SALUTI DA SATURNO
Intervista a MIRCO MARIANI
di Lino Brunetti
foto © Pietro Bondi
Dancing Polonia, il terzo disco di Saluti da Saturno, progetto musicale del multistrumentista Mirco Mariani – un passato, per lui, nella band di Vinicio Capossela ed in formazioni quali Mazapegul e Daunbailò – è per il sottoscritto uno dei dischi italiani più belli dell’anno. Nelle sue canzoni, un cantautorato classico, per certi versi rimandante alla tradizione dei Paoli, degli Endrigo, dei Tenco, s’ibrida con un gusto musicale più visionario, in cui arrangiamenti inusuali spostano il tutto verso una lateralità mai spocchiosa, ma solo limpidamente specchio della fantasia al potere. Mirco stesso ha presentato la sua musica quale “free jazz cantautorale”. Ci è parso quasi un obbligo, ma soprattutto un piacere, approfondire con lui le ragioni della sua musica.
Presentando Dancing Polonia, hai parlato del passaggio dal “pianobar futuristico elettromeccanico” dei dischi precedenti, al “free jazz cantautorale” di questo. Descrizioni suggestive senz’altro, ma più nel dettaglio, in cosa è profondamente diverso il nuovo album dal tuo punto di vista? Qual’era l’idea forte che gli sta alla base?
L’idea era quella di partire da una forma canzone più definita, che può stare in piedi anche con solo il pianoforte, per poi vestirla con sfumature di free jazz romantico, leggeri disturbi, rumori o tensioni. Ti confesso che questo passaggio è risultato più difficile del previsto, perché inserire dei disturbi sulla forma canzone, a volte, mi suonava banale e scontato; allora è nato il Free Jazz Cantautorale, che prevede di potersi muovere su delle note non sempre giuste, ma che descrivono lo stato d’animo della canzone. Ora forse sarei più consapevole di questo processo e prevedo un secondo capitolo.
In maniera trasversale lo erano anche i tuoi dischi precedenti, però Dancing Polonia è infatti un disco dalla più forte e marcata impronta cantautorale, forse meno “pop” e senza dubbio più “classica”. Sei d’accordo con questa affermazione?
Dancing Polonia, a mio avviso, ha delle storie da raccontare più visionarie e cinematografiche, là dove nulla c’è ma tutto può accadere, dove si incontrano personaggi spettinati ma con uno sguardo bruciante e dove ci si ritrova all’interno di un bar trattoria e ad un certo punto si spostano i tavoli al lato della stanza e ci si mette a ballare abbracciandosi. È un disco che ha bisogno di unione, condivisione e divertimento sincero, di rompere dei canoni a volte troppo autoreferenziali del concerto standard.
Credo infatti che il classicismo delle canzoni di Dancing Polonia sia in qualche modo ingannevole… Mi spiego: se le melodie, le parti cantate, rimandano senz’altro alla tradizione cantautorale italiana degli anni sessanta – ti pare un azzardo se ti dico che a tratti mi è venuto in mente anche Gino Paoli, per fare un nome? – dal punto di vista musicale, il disco è tutt’altro che tradizionale, con arrangiamenti insoliti e brulicanti di suoni. Faceva parte delle tue intenzioni creare una tale dicotomia?
La canzone italiana di Paoli, Tenco, Endrigo ma anche Celentano sono senza ombra di dubbio la mia grande passione insieme a quella per il Jazz bianco di Paul Desmond, Chet Baker o Charlie Haden fino al Free Jazz, senza dimenticare l’insegnamento più importante: quello della musica Romagnola dei miei inizi dove fondamentale è la figura del capo orchestra, che deve capire qual è il momento del walzer o della polka. Insomma da tutto questo miscuglio è evidente che la sonorità può soffrire di qualche disturbo di bipolarità. E’ però un miscuglio sincero e sentito, non ricreato per inseguire chissà mai quale ultima moda.
Avevi in mente dei modelli quando sei partito a scrivere le canzoni di questo disco, oppure è stato un processo più spontaneo e naturale?
Le storie che viaggiano all’interno di questo disco sono storie semplici, come una passeggiata in piena estate sul monte Fumaiolo (dove nasce il Tevere) con le mie due bambine dove improvvisamente veniamo colti da un freddo imprevisto e ci si ritrova attorno ad un tavolo con una candela accesa e ci sembra di avere tutto e mentre si ritorna verso casa si canticchia la nascita di una Canzone di Cera. L’altra forte ispirazione è il cinema spettinato di Aki Kaurismaki, con i suoi colori saturi e una poesia quasi sfacciata o la tanta neve bianca di Hiner Saleem in “Vodka Lemon”, dove la miseria è vissuta con dignità e ti costringe a dover vendere tutto: l’armadio, l’uniforme militare, il televisore, il pianoforte… ma no! Il pianoforte no! Quello non si può vendere, serve per sognare e in questo caso fa anche viaggiare.
