DIECI ANNI DOPO: THE STROKES “Room On Fire”

Torniamo a scavare negli archivi: era il novembre del 2003 quando, abbastanza impietosamente, stroncavo uno dei dischi del momento, di una delle band più chiacchierate del tempo. Visto quello che hanno fatto dopo, probabilmente avevo ragione.
THE STROKES
Room On Fire

RCA

room-on-fire

E alla fine eccolo qui, questo nuovo album degli Strokes, anticipato da tonnellate di parole, fiumi d’inchiostro e quintalate di carta. Questi ragazzi newyorkesi sono senza dubbio l’hype del momento, i novelli messia del verbo rock’n’roll, i suoi salvatori, i cavalieri della sua nuova ed eterna giovinezza. Tutte cazzate! Si tratta di una solenne montatura mediatica e, in definitiva, l’impressione che la band da di sé è quella di un enorme, colossale bluff. La recensione potrebbe finire qui, ma andiamo, non siamo così cinici da stroncare l’album più atteso dell’anno senza argomentare le nostre ragioni. Di questo album ne leggerete di tutti i colori: dalla più impietosa stroncatura, a spropositati innalzamenti del gruppo verso l’Olimpo del Rock. C’è chi ci vedrà una patetica rilettura, poppizata tra l’altro, della New York dei Television e di Lou Reed, e chi invece rimarcherà la loro abilità nel costruire melodie killer e una propensione nel tessere trame strumentali semplici, ma proprio per questo così vicine allo spirito del miglior rock. Proviamo ad azzerare tutti i discorsi e ad analizzare la faccenda con calma. Partiamo dal loro album d’esordio, Is This It?. Un disco che non è affatto difficile considerare a suo modo importante e per certi versi addirittura necessario. Necessario nel senso che, probabilmente al di là dei suoi meriti, su cui ritorneremo, è stato il disco – e di tanto in tanto ci vuole – che ha rilanciato, parlo soprattutto a livello mediatico/commerciale, tutta una serie di sonorità che col tempo erano diventate fin troppo minoritarie. Se sia cosa importante o meno lo lascio decidere a voi, ma il fatto che gruppi come White Stripes o Kings Of Leon non siano appannaggio dei soliti quattro gatti, lo si deve forse un po’ al trend partito con gli Strokes. Strokes che, forse, sono stati un gruppo montatura fin da subito: zero gavetta e subito diventati priorità della major di turno. Il loro primo disco però, ha rappresentato realmente una bella boccata d’aria fresca, un buon esordio che proponeva un discreto campionario di archetipi rock, gratificati da una leggiadra naiveté che era il tratto caratteristico del loro suono, fatto di chitarre acide ma non troppo selvagge e oculatamente calato nei settanta newyorchesi in modo da risvegliare passioni mai sopite in un generale senso di deja vu musicale. Non certo un capolavoro ma abbastanza da far drizzare le orecchie. Questo però andava bene allora; ora sono passati due anni, le cronache ci hanno detto di una band dalla resa live immatura e raffazzonata e l’importanza che si è dato al loro ritorno ha travalicato l’impatto che nella realtà questi striminziti trentatré minuti di musica possono avere. Room On Fire ci mostra una band ferma esattamente a dove l’avevamo lasciata, ma ora le aspettative nei loro confronti sono decisamente cambiate e le canzoni del disco non riescono da sole a dimostrare il valore del gruppo ma, anzi, ne evidenziano tutte le mancanze. Non si è naturalmente perso il loro appeal melodico (ed infatti è facile prevedere che venderà un botto), ma ora suona solo furbo e poco coraggioso. What Ever Happened?, Reptilia o il singolo 12:51, puntano tutto sulla propria immediatezza ruffiana e il resto dell’album le segue di conseguenza. Il risultato è che al secondo ascolto ti sembra di averlo già sentito mille volte. Dal punto di vista del songwriting, sembrano essere incapaci di andare oltre uno standard ben definito: riffettino di chitarra, batteria essenziale in tempo medio e voce roca in primo piano. Non c’è un pezzo che vada fuori da questi binari, un canovaccio che viene rispettato con minime variazioni. Non una ballata, non un picco compositivo. Prendiamo ad esempio The End Has No End: ad un certo punto sembra che possa esserci un’evoluzione, che una certa rabbia si faccia avanti e che il pezzo possa aprirsi e prendere il volo, quando improvvisamente rientra nel solco del solito pop-rock venato di wave slavatina. Molte volte ci si trova di fronte a veri e propri remake del primo album (The Way It Is ad esempio) privi di qualsiasi fantasia. Ai miei occhi, ora che ho sentito il disco, persino il licenziamento di un produttore importante ed affermato come Nigel Godrich, in favore del più rassicurante Gordon Raphael, assume contorni inquietanti. Una gran delusione insomma. Fossero stati dei pinco palla qualsiasi, una maggiore indulgenza ci sarebbe anche stata, abbastanza forse da risicare una sufficienza, ma qui stiamo parlando della più celebrata rock band del momento e solo di una cosa potete star certi: il rock è vivo e vegeto, ma è di casa da ben altre parti.

