ESMERINE “Dalmak”

ESMERINE

Dalmak

Constellation/Goodfellas

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Col nucleo centrale formato da Bruce Cawdron e Rebecca Foon, gli ESMERINE si pongono quale ennesima costola di collettivi quali Godspeed You! Black Emperor e Silver Mt. Zion (Bruce sta nei primi, Rebecca nei secondi). Reclutati per l’occasione il percussionista Jamie Thompson ed il multistrumentista Brian Sanderson, Cawdron e la Foon sono volati dal Canada fino a Istanbul, dove gran parte di questo nuovo Dalmak – verbo turco che indica all’incirca lo stare in contemplazione, ma anche lo stare immersi, l’essere assorbiti – è stato registrato in compagnia di un nutrito gruppo di musicisti locali. I tipici movimenti cameristici a cui ci hanno abituato molti dischi targati Constellation, si mescolano così alle suggestioni mediorientali apportate da strumenti quali bendir, darbuka, erbane, meh, barama, saz. Come suggerito dal titolo, il mood rimane essenzialmente contemplativo e meditativo, giusto qua e là scosso da qualche movimento che verrebbe quasi da definire rock. Il risultato è denso di fascino e, anche se ormai dovremmo esserci abituati ai suoni che questa incredibile fucina di musicisti da anni ci offre, l’incanto si ripropone intatto, visto anche come, ciascuna band, di volta in volta, sia comunque capace di affrontare certi suoni da angolazioni sempre diverse. Un gran bel disco!

Lino Brunetti

KING KHAN & THE SHRINES “Idle No More”

KING KHAN & THE SHRINES

Idle No More

Merge/Goodfellas

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Per essere un tipo iper prolifico quale in effetti è, i sei anni passati tra il precedente album e questo debutto su Merge, paiono un po’ strani per KING KHAN &THE SHRINES. Certo, nel frattempo, l’autoproclamatosi Emperor of RnB, ha avuto modo di fare le sue sortite con quell’altro pazzoide di Mark Sultan, ma insomma, Idle No More segna in qualche modo un ritorno. E che sia un disco rifinito e pensato, è dimostrato dalla qualità suprema delle sue canzoni. Stavolta il folle cantante e chitarrista indo-canadese, ha cristallizzato in 12 luccicose tracce, un suono che sta tra il soul della Stax, il garage rock d’era Nuggets, il selvaggio istrionismo di James Brown e persino qualche spolveratura degna della Sun Ra Arkestra meno cervellotica. Riuscite ad immaginarvi nulla di meglio? Io a fatica, specie poi se le canzoni sono eccelse sia quando paiono fare il verso agli Stones più lascivi (Thorn In My Pride), che quando si adagiano sulle corde di una ballata notturna (Darkness), o come quando danno vita ad una festa selvaggia, in cui si balla al suono di ottoni tirati a lustro e organi guizzanti. Canzoni come So Wild, Better Luck Next Time o Born To Die, tra le altre, vi garantiranno un party coi fiocchi. Se poi dovessero passare dalle vostre parti, mi raccomando, portate il culo fuori casa. Loro ve lo faranno dimenare fino allo sfinimento.

Lino Brunetti

WILLARD GRANT CONSPIRACY: una vecchia intervista

Proprio in questi giorni, esce il nuovo disco dei Willard Grant Conspiracy di Robert Fisher, una band che, nonostante abbia ormai pubblicato diversi album, nessuno meno che ottimo, ancora è patrimonio solo di un ristretto numero di appassionati. Dell’ultimo album ha scritto Luca Salmini sul numero di settembre del Buscadero: Ghost Republic è un disco minimale ed intimo, lirico ed essenziale, in cui Fisher è accompagnato dal solo David Michael Curry alla viola. E’ un disco ancora una volta prezioso, lontanissimo da qualsiasi trend, una vera e propria oasi per gli appassionati di Americana, in una versione forse mai così raccolta neppure per gli standard della band, sia pur non priva di qualche latente tensione. Qualche anno fa, era il maggio del 2008 e stava uscendo il loro disco Pilgrim Road, ebbi l’occasione d’intervistarlo Robert Fisher: fu uno di quegli incontri che ancora oggi ricordo con particolare affetto. L’intervista era stata fatta per il Busca ma poi, per via di una serie di rimandi causati da cosa oggi neppure ricordo, trovò spazio su Onda Rock. Ve la ripropongo qui oggi, in omaggio ai WGC.

