabilmente porta incisi su di esso, e attacca con Raw Power, è come se non ci fosse più spazio che per questa inesauribile e vitale energia cosmica a cui abbiamo dato il nome di rock. E’ lui, l’Iguana, forse il più autorevole propugnatore del Verbo, il tramite attraverso il quale la fiamma continua a rimanere accesa. Devo proprio confessarlo, era da un sacco che non mi divertivo così tanto. Iggy è una bestia, un animale viscido e cattivo che neppure l’età è riuscito ancora a domare. Corre avanti e indietro sul palco, si batte il petto come uno scimmione in calore, sputa a ripetizione, eppure la sua voce è intatta e riesce ad essere efficace sia nell’urlo che nelle parti più modulate. Dietro Iggy, gli Stooges sono una macchina da guerra: scomparso il compianto Ron Asheton, oggi la chitarra è stata ripresa in mano da James Williamson, un chitarrista che sa come sputare fuori riff e assoli a ripetizione; fuori gioco, almeno dal vivo, pure l’altro Asheton, Scott, le bacchette sono saldamente in mano a Toby Dammit, un macinatore di ritmi infaticabile, supportato dal basso implacabile di un rovinatissimo Mike Watt e dalle infiltrazioni del sax di Steve MacKay, che a vista pare avere 1000 anni. Può un così scombinato assortimento d’improbabili personaggi essere riuscito a farci il culo in un’ora e mezzo di show? C’è riuscito e come! Perché quando la scaletta è composta da canzoni immortali come I Wanna Be Your Dog, Search & Destroy, una Fun House col palco invaso dal pubblico, 1970, un’epocale Open Up & Bleed, Gimmie Danger, Penetration, Down In The Street, da due gioielli tratti dal Kill City di Pop e Williamson (Beyond & Law e Johanna), da una in fondo inattesa ma sempre gradita The Passenger e da un pugno di per nulla secondarie nuove canzoni (Ready To Die, Sex & Money, Gun e Burn), non si può far altro che capitolare. Neanche un momento di pausa, una mitragliata di fuoco che non ha lasciato scampo, chiusa con l’immagine di Iggy che, prima di scendere dal palco, si cala i calzoni per mostrarci il culo. L’ultima, giocosa beffa di un eterno ragazzaccio che non vuole saperne di diventare adulto.

Lino Brunetti

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CAT POWER @ CARROPONTE, SESTO SAN GIOVANNI, 7 luglio 2013

CAT POWER

CARROPONTE

SESTO SAN GIOVANNI

7 LUGLIO 2013

Un concerto di Cat Power alla fine è sempre un evento, un po’ perché la bellezza delle sue canzoni è indiscutibile, un po’ perché non sai mai cosa succederà sul palco durante la serata. Le cronache sono piene dei racconti delle bizzarrie di Chan Marshall on stage e, anche se i wild years sono forse e si spera definitivamente alle spalle, sempre di fronte ad un personaggio sregolato ed irregimentabile ci si trova davanti (e lo sanno bene quelli che l’hanno vista la sera successiva a Roma). Smessi i panni a mio parere a lei poco consoni della soul singer, quelli con cui s’era presentata nei suoi tour precedenti, Chan ha finalmente recuperato i concerti cancellati l’anno scorso per motivi di salute ed è calata in Italia per presentare dal vivo le canzoni del suo Sun. Disco discusso e non da tutti giudicato riuscitissimo, devo dire che dal vivo, le sue canzoni, funzionano in maniera eccellente. Accompagnata da una band dall’assetto rock – chitarra, basso, batteria, tastiere/chitarra – minimale e velvettiana nei suoni, penalizzata in parte a causa della solita assurda regola sui decibel, Cat Power s’è presentata sul palco verso le 22:45, un po’ in ritardo sul previsto orario d’inizio, con capigliatura bionda, una tazza in mano, il suo bel sorriso ed il consueto passo ciondolante. L’attacco è con una superlativa e stravolta in senso rock The Greatest, giusto il primo di una serie di momenti emozionanti e memorabili. In rare occasioni come con i concerti di Cat Power il pubblico si divide: chi cerca la perfezione formale, lo stacco musicale che sorprende e l’ineccepibilità tecnica, quasi sempre rimane deluso; Chan è personaggio privo di sovrastrutture, sul palco è fondamentalmente se stessa, o almeno in questo modo appare, ed è più alla ricerca di un feeling, di un contatto emotivo, che non propensa alla costruzione di una spettacolo organicamente perfetto. Rispetto al suo periodo soul, stavolta mi sembra che abbia ripreso in mano, ma con molta meno follia e sgangheratezza del passato, questa sua caratteristica unica. In questo modo rifulgono come non mai le canzoni dell’ultimo album, intento a far la parte del leone nella scaletta, sottoposte in linea di massima ad una cura più rusticamente rock – ci piace tra esse ricordare una bellissima Manhattan, Nothing But Time, Ruin e Cherokee – ma pure tuffi nel passato come la magica e toccante Metal Heart o riletture di brani altrui quali l’intensissima e straziante Angelitos Negros o l’inattesa Shivers dei Boys Next Door di Nick Cave e Rowland S. Howard. La sua voce è calda e più a suo agio sui toni bassi, un po’ meno quando cerca i vocalizzi su più alti registri. Un’ora e un quarto di show – questa la maggior rimostranza che possiamo fare, troppo poco! – interrotto a mezzanotte in punto come da norme comunali. Alla fine Chan rimane sul palco altri dieci minuti a lanciare rose e tutto ciò che trova sul pubblico, godendosi l’abbraccio con esso. Da menzionare almeno l’apertura di concerto ad opera del cantautore australiano Scott Matthew, impegnato per una mezz’oretta ad offrirci una serie di sognanti cover di pezzi di Neil Young, Kris Kristofferson e Joy Division, ma pure di Bee Gees e Whitney Houston, tratti dal suo recente Unlearned, resi con voce e chitarra o ukulele.