Lino Brunetti

SACRI CUORI “Zoran” + FRANCESCO GIAMPAOLI “Danza Del Ventre”

SACRI CUORI

Zoran, Il Mio Nipote Scemo

Brutture Moderne/Audioglobe

FRANCESCO GIAMPAOLI

Danza Del Ventre

Brutture Moderne/Audioglobe

Sacri-Cuori-Zoran

Non contenti di essere stati in giro per mezzo mondo a promuovere il loro Rosario, di aver fornito i propri strumenti a musicisti quali Hugo Race e Dan Stuart (fra gli altri), i Sacri Cuori di Antonio Gramentieri hanno trovato il tempo di dedicarsi alla scrittura di una colonna sonora, quella di Zoran, Il Mio Nipote Scemo, primo lungometraggio di Matteo Oleotto, giovane regista di Gorizia, interpretato da Giuseppe Battiston. Del resto, che i Sacri Cuori sarebbero un giorno arrivati a musicare un film era scritto nel loro stesso dna; incredibilmente cinematica di per sé la loro musica, capace di narrare storie anche solo attraverso le suggestioni portate dai loro suoni, senza alcun bisogno di aggiungere parole. Ancora prima di vedere il film, l’ascolto del disco m’aveva fatto venire voglia di farlo, anche solo per verificare come le musiche qui contenute si sposavano con le immagini (l’ho visto giusto ieri e devo dire due cose: il film è incantevole e la colonna sonora lo serve alla grande!). Le musiche contenute in Zoran l’album, funzionano comunque di per sé, diciamolo subito. Certo, non è del tutto identificabile come un nuovo album vero e proprio, questo: le tracce sono numerose e brevi, di solito intorno al minuto o al massimo due, ma hanno dalla loro l’immenso potere suggestivo di una musica capace di prendere la musica americana – sia essa folk, blues, country o rock – e di trasporla in un sound in bilico tra i Calexico, il Ry Cooder delle soundtracks e la tradizione delle colonne sonore italiane. Disegnano insomma una geografia immaginaria, innestandovi inoltre un po’ di sgangherata ironia serpeggiante, immagino contraltare musicale della storia raccontata dal film. Qualche dialogo tratto dalla pellicola, un paio di pezzi cantati dal Gruppo Vocale Farra ed una suonata dai Musicanti di San Crispino, aggiungono ulteriore carne al fuoco ad un disco, magari minore, ma che continua a farci ritenere i Sacri Cuori uno dei più grandi tesori della musica italiana e non solo.

francesco-giampaoli-musica-streaming-danza-del-ventre

Quasi in contemporanea a Zoran, esce pure il terzo disco solista di Francesco Giampaoli, che dei Sacri Cuori è il contrabbassista. Come avviene per la band principale, anche Giampaoli, in Danza Del Ventre, è intento a costruire mondi e triangolazioni impossibili. Nuovamente strumentale e dall’incantatoria evocatività cinematica, la sua musica ondeggia tra suggestioni jazzate, blues notturni e misteriosi, tanghi vissuti nella mente, spy story intinte nell’ironia,canzone francese e molte altre bizzarie. Lega il tutto un gusto per la lateralità, che gli permette di non adagiarsi su nessuno di questi generi, riletti sempre secondo un insolito mood. Scritto interamente di suo pugno, Danza Del Ventre vede la collaborazione di numerosi ospiti, tra cui ovviamente anche i Sacri Cuori al completo in due pezzi, Rosa, che una fisarmonica ci fa immaginare ambientata tra i panni stesi al sole di una campagna francese, e la quasi caposselliana Firma. Minimale ed ellittico, non sempre così immediato come sembrerebbe, Danza Del Ventre è un disco curioso e particolare, sicuramente piacevolmente insolito.