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INTERVISTA A ROBERT FISHER DEI WILLARD GRANT CONSPIRACY

Robert Fisher è un narratore di storie; lo è da più di dieci anni coi suoi Willard Grant Conspiracy, una delle più emozionanti e capaci band del panorama folk-rock statunitense, e lo è stato durante l’ora abbondante in cui ho chiacchierato con lui in un albergo milanese, in un assolato pomeriggio. E’ un fiume in piena quando parla, sempre appassionato e infinitamente profondo e gentile, un conversatore di quelli che ben raramente si incontrano. Parlare con lui è stato davvero un piacere enorme.

Dopo sette album e più di dodici anni di carriera, si può ben dire che siete in giro da un bel po’! Ti aspettavi di arrivare così lontano quando avete iniziato?

Non ne avevo nessuna idea, ci speravo più che altro.. Vedi, ho iniziato negli anni ottanta a suonare, e prima che qualcuno si accorgesse di quello che facevo, molti anni e anche diverse bands erano andate. In qualche modo, l’approccio è sempre stato diverso da quello di altre bands; non ho mai pensato in termini di “ora mi cerco un contratto, faccio un disco, poi andiamo in tour”. Fin dall’inizio era una sorta di forza interiore che mi spingeva a fare musica, era ed è qualcosa che ho dentro e che deve uscire fuori. Quando facciamo un disco spero sempre che alla gente piaccia, ma non c’è nulla di strutturato dietro ed io, comunque, continuerei a suonare anche senza un contratto.

E’ un qualcosa che ha più a che fare con la tua vita che non con una carriera…

Sì! E poi non la definirei neppure una carriera. Io vivo facendo un altro lavoro, quello che si guadagna col gruppo viene sempre reinvestito nel gruppo stesso, spesso sono più le spese che gli introiti. L’idea stessa di carriera è un po’ limitante per me. E’ davvero un onore essere conosciuti sia in patria che all’estero, poter girare il mondo portando la propria musica a persone che sai che ti seguono e l’ascoltano. Come musicista, tutto ciò ti fa sentire anche una grossa responsabilità nei confronti del pubblico e anche della musica stessa.

Con Pilgrim Road avete abbandonato le atmosfere elettriche di Let It Roll per riconnettervi piuttosto ad un disco come Regard The End. Mi puoi dire come è nato quest’ultimo disco?

La tua è una giusta osservazione. Mentre Let It Roll era un album con un feeling da live band, Pilgrim Road ha le stesse radici e parte dalle stesse idee di Regard The End. Già quando registrammo quel disco, sapevo che in futuro sarei tornato su quelle idee per elaborarle ulteriormente e spingerci oltre. Proprio durante il tour di RTE ci trovavamo a Glasgow, al 13th Note, per uno show; fu uno di quei concerti in cui tutto va male fin dall’inizio, con un sacco di problemi tecnici e una serie d’intoppi assortiti. Al termine del concerto, che portammo a termine facendo del nostro meglio, venne a parlarmi sto tizio molto timido che parlava a voce bassissima. Si presentò come compositore classico e mi offrì di collaborare con noi. All’inizio ero piuttosto scettico, nei nostri dischi avevamo già usato archi, fiati, piano, e come ti dicevo prima, non pianifico mai nulla con largo anticipo. Quel tizio era Malcolm Lindsay che ha co-scritto con me l’intero Pilgrim Road.

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Il nuovo disco espone nuove influenze rispetto al solito; ha sempre le radici nel suono Americana ma poi va a toccare lidi cameristici e qualche sfumatura jazzata…

Non credo ci sia del jazz.. Io lo vedo come una combinazione di diversi elementi. Malcolm è un musicista classico ma ha anche suonato la chitarra in gruppi rock, è un conoscitore della musica folk. Abbiamo un background simile. Quando collabori con qualcuno porti con te tutte le tue esperienze precedenti. Per questo disco ci siamo messi a scrivere e a registrare tutto nello stesso tempo, con molto istinto e poco ragionamento. Volevamo evitare di fare come quelle bands che scrivono il pezzo e poi chiamano un arrangiatore ad appiccicargli gli archi sopra, io volevo che quelle parti fossero parte integrante della struttura stessa delle canzoni, una loro significativa voce emozionale. Volevo usare le viole, i violini, il violoncello o il vibrafono in modo inusuale e non convenzionale e inserirli in strutture anch’esse non classiche. Un pezzo come Painter Blue, ad esempio, non ha il ritornello, o meglio esso è rappresentato da una partitura musicale, come in un movimento sinfonico. Poi, ovviamente, ci sono anche pezzi più tradizionali, che puoi canticchiare facilmente, canzoni dall’appeal pop inserite in un contesto un po’ diverso. Un’altra cosa a cui abbiamo prestato attenzione è stata quella di mantenere un approccio minimale, evitando di suonare pomposi e magniloquenti. Abbiamo ragionato secondo il motto jazz less is more.