Lino Brunetti

KID CONGO & THE PINK MONKEY BIRDS “Haunted Head”

KID CONGO AND THE PINK MONKEY BIRDS

Haunted Head

In The Red/Goodfellas

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KID CONGO POWERS, con la sua militanza in bands quali The Cramps, Gun Club e i Bad Seeds di Nick Cave, può ben dire di aver fatto parte della serie A del rock e di aver concorso a pagine importanti della sua storia. Da qualche anno, con THE PINK MONKEY BIRDS (Jesse Roberts, Kiki Solis, Ron Miller), dopo un’altra fetta di carriera in cui ha suonato ovunque si esigessero i suoi servigi, è inevitabilmente stato “retrocesso” nella serie B della musica più malata ed alcolica. Haunted Head è il terzo disco pubblicato sotto questa sigla, ed è ancora una volta un concentrato di garage rock, psychobilly, surf allucinato, swamp-rock da horror di serie Z  e rock’n’roll ultra fuzzato. Lungi dall’essere quella di un vero cantante, la voce di Kid Congo è lo scartavetrato borbottio, recitante e filtrato, di un alcolizzato, la cartoonesca versione del fantasma di un vecchio bluesman. Attorno ad essa, la band allestisce uno sporco e rugginoso peep show fatto di boogie scricchiolanti e twang guitars fangose. Canzoni vere e proprie ne emergono a stento, ma il mood è quello giusto e, in qualche modo, la leggenda continua.

Lino Brunetti

SAVOIRE ADORE “Our Nature”

SAVOIRE ADORE

Our Nature

Nettwerk/Self

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Non è mai facile affrontare criticamente un disco che si pone platealmente quale disco pop, perché, chissà come mai, la tendenza è istantaneamente quella di sottostimarlo, manco la ricerca della più estrema comunicabilità ed immediatezza fosse una colpa. Prendiamo ad esempio questo terzo disco dei newyorchesi SAVOIR ADORE che, ben lungi dall’essere un capolavoro, un pugno di belle melodie le mette in campo. Come approcciarlo? Dal punto di vista dell’originalità dovremmo stroncarlo subito: musicalmente va a pescare un po’ in ogni dove, dal synth pop anni ’80, ad un moderato shoegaze, che il più delle volte si traduce in un guitar pop d’ascendenza sempre molto eighties. Le melodie, cantate a due voci, maschile e femminile, occhieggiano ai girl groups anni ’60, oppure lambiscono il dream pop, arrivando persino ai My Bloody Valentine, purgati ovviamente da qualsiasi tentazione noise. Tutto qui? Si e no, perché poi alla fine, il disco dà ciò che promette e raggiunge i suoi obiettivi: qualche affondo danzereccio e sintetico (il primo singolo Dreamers, l’edonista Regalia, Loveliest Creature), un po’ di pop chitarristico per non inimicarsi gli indie kids più seriosi (Sparrow, Imagination, At The Same Time), un po’ di sixties che non fanno mai male (Anywhere You Go) e un paio di momenti un po’ più introspettivi quali Our Nature e Wild Davie. Hanno un po’ esagerato coi tempi – quasi un’ora è decisamente troppo per un disco del genere – ma se quello che cercate è un album leggero ma ben fatto, una possibilità magari gliela darei.

Lino Brunetti

SAMARIS “Samaris”

SAMARIS

Samaris

One Little Indian/Self

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Quasi neppure il tempo di formarsi, nel 2011, che, nel giro di pochi mesi, i giovanissimi SAMARIS, già erano i vincitori dei due più prestigiosi premi della loro Islanda, il Músíktilraunir come miglior band (riconoscimento vinto l’anno prima dagli Of Monsters And Men) e il Kraumur Award per il loro EP di debutto. Insolito trio, formato dalla cantante Jófrí∂ur Ákadóttir, dalla clarinettista Áslaug Rún Magnúsdóttir e dai computer di Kári Steinpórsson, i Samaris si fanno conoscere oggi fuori dalla loro terra, grazie a questo disco pubblicato da One Little Indian che raccoglie i due EP pubblicati finora e qualche remix. Melodie eteree e fatate, cantate in islandese da una voce che ricorda Bjork senza volerla scimmiottare, poste su una base elettronica notturna ed evocante le luci dell’alba, con i fraseggi del clarinetto che non poco concorrono a rendere peculiare il loro suono. Considerando il miglioramento percepibile tra il primo ed il secondo EP, più solido e con pezzi migliori, un bel biglietto da visita ed un buon auspicio per l’album atteso per l’autunno.

Lino Brunetti