Lino Brunetti

ISAAK: IL MEDITERRANEO COME IL DESERTO

Cambiare il nome da Gandhi’s Gunn a Isaak sembra una cosa piccola e tutto sommato insignificante, ripubblicare lo stesso disco con un’altra etichetta sembra una cosa inutile, ma le cose stanno messe su piani differenti e non sono mai così semplici. Innanzitutto l’entrata in formazione di una nuova base ritmica cambia le alchimie in maniera consistente e se poi l’etichetta che ti contatta per spingerti sul mercato mondiale si chiama Small Stone allora c’è qualcosa di cui parlare ed approfondire. Complice un live a Milano sono riuscito ad ottenere dal disponibilissimo Massimo Perasso (basso) una serie di risposte alle mie domande. Insieme ai compagni di avventura Giacomo H. Boeddu (voce), Francesco Raimondi (chitarra) e Andrea Tabbì De Bernardi (batteria) hanno dato vita ad live set intenso e senza fronzoli, andando a ripescare il meglio della loro discografia. Nel loro lavoro fresco di ristampa, le potentissime uncinate di Under Siege e Haywire si mescolano alle più articolate Flood e Hypotesis, creando un mix tellurico di stoner e psichedelia d’annata applicata ai tempi moderni. Le cover bonus di Fearless (Pink Floyd) e Wrathchild (Iron Maiden) stanno proprio li a dimostrare che ci sono degli estremi con tanto in mezzo. Il pubblico del LO-FI proprio non vuole sentire la parola fine e dopo qualche bis proprio con la violenta e trascinte cover dei Maiden gli Isaak concludono il loro live inaugurando (speriamo) un nuovo corso che sia foriero di successi per una band che ha dalla sua un potenziale esplosivo.

isaak.jpg_Thumbnail1

Partiamo da Genova, il Mediterraneo come il deserto, da dove arriva la vostra passione per questa musica?

La passione per questa musica parte dai tempi della Man’s Ruin e da quando i Kyuss erano ancora in attività! Ricordo il video di Green Machine su Video Music. Ricordo che andai dal negozio di dischi chiedendo questi chiuss e il commesso mi lanciò il cd con disprezzo aggiungendo “si dice caiuss”! Da quel momento iniziai a divorare tutto ciò che veniva definito stoner! Mi abbonai alla fanzine Vincebus Eruptum (ancora in attività, attualmente anche come etichetta) e ricordo che compravo tutti i dischi che riuscivo a trovare. Poi sulla rivista Rumore per un certo periodo c’era una sezione apposta e su RockFm Sorge e Cerati passavano un bel po’ di musica del genere nel loro programma. Nel mentre avevo una mia webzine in cui iniziai a parlare di questo genere e iniziai a contattare band italiane. Scoprii che c’era una zine decisamente più a fuoco della mia (più generalista) in merito al genere: era Perkele. Grazie a quel portale fecero le prime mosse i Gandhi’s Gunn (ancora con Kabuto al basso) e frequentando gli stessi posti iniziammo a conoscerci fuori dal web. Ai tempi eravamo più appassionati della scena storica (Kyuss, Fu Manchu, Nebula, Corrosion Of Conformity, Clutch, Orange Goblin) ma ben presto abbiamo iniziato a scambiarci dischi e input. Con gli anni siamo diventati consumatori di ogni disco del genere, complice anche i nuovi arrivi nel mio negozio di dischi (Massimo ha un negozio a Genova, Taxi Driver, ma ne parleremo più tardi, ndr).

Come si è formata la band? Siete amici da sempre o avete incrociato per caso le vostre passioni musicali?