Quando prima dicevo jazz, lo intendevo infatti come mood…

Sì, Jerusalem Bells ha un mood jazz senza esserlo, così come anche Water And Roses. The Great Deceiver ha, per contro, un mood blues pur essendo strutturalmente una folk song.

Chi è la ragazza che canta in The Great Deceveir?

Brava, eh? Si chiama Iona MacDonald, è parte di un duo assieme al suo ragazzo che suona la slide guitar; si chiamano Dog House Roses, sono di Glasgow e tra un paio di mesi dovrebbe uscire un loro disco. Ci eravamo conosciuti attraverso My Space e così, mentre ero a Glasgow a registrare il disco, ho notato che suonavano e sono andato a vederli. Da lì a proporgli di collaborare al disco, il passo è stato breve.

C’è una gran cura per gli arrangiamenti in Pilgrim Road.

Io e Malcolm ci abbiamo lavorato intensamente per dieci giorni, senza essere inutilmente puntigliosi ma dandoci la possibilità di lavorare a fondo su di essi e di essere il più possibile articolati. Stavolta, poi, ho voluto essere un po’ meno passivo del solito con gli altri musicisti: ho consegnato loro delle parti strumentali da eseguire precise e definite, specificando che avrei accettato dei suggerimenti, ma sempre partendo dalle parti che gli avevo presentato.

Mi sembra che un po’ tutte le canzoni di Pilgrim Road affrontino il tema della spiritualità. Diresti che c’è una connessione evidente fra le varie canzoni che compongono l’album?

Non particolarmente. Non tutte le canzoni affrontano lo stesso tema e anche quando lo fanno, hanno punti di vista differenti. In The Great Deceveir il protagonista della canzone chiede che gli sia mostrato il diavolo per poter riconoscere Dio, il che ne fa una sorta di inno rovesciato e la rende diversissima da The Pugilist, dove al centro della scena c’è un lottatore che si batte per realizzare i propri desideri, pur tentando di conservare dentro di sé la propria spiritualità. Forse sono argomenti inconsueti ma, se ci pensi bene, temi come quello della fede sono molto dibattuti oggigiorno nel mondo. Comunque, non ho scritto premeditamente di queste cose, in qualche modo, alla fine della realizzazione del disco, io stesso me ne sono meravigliato. Ho solo tentato di scrivere nel modo più onesto possibile, senza curarmi troppo del risultato finale e dell’affresco che poi ne sarebbe venuto fuori.

Robert Fisher

Robert Fisher

Ci sono alcune parole che ricorrono spessissimo nelle recensioni dei vostri dischi: triste, malinconico, gotico. Che ne pensi? Ti dà fastidio la cosa?

Penso sia una scappatoia molto facile metterla giù in questo modo, dire: è triste! Malinconico è un termine che invece ritengo  appropriato: molta musica, film , libri, specie degli anni ’50 e ’60 è malinconica, termine che porta dentro di sé una certa dose di dolcezza, anche se oggi viene usato quasi esclusivamente in un accezione negativa, cosa che ritengo sbagliata. E’ un termine che in realtà sottende una qualche forma di riflessione; la gente spesso non ha tempo e voglia di riflettere sulle cose che non funzionano, pensa solo a  trovare una soluzione veloce ai problemi, non meditando a fondo su cose come la perdita, il dolore. Giù una pillola e tutto è risolto. Invece attraverso queste cose c’è molto da imparare su sé stessi, sulla vita. Alla fine, la gente, leggendo quelle parole in una recensione, finisce per associarli a cose come la noia o la tristezza fine a sé stessa, cosa che ovviamente non è.

Probabilmente molti di quei termini vengono usati anche come sinonimo di intenso, emotivo..

E’ un po’ lo stesso problema di quando si mettono le etichette ai dischi. Come quando dici a qualcuno che odia il country che quello è un disco country e questo basta ad indurlo a non approfondirne la conoscenza, magari precludendosi la possibilità di scoprire qualcosa anche per lui di significativo. Io preferirei che non si dicesse di cosa parlano le mie canzoni, lascerei al pubblico la possibilità di interpretarsele da solo e di metterci dentro qualcosa di loro stessi.

Molto spesso hai registrato i tuoi dischi in Europa; cosa ti lega al Vecchio Continente in questo senso?