Anche se poi, nell’economia generale del disco, non è neppure lo strumento predominante, ho avuto la sensazione che queste siano canzoni nate essenzialmente proprio al pianoforte… E’ così?
Si, è proprio cosi. Sono brani nati tutti al pianoforte ed è proprio il pianoforte il responsabile della struttura. Gli strumenti che uso con maggiore frequenza, li sento e li vedo un po’ come le stagioni che cambiano il colore del paesaggio e che fanno vestire le persone in maniera più o meno pesante. Il loro ruolo è molto importante, rivestono i brani e regalano un immaginario, una personalità, anche grazie alle infinite possibilità sonore che ti mettono a disposizione.
Vorrei che mi parlassi un po’ del lavoro con i musicisti che hanno suonato con te nel disco, tra i quali figurano molti nomi importanti… Quanto sei aperto alle idee da loro apportate? Porti delle parti già scritte o è un lavoro che viene fatto tutti assieme quello degli arrangiamenti?
Alla base della mia idea di Saluti da Saturno c’è la ricerca della libertà più assoluta, visto che in passato mi è capitato di dover mettere in discussione la mia più grande passione, che mi ha investito fin da bambino, che è quel gioco meraviglioso della musica. Proprio quando si passa dalla passione, istintiva e incosciente e la si trasforma in professione, si rischia di entrare in formule ripetitive e chiuse per garantirsi un applauso sicuro. Penso invece che il rischio e l’improvvisazione inserite in un idea ben definita siano degli elementi che donano una vita più lunga ad un’ esecuzione. Per quando riguarda i musicisti che suonano spesso nei miei dischi, c’è sempre un passato alle spalle di nottate passate insieme in piccoli Jazz Club o su palchi più grandi, ma dove è successo sempre qualcosa e che crea uno spazio dove navigare magari senza neppure il bisogno di dover spiegare o parlare più di tanto.
Mi puoi raccontare come è avvenuto il coinvolgimento nelle sessions di un grande quale Arto Lindsay?
Tutto il merito è di Massimo Simonini. Io gli dissi che sarebbe stato il mio sogno poter collaborare con Arto Lindsay, che reputo un genio su vari aspetti musicali. Alla mia richiesta Massimo mi risponde dicendo: “guarda, da quello che so, Arto non accetta di fare collaborazioni cosi, però ci proviamo”, e così gli abbiamo spedito due brani. Nel giro di una settimana ci sono ritornati indietro con le sue chitarre! EVVIVA! È la musica a volte… ma la cosa ancor più importante, per me, è stata quando pochi mesi dopo è venuto in concerto a Bologna e ha voluto incontrarmi. Abbiamo passato tre giorni insieme a suonare, parlare ed addirittura abbiamo festeggiato il suo sessantesimo compleanno al ristorante, con torta e candeline! Quei giorni mi hanno regalato consapevolezza e fiducia, ho compreso ancor di più l’importanza di calarsi fino in fondo dentro ogni idea, senza cercare le mezze misure… per accontentare chi?
Mi ha molto incuriosito la dedica del disco a Casadei ed Ornette Coleman, anche perché non è certo così evidente la loro influenza su queste canzoni. In cosa il loro spirito è secondo te presente in esse?
Ornette Coleman è la libertà di far diventare ogni strada da percorrere quella giusta, dove la regola a volte può essere solo un limite per chi sta sognando e magari in quel momento sta guardando molto più lontano della regola stessa. Per quanto riguarda Secondo Casadei, io ci vedo l’aspetto più alto della musica fatta da chi suona per la gente che ascolta o che balla. E i ricordi che mi vengono in mente di quando suonavo nelle orchestre da ballo, sono che si suonava fino a delle ore impensabili e fin che c’era gente che si divertiva non si smetteva, un brano poteva durare tre minuti come quindici. Uno dei miei primi capo orchestra (che la sapeva molto lunga) mi disse: “tutti hanno diritto di cantare, ma sottovoce”! Questo mi sembra un aspetto di grande libertà e di grande divertimento, che è quello che io vorrei rivivere con la mia Orchestra.
Mi piace davvero molto anche il modo in cui hai interpretato, dal punto di vista canoro, queste canzoni. Perché all’inizio eri restio a cantare le tue canzoni in prima persona?