Genova non è una metropoli, per cui se suoni è normale frequentare gli stessi posti e conoscere la stessa gente. Francesco suonava in una band Death Metal (Toolbox Terror, che hanno pubblicato da poco l’esordio), Giacomo meglio non dirlo, Andrea in una band di estrazione psichedelica e space rock (Fase Cronica) e io mi barcamenavo in vari progetti. A Genova lo stoner è conosciutissimo, complice una bella scena: 2 Novembre e White Ash  erano dei veri eroi locali. Negli anni si sono aggiunti Christopher Walken, Bells Of Ramon, Temple Of Deimos, e altre band più variegate come Vanessa Van Basten, Eremite, Lilium. Poi nel mio piccolo ho cercato di alimentare questa fiamma organizzando concerti al Checkmate Rock Club, ho aperto un negozio di dischi e ho un programma radio (su gazzarra.org) chiamato Fruit Of The Doom. Quindi come nascono i Gandhi’s Gunn? Ascoltando musica, bevendo birra e andando ai concerti.

Da Thirtyeahs, che rimane un ottimo debutto, a The Longer The Beard The Harder The Sound c’è un’evoluzione stilistica importante. Avete centrato in pieno l’attitudine, frutto di un maggiore affiatamento immagino. O c’è altro?

Thirtyeahs era una band per metà diversa. La sezione ritmica in primis ma anche il bagaglio culturale. Grazie a quel disco abbiamo avuto la possibilità di girare per l’Italia, di suonare assieme a band importanti (Acid King, Church Of Misery, Atomic Bitchwax) e imparare dal pubblico e dai colleghi. E’ stato facile capire cosa non funzionava e cosa si: bastava guardare le reazioni del pubblico. The Longer nasce proprio dall’esigenza di suonare quello che vorremmo sentire come pubblico. Noi siamo innanzitutto fan di quello che facciamo e difficilmente suoneremmo qualcosa che non ci piace, ma bisogna essere ulteriormente critici e selezionare quello che è veramente il meglio. Le nostre prove sono infinite! Non so se abbiamo centrato il bersaglio. So che in quel disco ci sono parecchie suggestioni che ci piacciono. E’ un disco stoner molto particolare: c’è l’influenza noise rock, c’è l’impronta hardcore, c’è la psichedelia ma sempre all’interno di una forma canzone. Molte band “barano”. La buttano solo sull’impatto. Sul suono. Ma spesso dimenticano che ci vuole anche qualcosa di più.  Pensiamo di avere scritto una manciata di buone canzoni, e speriamo di continuare a farlo.

I vostri testi di cosa parlano?

Cinema. E vita quotidiana. Ma per lo più cinema. Comunque nel cd li trovate tutti. Ed è uno dei motivi per cui è sempre meglio comprare il supporto fisico rispetto al download (il tutto condito da una stupenda grafica che richiama i miti cinematografici poliziotteschi degli anni 70, per spingersi fino ai sempreverdi Godzilla e compagnia brutta, ndr).

Quanto tempo dedicate agli Isaak?

Parecchio tempo. C’è chi cerca date, chi si occupa dell’aspetto social e web, tutti noi comunichiamo quotidianamente con band e pubblico. Tutti noi siamo sempre a cercare questa o quell’idea da poter sviluppare in sala. Ovviamente lavoriamo tutti, quindi non stiamo assieme 24 ore su 24. Per fortuna.

Le vostre composizioni più dure mi rimandano immediatamente a Clutch e Red Fang, le più psichedeliche a Hawkwind e Monster Magnet, tanto per fare qualche nome. Le vostre preferenze sulle band attuali?

Che bello sentirti nominare gli Hawkwind!! Hai riassunto bene la nostra attitudine sonora. Un po’ di nomi attuali? Big Business, Torche, Elder, Uncle Acid And Deadbeats, Graveyard, Pallbearer.

Esuliamo dallo stoner, cosa si ascolta d’altro in casa Isaak? Presumo che ciascuno di voi abbia il proprio background musicale e che ci siano quattro teste diverse che trovano un punto d’incontro nella sala prove. Oppure non è così?