Il posto in cui registro, in realtà, è dettato solo da motivi di comodità legata agli impegni del momento. Ho registrato un po’ ovunque, Glasgow, Boston, la Slovenia, l’Olanda. Registrare in giro per il mondo, molto spesso mentre sono in tour, ti apre possibilità che non ti aspetteresti, un po’ come per il caso dei Dog House Roses che ti dicevo prima. Ultimamente ho registrato la mia voce per un pezzo di Cesare Basile mentre ero in Olanda, mentre lui era in studio con John Parish chissà dove. E’ stata una cosa completamente improvvisata e quasi accidentale ma bellissima se ci pensi. La moderna tecnologia ti permette queste cose ed è una vera conquista, fantastica da usare. Anche Jackie Leven aveva una canzone che assolutamente voleva cantassi io; così ce ne siamo andati in Galles, in un cottage in mezzo alla neve, a registrare. Sono tutte grandi avventure e belle esperienze, che danno forma ad una sorta di community, di grande famiglia. Pilgrim Road è stato registrato a Glasgow perché Malcolm vive lì ed io ero in tour in Europa. Dove si registra non ha molta importanza, ci si affida ad una sorta di geografia mentale, anche se l’atmosfera particolare, grigia e piovosa, di Glasgow un po’ ha influito sul risultato finale.

Trovi differenze tra il pubblico americano ed europeo?

Cambia molto da Paese a Paese; in posti come l’Irlanda o l’Olanda la gente continua imperterrita a parlare durante i concerti, in Germania sono tutti molto tranquilli. Io sono uno storyteller e quindi, in paesi come la Spagna o l’Italia, mi devo un po’ limitare perché so che non tutti parlano inglese. Io però, più che alle differenze, preferisco pensare all’universalità del linguaggio musicale e a come questo possa essere recepito in maniera sostanzialmente simile, a prescindere dai contesti culturali, dalla lingua parlata, dalla Storia di quel Paese. E’ tutta una questione di onestà della presentazione, d’intensità emotiva, di qualità tecniche ovviamente. Recentemente sono stato in Portogallo e mi sono appassionato al fado, pur non comprendendo una sola parola di quello che viene detto nelle canzoni. In questo senso, generalmente, gli americani tendono a rifiutare la musica non in inglese, la cosa li spiazza, non fanno molta fatica. Nel resto del mondo ci sono paesi che hanno conservato le proprie radici musicali , come l’Italia dove puoi ascoltare ottima musica cantata in italiano e dove avete una tradizione culturale ricchissima, e altri dove invece la propria tradizione musicale è stata abbandonata a favore dei modelli globali dominanti.

Robert Fisher & David Michael Curry

Robert Fisher & David Michael Curry

Sei interessato all’aspetto politico delle canzoni?

Bella domanda! Io, generalmente, tendo a scrivere canzoni svincolate da un aspetto temporale. Credo che i testi debbano poter fluttuare nel tempo in modo che anche fra cent’anni o in qualsiasi altro momento possano risultare freschi e attuali. Non scrivo mai di politica in maniera specifica; quando affronto argomenti politici lo faccio senza entrare nell’attualità, senza specificare date o avvenimenti precisi, tentando di affrontare la cosa in maniera più universale.

C’è qualche produttore con cui ti piacerebbe lavorare?

Non saprei rispondere.. Io stesso lo sono e, secondo me, il ruolo del produttore è quello di facilitare e sviluppare ciò che c’è nella mente del gruppo, spingendoli oltre i loro confini, verso territori inesplorati. E’ una vera e propria sfida! Ora, se questo è quello che cerco in un produttore non saprei chi scegliere, perché dovrei conoscerli personalmente per sapere se possono fare qualcosa per me. Non sono affatto interessato al nome del produttore di grido, a quello che ha quello specifico suono che farebbe suonare il mio disco in quella precisa maniera.  Io, piuttosto, cerco una sorta di purezza, di suono naturale degli strumenti.

E invece, gli artisti di qualsiasi disciplina che sono stati importanti per te?

Oh, la lista potrebbe essere lunghissima, lungo un asse che va da Robert Rauschenberg fino a mio nonno (che era un suonatore di contrabbasso e fino a due anni fa neanche lo sapevo!!), che mi ha influenzato come persona, non come musicista. Devi sempre avere dei modelli alti; quello a  cui servono gli eroi, a prescindere dal talento che hai, è lo spingerti a fare sempre meglio e andare oltre le tue capacità. Loro mi spingono ad avere il loro stesso coraggio ed ambizione, senza imitarne il suono però, ma attingendo piuttosto dalla loro attitudine e il  loro coraggio di sperimentare. Molte bands fanno l’errore di voler imitare il suono della musica che amano, evitando di andare invece a cercare la propria vera voce.