Sinceramente penso di non essere un bravo cantante, ma penso di poter cantare le mie canzoni, soprattutto quando queste raccontano delle emozioni vissute sulla mia pelle. E’ una fiducia che sto raccogliendo ultimamente, anche per quanto riguarda i concerti, e la chiave di questa porta penso proprio me l’abbia data Arto Lindsay, per il discorso che si faceva prima della ricerca della assoluta sincerità con pregi e difetti.
Anche i testi mi piacciono molto. Mi piace il modo in cui procedono per immagini che sono quasi pennellate impressioniste; non si palesano in forma di racconto ma, inevitabilmente, comunicano in maniera forte. Quali sono le cose che maggiormente ti ispirano?
La semplicità è senza dubbio il mio punto fermo, anche perché non posso troppo allontanarmi per paura di perdermi. La vita delle persone nella realtà o nella finzione del cinema. Mi piace anche partire da un granello di sabbia, per trasformarlo poi in una piccola montagna completamente inventata. A volte capita che sia proprio un inizio di storia a raccontarti la storia stessa e a far nascere qualcosa di cui solo alla fine scopri il significato; penso che il caso non esista e che spesso i viaggi più belli siano quelli dove si decide solo la partenza.
Alcune canzoni sono ispirate da film, e questo si ricollega a quanto ti chiedevo nella domanda precedente. Immagino quindi tu sia un appassionato di cinema. Quanto la componente “visiva” è fondamentale nella tua musica?
Spesso penso che più che una passione sia un’ossessione, tanto è il mio accanimento nel guardare e riguardare un solo film, tanto da liberarmi della storia e concentrarmi di volta in volta su mille altri aspetti che ci girano attorno. Spesso quando parlo di Dancing Polonia, penso più a delle immagini che a dei suoni, un pò come una musica da vedere, dove si può sognare liberamente, e chissà mai se un giorno si potranno mai fare dei dischi muti con delle immagini che suonano.
Volevo farti una domanda su Vinicio Capossela, con cui in passato hai suonato, che ha cantato sul tuo primo album e che in qualche modo aleggia su alcune delle canzoni del disco. Quali sono i maggiori insegnamenti che hai tratto dal collaborare con lui?
Vinicio è da molti anni un amico, mio e della mia famiglia, è il mio primo grande maestro, mi ha insegnato tante cose e gli sarò sempre grato. Abbiamo passato molte notti insieme ad ascoltare musica e a parlare della bellezza del suono, una grande passione che ci ha sempre legato… L’ultima volta che ci siamo visti, ci siamo scambiati dei titoli di film da vedere….
Hai fatto parte di bands quali Mazapegul e Daunbailò, hai suonato con altri musicisti: pensi che Saluti da Saturno si ponga sulla scia di una storia musicale evolutiva, la tua, il cui approdo non poteva che essere questo, oppure credi di esserti mosso più per scarti e seguendo un percorso più rabdomantico?
La differenza è che Saluti da Saturno è il mio primo progetto pensato e creato tutto da me, mentre i progetti passati erano fatti insieme al mio amico Valerio Corzani, dove io mi occupavo della musica e lui dei testi. Con Saluti da Saturno, sono riuscito ad entrare dentro una mia visione più personale, sia musicale che di vita.
Quanto è difficile, al giorno d’oggi, portare avanti un progetto musicale di sostanza ed indipendente quale Saluti da Saturno? Sei soddisfatto dei riscontri avuto fino ad ora?
Ero più contento prima di tornare da un piccolo Tour Europeo, che ha toccato nel mese di ottobre Lipsia, Berlino e Cracovia. Li è avvenuto un pò l’impensabile per una piccola realtà come la nostra; ho avvertito un rispetto, una curiosità sana ed entusiasta. Nessuno ci conosceva e non capivano la nostra lingua ma… volevano conoscere, sapere, partecipare, farsi coinvolgere dalla nostra follia, in concerti dove l’improvvisazione e lo spettacolo la fanno da padroni. In Italia spesso si sente e si avverte l’idea che tutti sanno tutto di tutto, ma non è mica vero!
L’ultima domanda è una piccola curiosità: ho notato che tra la penultima e l’ultima canzone dei tuoi dischi, lasci una ventina di secondi di silenzio. C’è una ragione precisa?
Si, in effetti è una caratteristica di tutti e tre i dischi. E’ venuta per caso e mi è piaciuto ripeterla, un pò come un marchio di fabbrica, visto che io mi ritengo un artigiano della musica… Le cose come vedi non vengono mai per caso. Ti ringrazio tanto Lino, per l’amore che mi hanno trasmesso le tue domande.