Maso: grunge, hardcore, noise. Francesco: metal, Carcass ed Entombed. Giacomo: classic rock, funk e soul. Andrea: post rock, post metal. Ma tutti noi troviamo un accordo quando si ascoltano Melvins, Clutch e Big Business. In realtà siamo tutti onnivori ma ovviamente difendiamo le nostre posizioni quando si discute che i Carcass siano meglio dei Russian Circles e viceversa. In tour è meglio che ognuno si porti il proprio lettore musicale personale! In viaggio verso la Spagna solo Francesco aveva portato i CD da viaggio, puoi immaginare: Slayer, Iron Maiden, Megadeth, Metallica, Immortal, Mayhem, Carcass, Death, Entombed per 10 ore di fila. Siamo arrivati a Barcellona ricoperti di borchie e toppe. Ma meno male dato che lì gli eroi locali sono gli Obus! (Grande gruppo spagnolo attivo già negli anni ottanta e ancora in vita che canta in lingua madre, sul filone dei grandissimi Baron Rojo, ndr).

A vedervi live sembrate molto affiatati, ragazzi alla mano e per nulla spocchiosi (e vi garantisco che di gente che se la tira ce ne è in giro parecchia), sembrate divertirvi alla grande. Cos’è per voi suonare dal vivo?

Divertimento innanzitutto. Ma anche parecchia ansia prima di salire sul palco. Noi adoriamo il pubblico che partecipa saltando, pogando e cantando i pezzi (nella fortunata ipotesi che arrivi preparato). Vedere queste scene ci ripaga completamente. Ecco perchè The Longer suona più tirato di Thirtyeahs: vogliamo vedere il pubblico saltare!!

La scena italiana stoner mi sembra viva e pulsante. Molti gruppi dal sottosuolo hanno fatto dischi di una qualità impressionante. Perché non si riesce a uscire dal ghetto italiano? E’ solo una questione che se dici che suoni rock la gente in Italia immagina immediatamente Vasco Rossi? Oppure è un problema di infrastrutture e di soldi? Credete ad esempio che situazioni tipo Ufomammut su Neurot possano aprire un varco?

L’Italia all’estero viene vista non solo come pizza spaghetti e mandolino. Per i cultori della buona musica l’Italia esporta da sempre: uno degli gruppi principali del Roadburn di questo anno sono i Goblin! Dal prog all’hardcore l’Italia ha sempre avuto qualcosa da dire a livello internazionale. Ma il problema è tutta quella musica che non vuole avere risonanza internazionale ma che, anzi, sfrutta, l’ignoranza media per spacciare per oro cose che all’estero sarebbero ridicole. Come mai non ci sono band indie italiane al Primavera? Perchè la proposta vale giusto qualche click su rockit e finisce lì. Cannibal Movie, Squada Omega, e tutta la scena neo psichedelica di cui si sono occupate anche le riviste internazionali sono un grande vanto, non i Cani. Non dimentichiamo band più pesanti come The Secret o Grime che escono per etichette importanti. Magari fra qualche anno qualche collezionista americano pubblicherà una raccolta del miglior stoner italiano… ti consiglio un ottimo disco appena uscito: l’omonimo dei Manthra Dei uscito in CD per Acid Cosmonaut e vinile per Nasoni.

La scena italiana alternativa: alla fine è sempre la solita storia, solo i fighetti con un certo tipo di atteggiamento riescono a raggiungere il grande pubblico. Ma da assiduo frequentatore di concerti ci sono tanti gruppi di ottima qualità che suonano solo per passione. Ma il pubblico, anche se poco, li ama tanto. Basta questo? A volte siete in preda alla frustrazione di non poter fare qualcosa che vorreste invece tanto?

Il nostro sogno è di suonare al Roadburn Festival. Tutto il resto non ci fa rosicare più di tanto. Ovvio se in Italia ci fossero più canali specializzati potremmo far sentire la nostra musica a più persone ma attualmente, per fortuna, c’è molto interesse da parte del pubblico verso queste genere. E’ innegabile: l’approccio dei Red Fang ha fatto si che molte persone che non conoscevano il genere iniziassero a incuriosirsi. In negozio mi è capitato molte volte di consigliare dischi a chi mi diceva “adoro i Red Fang, cosa mi consigli?”. Più che una band è un cavallo di troia!

Capitolo crowdfunding: vi hanno rubato attrezzatura dal vostro studio e avete organizzato una raccolta fondi. Come è andata? Mi sembra ci sia stata una buona risposta.