Credo che nella musica dei Willard Grant Conspiracy ci sia una forte componente cinematica. Mai pensato di scrivere una colonna sonora?

Sarebbe molto divertente farlo! Spero sempre che qualcuno prima o poi me lo chieda. La musica ha una componente visiva molto forte e mi piace molto l’idea che essa possa creare spazi e tempi nella mente dell’ascoltatore e che una sola canzone lo possa fare in miriadi di modi diversi a seconda dello  stesso.

Un pezzo come Vespers ti fa sentire come se stessi mettendo piede dentro una cattedrale!

E’ una canzone molto strana quella, solo due viole e quella specie di austero coro maschile russo con dentro Jackie Leven. La parte musicale è un estratto dalla musica per un balletto che Malcolm aveva scritto in Scozia e su cui vedeva benissimo la mia voce. Dal momento in cui mi propose la cosa  alla sua realizzazione non passarono che poche ore: i versi li scrissi tutti di getto come in una  specie di trance e registrammo la voce la sera stessa sulla partitura di viole. Tutto è andato alla perfezione, una sorta di dono dal cielo. E’ una canzone che amo molto, intensa, oscura, non facile. A volte un po’ mi spaventa, come un po’ tutto il disco.. Mi chiedo: “Non avrò esagerato?”. Pezzi come Jerusalem Bells o Water And Roses, a risentirle mi domando come abbia fatto ad arrivarci. Verra capito? Spero di sì!

Robert Fisher

Robert Fisher

Scrivere ti viene facile oppure no, generalmente?

E’ essenziale tenersi ricettivo verso qualsiasi fonte d’ispirazione. La nostra vita è programmata molto intensamente e quindi quando questa arriva, non è detto che tu abbia il tempo di recepirla e agire su di essa. Spesso non si ha neppure la possibilità di riconoscerla perché si è concentrati su altro; in qualità di songwriter, pur avendo la stessa vita complicata di qualsiasi altro, cerco di lasciare degli spazi per riconoscere ed agire sull’ispirazione. Bisogna essere abbastanza onesti anche da capirne la qualità: quello che un giorno ti sembra fantastico, il giorno dopo potrebbe rivelarsi pura spazzatura. Sembra facile ma non lo è.

Come vedi il music business oggi e dove si collocano i WGC all’interno di esso?

Se fosse un palazzo, probabilmente in cantina! [risate] Non credo che il music business sia particolarmente diverso dagli altri tempi oggi: c’è un sacco di merda ma anche un sacco di roba ispirata, come sempre, con una predominanza della prima sulla seconda (fanno eccezione gli anni ’60 e l’era punk, ma quelli erano tempi fuori dal comune). Quello che è realmente cambiato è il contesto culturale: la gente non sa più riconoscere la qualità perché è stata abituata a degli standard molto bassi, come se si trattasse di fast food. I discografici cercano di vendere il più possibile e nel più breve tempo immaginabile, fregandosene del coltivare artisti a lungo termine ma cercando di sfruttare al massimo il momento immediato; per fare questo hanno livellato la qualità su standard bassissimi, attraverso prodotti vuoti ed incosistenti ma il più largamente possibile vendibili e comprensibili.

Per finire, mi devi proprio togliere una curiosità: come mai Malpensa si intitola così, come l’aeroporto in cui, devi sapere, io lavoro?

[scoppia in una risata fragorosa] Bé, è una storia divertente.. Dovevo andare da Zurigo a Malta ed ero stato costretto a fare scalo a Malpensa dove avevo un’attesa di più di quattro ore, prima di potermi imbarcare. Il mio bagaglio era già stato spedito, il libro che stavo leggendo l’avevo finito e stavo sentendo musica nel mio iPod mentre guardavo fuori dalle vetrate il paesaggio e gli altri passeggeri intorno a me. E poi, bang, di colpo, mi viene in mente una melodia! Accidenti, mi dico, questa è una canzone! Non avevo con me né carta né penna, né alcun modo per registrarla o fissarla da qualche parte. Sono andato avanti per le cinque ore successive, fino a che non sono giunto in albergo e ho potuto metter mano al registratore, a canticchiarmela fra me e me, ininterrottamente. Quando raccontai questa storia a Malcolm, mi suggerì di chiamare la canzone così, in onore di quella che, in tutto e per tutto, era stata la madre della canzone, Malpensa! E per una canzone che parla di lasciarsi le cose alle spalle, il nome di un aeroporto mi sembra proprio azzeccato! [risate] Di tutti i problemi che state passando per l’abbandono dei voli di Alitalia e di tutti gli aspetti politici della faccenda so poco e nulla. Non era questo il tema della canzone!