Siamo molto critici verso il crowdfunding per come viene usato in Italia. Da artisti mediocri che vogliono che il pubblico gli paghi il video o band da pensione che sperano che i fan gli paghino il tour europeo di spalla ad altre band da pensione. Da super nerd seguo molto di più i fund raising per progetti da geek: colpiscono l’immaginario del pubblico e gli vengono concessi bonus di assoluto rispetto. Il nostro è stata una via di mezzo fra la classica operazione di raccolta fondi per terremotati e il dare ai fan dei bonus inediti. Dandoci un offerta era possibile avere magliette e poster disegnati per l’occasione da Giant’s Lab o avere un brano inedito su cassetta con grafica di Solo Macello. O avere dei nostri vinili ormai fuori catalogo ripescati dal magazzino di Taxi Driver. Ci serviva una spinta per non darci per vinti dopo un danno così (fra noi e i nostri compagni di sala Zero Reset abbiamo perso circa 20000 euro di strumentazione). Un danno economico ma non solo, perchè ha cambiato le nostre priorità da un giorno all’altro. Eravamo nel pieno del decisionale sulla registrazione del nuovo disco, nella vera e propria pre produzione. Dopo quel fatto è stato un miracolo poter discutere assieme di come metterci subito in moto. Aiutati da amici, fan e booking abbiamo organizzato un tour in Francia, Spagna e Italia che ci sta consentendo di ripristinare parte della cassa, anche grazie al buon successo del crowdfunding (abbiamo raggiunto 3500$). La registrazione del disco è stata rinviata al nuovo anno ma almeno in questi mesi non siamo rimasti con le mani in mano. E lo possiamo dire senza timore di smentita: abbiamo dei fan meravigliosi! Dopo che hanno scoperto il furto abbiamo ricevuto un calore e un supporto gigantesco!! Ora le nostre spalle sono decisamente più larghe e dopo questa battaglia sappiamo che difficilmente ci faremo abbattere da altre avversità! (Giustamente la campagna è stata intitolata “No One Defeats Isaak”, ndr).

 isaak-the-longer-the-beard-the-harder-the-sound

Una bestemmia: è possibile vivere di musica? Di soldi nel vostro progetto ce ne mettete e basta? Cosa dovrebbe succedere per farvi lasciare i vostri rispettivi lavori?

Io ho un negozio di dischi, pubblico dischi con l’etichetta, ho una webzine di news e recensioni http://www.taxi-driver.it ormai un po’ in disuso ma anni fa avevo un discreto seguito…, ho un programma sulla web radio di Arci Liguria chiamato Fruit Of The Doom, (se vi capita ascoltatelo perché la selezione di Massimo è davvero notevole, a cavallo tra novità e glorioso passato, ndr) organizzo o do una mano ad organizzare concerti in città. Per quanto mi riguarda l’importante non è fare soldi ma poter far si che i progetti continuino ad andare avanti. Non mi interessa vendere le compilation di X Factor, preferisco che nel mio negozio ci sia una delle 300 copie stampate dai Belzebong. Non organizzerei un concerto dei Cani solo per farmi due soldi dai ragazzini. Noi suoniamo questo tipo di musica e difficilmente potrà generare un interesse tale da far si che intorno agli Isaak possano girare dei soldi. A me non interessa. Preferirei sopravvivere come i Melvins facendo un 7” al mese che prendere in giro il mio lavoro e la mia passione. Se arrivasse una major ad offrirmi un sacco di soldi potrei ingrandire il negozio di dischi ma non ci infilerei dentro Emma Marrone. I Mudhoney comprarono casa con i soldi della Reprise (gran bel colpo, ndr). Gli Sleep un sacco di erba e gli diedero Jerusalem, che rifiutarono anche. Ti rendi conto? Hanno rifiutato uno dei più grandi dischi del rock!! (E su questo fantastico disco, nonché gruppo, ho già scritto parecchio e ribadisco l’enormità musicale di Jerusalem!, ndr). Se il nostro lavoro generasse altro lavoro e soldi potrebbe portarci a ragionare su argomenti per ora molto estranei alle nostre usuali conversazioni. Certamente per ottenere una fetta di pubblico in più non cambieremmo stile: la storia della musica ha insegnato che non serve vendersi ma occorre una solida reputazione che conquisti giorno per giorno.

Come è avvenuto il contatto con Scott Hamilton della Small Stone Record? Quali le sensazioni e le reazioni per aver firmato con una delle etichette stoner più interessanti?

Small Stone è un etichetta che abbiamo sempre amato. Fin dai tempi di Acid King, Fireball Ministry, Porn, Los Natas, Novadriver! La fanzine Vincebus Eruptum e Rumore hanno sempre parlato di queste band ed era inevitabile per il sottoscritto andarle a cercare nei negozi di dischi! Negli anni Small Stone ha continuato a pubblicare album anche in periodi di crisi del settore e del genere. Dopo l’abbuffata di fine anni 90 molte etichette hanno smesso di pubblicare. Pensa a Man’s Ruin! Scott ha invece alimentato la fiamma con ottime uscite di Dozer, Greenleaf, Luder, Gozu, Dixie Witch. Abbiamo saputo che era molto propenso ad ascoltare band dall’Europa e dopo aver pubblicato The Longer The Beard gliene abbiamo spedito una copia. Proprio due persone importanti per il genere in Italia hanno fatto da garanti per noi: Davide Pansolin di Vincebus Eruptum ma soprattutto Mario Ruggeri di Rumore. Proprio due entità che hanno mantenuto un rapporto costante fra band, etichette e fan del genere. Puoi immaginare cosa possa essere per uno come me, che da ragazzino sbavavo dietro a questa scena esserne parte al 100%.

Avete dovuto cambiare il vostro nome, non una cosa semplice per una band. Rimpianti? Il nome Isaak da dove arriva?

Rimpianti assolutamente no! Gandhi’s Gunn era un nome che non ci rappresentava più e per noi era associato alle prime mosse della band. La firma per Small Stone ci ha dato una scusa per farlo realmente: negli USA esiste già una band con un nome simile e abbiamo colto la palla al balzo. Dato che i Gandhi’s Gunn erano completamente autogestiti non è stato difficile avvertire il nostro pubblico che avevamo cambiato nome. Isaak è un nome. Ci piace pensarlo sia come l’Isacco biblico che come il nome di un protagonista di un film blaxploitation (propendo maggiormente per la seconda ipotesi, ndr). Ci piaceva avere il nome formato da una sola parola, come Clutch, Torche, Melvins, Ramones. Una semplice scelta di impatto. Abbiamo cambiato registro musicalmente, ecco perchè era necessario cambiare anche la carta d’identità. “Chi siete?” “Gandhi’s Gunn?” “Chiiii?” o “Chi siete?” “Isaak” “Mecojoni!”.

A questo punto c’è molta attesa per il vostro terzo album, avete già lavorato su qualcosa, avete un’idea dei tempi di realizzazione del disco?

E’ curioso: il prossimo sarà il nostro terzo album, il secondo come Isaak o il primo vero e proprio pensato come Isaak? Preferiamo quest’ultima possibilità dato che le band sparano le loro cartucce migliori agli esordi! Se ascolti il brano che abbiamo registrato per il crowdfunding sentirai come si sta evolvendo il sound (per inciso: il pezzo si intitola The Frown, ed è una vera e propria bomba con il finale più bello dell’anno, ndr). Prima del furto speravamo di entrare in studio entro gennaio, mentre ora pensiamo sia più probabile la primavera. La speranza è che esca entro il 2014. Nel mentre non saremo fermi!

Spero per voi che possiate imbastire tour anche in altri paesi del mondo, ci sono progetti/possibilità? Penso sia molto complicato e faticoso. Come riuscite a coniugare i vostri live con i problemi della vita normale (tempi/spazi/costi)?

Per ora abbiamo affrontato date nei paesi vicini: Francia e Spagna. Proprio per esigenze lavorative affrontiamo le date nei weekend. L’idea è di fare come fanno tutte le band: prendere ferie nello stesso periodo e girare per 15/20 di fila (quindi affrontare Germania, Inghilterra, paesi scandinavi o dell’est). Le date fatte nei weekend hanno dei costi enormi e non si possono permettere per molto tempo. Siamo genovesi, quindi abbiamo un rapporto protettivo nei confronti del denaro: per cui non rischiamo di andare in rovina! Piuttosto non mangiamo per 24 ore!