Lino Brunetti

END OF THE ROAD 2013 – UN RACCONTO PER IMMAGINI

senza titolo-124Un po’ come abbiamo fatto per il Primavera Sound, vi raccontiamo qui l’edizione 2013 del bellissimo festival End Of The Road – si tiene nel Dorset, in Inghilterra, ogni anno alla fine di agosto – attraverso una galleria di immagini, rimandandovi ad un più completo report che apparirà sul prossimo Buscadero. Per il momento, buona visione quindi.

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Annie Eve

Annie Eve

Widowspeak

Widowspeak

Diana Jones

Diana Jones

Landshapes

Landshapes

Ralfe Band

Ralfe Band

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Pins

Pins

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Futur Primitif

Futur Primitif

Allo Darlin'

Allo Darlin’

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Doug Paisley

Doug Paisley

Serafina Steer

Serafina Steer

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Money

Money

Eels

Eels

Eels

Eels

Eels

Eels

Matthew E. White

Matthew E. White

Bob Lind

Bob Lind

David Byrne

David Byrne

St. Vincent

St. Vincent

Savages

Savages

Savages

Savages

King Khan & The Shrines

King Khan & The Shrines

Birthday Girl

Birthday Girl

Fossil Collective

Fossil Collective

Evening Hymns

Evening Hymns

Pokey La Farge

Pokey La Farge

Indians

Indians

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Night Beds

Night Beds

Dawes

Dawes

Dawes

Dawes

Angel Olsen

Angel Olsen

Angel Olsen

Angel Olsen

Leisure Society

Leisure Society

Leisure Society

Leisure Society

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Warpaint

Warpaint

Warpaint

Warpaint

Warpaint

Warpaint

Anna Von Hausswolff

Anna Von Hausswolff

Anna Von Hausswolff

Anna Von Hausswolff

Trembling Bells

Trembling Bells

Trembling Bells with Mike Heron

Trembling Bells with Mike Heron

Mike Heron

Mike Heron

Mike Heron

Mike Heron

Crocodiles

Crocodiles

Barr Brothers

Barr Brothers

Barr Brothers

Barr Brothers

Barr Brothers

Barr Brothers

Barr Brothers

Barr Brothers

Barr Brothers

Barr Brothers

Charlie Boyer & The Voyeurs

Charlie Boyer & The Voyeurs

Charlie Boyer & The Voyeurs

Charlie Boyer & The Voyeurs

Damien Jurado

Damien Jurado

William Tyler

William Tyler

Bo Ningen

Bo Ningen

Bo Ningen

Bo Ningen

Bo Ningen

Bo Ningen

Valerie June

Valerie June

Valerie June

Valerie June

Valerie June

Valerie June

Broken Twin

Broken Twin

Broken Twin

Broken Twin

John Murry

John Murry

John Murry

John Murry

Dinosaur Jr

Dinosaur Jr

Dinosaur Jr

Dinosaur Jr

Barr Brothers with Futur Primitif

Barr Brothers with Futur Primitif

Caitlin' Rose
Caitlin’ Rose

All photos © Lino Brunetti

Don’t use without permission

KANDODO “K2O”

KANDODO

K2O

Thrill Jockey/Goodfellas

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Simon Price è membro dei The Heads. Come kandodo è autore di due album, di cui il secondo, k2o, fresco di stampa. Miscelando strati di chitarre e tastiere, field recordings e la batteria di Wayne Maskell (anche lui nei The Heads), dà vita a composizioni strumentali ultra psichedeliche, il cui culmine sta tutto nei 22 minuti di Swim Into The Sun, un mastodonte pieno di rifrazioni sonore e paesaggi liquidi che pare estrapolato da un disco di dei Neu particolarmente allucinati. Sta diventando un territorio fin troppo affollato ed inflazionato questo ormai, piuttosto manierista – e la Thrill Jockey ne ha diversi in catalogo di esperimenti del genere, quasi sempre dei side-project – ma è chiaro che gli appassionati del genere ci sguazzeranno alla grande qui dentro. Soprattutto il pezzo citato, che occupa l’intera side 2 del vinile, pur senza dir nulla di nuovo, piace non poco.

Lino Brunetti

Arcade Fire news!

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L’attesissimo nuovo album degli Arcade Fire è alle porte! S’intitola Reflektor e arriverà nei negozi il 29 ottobre. Nel frattempo, mentre già alcune versioni “non ufficiali” hanno cominciato a girare in rete, da poche ore è disponibile il primo singolo estratto dal disco, capace d’incuriosire non poco circa quelli che saranno i contenuti dell’album. Disponibili anche due video per la canzone, che è pure quella che dà il titolo all’album: uno interattivo – scritto, diretto e prodotto dal regista Vincent Morriset – apribile solo col browser Chrome, nel quale, attraverso l’utilizzo del mouse, è possibile attivare effetti di luce, entrare a far parte del video stesso e altre cose che vi invito a provare da voi (lo trovate qui). Il secondo, decisamente più tradizionale, porta la firma di Anton Corbijn e lo trovate qui sotto. L’album è già prenotabile su questa pagina.

ZOLA JESUS “Versions”

ZOLA JESUS

Versions

Sacred Bones/Goodfellas

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La genesi di Versions si ha quando, durante il tour del suo Conatus, a Nika Roza Danilova, in arte ZOLA JESUS, viene data l’opportunità di suonare al Guggenheim di New York, uno dei più prestigiosi musei d’arte moderna al mondo. E a quel punto che le viene l’idea di fare qualcosa di speciale; chiama JG Thirlwell, che in molti ricorderanno col nome di Foetus quale leggenda della musica industrial, da tempo impegnato in qualità di compositore ed arrangiatore sinfonico per i più svariati progetti, e gli chiede di preparare degli arrangiamenti per quartetto d’archi delle sue canzoni. Il risultato lo possiamo sentire oggi in Versions ovviamente, disco in cui Zola Jesus riprende nove canzoni del suo repertorio e, con l’aiuto del Mivos Quartet, le porta a nuova vita. E bisogna dire che il trattamento rende le canzoni della Danilova particolarmente affascinanti; il repertorio arriva in parte da Conatus, in parte dai dischi più vecchi; gli arrangiamenti per archi ben si mescolano con la sua voce e con l’elettronica della sua musica, ed il suo pop gotico e venato wave ne viene accresciuto in forza. Difficile dire oggi se sarà questo il territorio verso il quale si muoverà la musica di un’autrice partita dal noise o se si tratta solo di un episodio. Per chi non conosce la sua musica, ad ogni modo, un’ottima porta d’ingresso.

Lino Brunetti

ELLIOTT SHARP “Haptikon”

ELLIOTT SHARP

Haptikon

Long Song Records

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Non credo ci sia bisogno di dilungarsi troppo su chi sia ELLIOTT SHARP. Dalla fine degli anni ’70 ad oggi, il suo nome sarà apparso in un centinaio di dischi almeno, a volte intestati a lui, a volte ad ensemble quali i Carbon, i Terraplane o l’Orchestra Carbon, oppure in qualcuna delle sue numerosissime collaborazioni, in formazioni a due, in quartetto, o in gruppi maggiormente compositi. Multistrumentista e grande sperimentatore Elliott Sharp, sempre in bilico tra avanguardia, jazz, blues, rock e qualsiasi altro tipo di musica sia riuscito ad attirare la sua inesauribile curiosità. Con Hapticon si presenta da solo, essenzialmente nelle vesti di funambolico chitarrista, ma impegnato pure al basso, agli electronics, ai campionamenti e al drum programming. Il suono è quello di una band, fortemente materico e tattile, come in qualche modo il titolo allude. Lunghe jam chitarristiche, mai sotto i sette minuti, in alcuni frangenti anche più dilatate, che esplorano i suoni della sei corde muovendosi fra mondi diversi, facendoli alla fine risultare liminari. E se quindi in Umami pare sia il blues acustico a voler prendere il sopravvento, nell’allucinata Phosphenes sembra Hendrix reincarnatosi nel Robert Fripp più furioso, in Sigil Walking ci fa perdere in scenari avant privi di confine, in Messier 55 ingloba risvolti etno, giusto quell’attimo prima di concedere un’oasi di maggior meditatezza tramite i paesaggi desertici dell’evocativa Finger Of Speech. Da sentire!

Lino Brunetti

RAVEN “ROCK UNTIL YOU DROP” DVD

RAVEN

Rock Until You Drop

SPV/Steamhammer

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Il lavoro di recupero delle radici dell’heavy metal continua con questi documentari che testimoniano la nascita e l’esplosione (e l’oblio, a volte) di alcune band fondamentali. I lavori fatti da Iron Maiden, Motorhead, Saxon nel recupero dei loro primi anni di vita è veramente divertente ed interessante, ma la loro storia, lastricata di successi e notorietà, è ben diversa da quelle band minori che pur avendo avuto nei primi anni di crescita del metal un ruolo primario, l’hanno poi inopinatamente perso. Emblematica in questo senso la storia raccontata nel magnifico film sugli Anvil, ed è proprio sulla stessa falsariga che si dipana la vicenda raccontata in questo doppio DVD degli altrettanto “fondamentali” Raven. Gli inizi sono i soliti, i fratelli John e Mark Gallagher e l’amico Rob Hunter vivono il proprio sogno musicale nell’inghilterra industriale e depressa dei primi anni ottanta, cattiveria, fame e tanta voglia di fare casino. La nascita dello speed metal e del thrash passa anche attraverso loro, i primi album furono schegge impazzite di rock’n’roll che tanto doveva agli Sweet quanto al punk più intransigente. Poi le cose non sono andate proprio per il verso il giusto, l’ispirazione è scemata e i tempi sono cambiati, ma la voglia di NWOBHM di questi ultimi anni li ha nuovamente riportati in tour per il mondo. Il DVD è assemblato in maniera quasi amatoriale, una sorta di copia e incolla di tutto il materiale che sono riusciti a recuperare, alcuni filmati sono veramente d’epoca, ma di certo si trasformano in autentici cult per i loro estimatori. Il tutto è condito con la solita sfilata di “rockstar” che tributano il loro plauso alla band, tra questi Chuck Billy, Udo, Dee Snider, Lars prezzemolo Ulrich. Quei tempi se ne sono andati ma è giusto ricordare chi ha contribuito in maniera esaltante alla nascita di una scena che ancora oggi seppur trasformata, modificata e “diversa” è ancora viva, pulsante, e ovviamente spaccatimpani.

Daniele Ghiro

MINISTRY “ENJOY THE QUIET” DVD

MINISTRY

Enjoy The Quiet – Live At Wacken DVD

13 Planet Records

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Non certo il miglior momento nella vita di Al Jourgensen, che pure di momenti sbagliati ne ha passati tanti nel corso del suo turbolento percorso artistico e umano. Dopo aver decretato la fine dei Ministry qualche anno fa è ritornato sui suoi passi rimettendo in gioco la band, disco e tour nuovi, accompagnato come sempre dal fedele amico di una vita Mike Scaccia. Ma il chitarrista si è accasciato sul palco durante un concerto a Dallas lo scorso 22 dicembre, non rialzandosi più, stroncato da un infarto. La pubblicazione di questo DVD è dedicato alla sua memoria e vede i Ministry muoversi sul palco del famoso Wacken Festival, davanti a migliaia di persone che, ad esser sinceri, sembrano non molto interessate a quanto la band stà facendo sul palco. Il problema di un festival, non tutti sono li per te, e a parte le infuocate prime file il resto della gente se ne sta semi tranquilla con le mani in tasca. Ed è un peccato perché sul grandissimo palco i Ministry sfoderano una prestazione esemplare, scatenando una potenza di fuoco devastante. Grossi schermi accompagnano con video l’esibizione, sostenendo egregiamente la performance di un Al Jourgensen indiavolato e sinistro, che presenta buona parte dell’allora fresco (e non memorabile) Relapse, ma che non si dimentica di mettere sul piatto i classici che hanno reso immortale la band. E allora Just One Fix, No W, New World Order scatenano un inferno fatto di Metal e Industrial, mischiati sapientemente come solo loro (e pochi altri) sono riusciti a fare durante i propri dischi, con un impianto visivo e di luci impressionante e riprese televisive notevoli e per nulla ripetitive. Recentemente, dopo la morte dell’amico Mike, Al ha detto che “Questa volta i Ministry cesseranno definitivamente la propria attività, perché non ci sarà un altro disco senza Mike. E’ morta una parte di me, sono finiti i Ministry ma non è finito Al Jourgensen. Farò altro, ho un nuovo gruppo, continuerò”. Gli faccio i migliori auguri e mi porto sulle spalle il grande rimpianto di non averli mai visti dal vivo: questo DVD è una grande testimonianza che medica parzialmente la ferita. Allegato anche l’esibizione del live sempre al Wacken del 2006, meno curata tecnicamente ma che comunque offre anch’essa una reale testimonianza live della più grande band industrial-metal che il mondo rock abbia mai partorito.

Daniele Ghiro

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Mike Scaccia e Al Jourgensen