Hai un negozio di dischi, riesci a galleggiare ancora vendendo dischi? Quando hai cominciato? C’è ne è ancora di gente che considera l’acquisto di musica una parte delle proprie spese? Come ti poni nei confronti di download, Spotify e simili, dispute sui diritti? Io un disco dei Radiohead posso anche scaricarlo, ma al gruppo italiano che suona in un club il disco lo compro sempre se mi piace.

Ho il negozio da quasi 5 anni per cui non ho vissuto i tempi d’oro e la crisi. Ho aperto in un momento favorevole, ovvero il revival del vinile, oggetto che ricordiamolo è attivo da fine 1800. Non proprio da due giorni. Un revival che era necessario perchè nei banchetti dell’usato trovavi solo Bolton, Sting, Status Quo e Zucchero. Tutto questo ha fatto sì che la gente si ponesse la domanda: “Ma quindi i Daft Punk hanno pubblicato anche il vinile?”. Nello stoner/doom si è sempre pensato al vinile come formato principale. Un po’ perchè nell’ottica purista e/o revivalista del genere fa parte dell’immaginario esattamente come gli amplificatori valvolari. Un po’ perchè il genere racchiude l’essenza del rock, esattamente come il vinile. Il cd funziona per la macchina ma a casa non si può ascoltare: tanto vale cercare il full album su youtube. Gli appassionati si shareano intere cartelle di album su dropbox e poi vengono in negozio a comprare il vinile. Il non appassionato ascolta 5 gruppi su Spotify, magari pagando anche l’abbonamento. In realtà ascolta lo Zoo di 105 e pensa che la musica sia quella. Se va bene ascolta Radio2. Non c’è più Videomusic che trasmetteva cose incredibili in mezzo a boiate pazzesche. Ma grazie a quello ti creavi un gusto, imparavi a scegliere, a cercare, a puntare i videoregistratori di notte con tua madre che pensava registrassi Playboyshow e invece andavi a caccia di musica decente (sembra incredibile a dirsi ma io posseggo ancora delle videocassette con su ore di video registrati da Videomusic! Ndr). Se tu scarichi la discografia degli Electric Wizard probabilmente ti innamorerai dei loro dischi. Il giorno che lo intravedi (in negozio, sul web) non potrai lasciarlo lì. La passione (e quindi l’acquisto, il senso d’appartenenza e di possesso) nasce da quello e difficilmente morirà. Tutti questi “al lupo al lupo” nei confronti della musica cosa vorrebbero dire? Che non ascolteremo più niente? La vedo difficile…. Poi i Radiohead mi fanno ridere. Ma a chi importa se prendi pochi soldi da Spotify? Ogni tuo concerto costa non meno di 60 euro, il tuo merch ha gli stessi prezzi della boutique di alta moda, i tuoi dischi escono per una major. Ma piangi ancora miseria? E poi dicono dei genovesi…  ma soprattutto fai un bel disco che è già un miracolo che la gente ti stia ancora ad ascoltare… (e a questa risposta risposta, non me ne vogliate, va la palma come migliore dell’intervista, ndr).

Chiudo solo con una speranza personale: non mettetevi a cantare in italiano, ci sono generi che con il nostro idioma non hanno nulla in comune (anche se ci sono state importanti eccezioni)!

All’estero dicono che Giacomo ha l’accento tex-mex.. Perchè cambiare?

Giusto! E allora stiamo tutti attenti al 2014, sperando che gli Isaak sfornino la bomba di cui tutti abbiamo bisogno, le premesse ci sono tutte (The Frown, ve l’ho già detto, è un succulento antipasto) e quindi aspettiamo le loro prossime mosse.

Daniele Ghiro

GIUDA “Let’s Do It Again”

GIUDA

Let’s Do It Again

Damaged Goods-Fungo Records/Goodfellas

giuda_album

GIUDA son una band romana nata sulle ceneri dei punk Taxi, che tanto ha fatto parlare di sé col loro primo disco, Racey Roller, non solo finito sulle pagine di Mojo, vera rarità per un gruppo italiano, ma che ha pure collezionato pareri entusiastici da personaggi quali Kim Fowley, Robin Wills dei Barracudas e Phil King di Lush e Jesus & Mary Chain, tra gli altri. Ed evidentemente anche da parte del buon vecchio Billy Childish, visto che Let’s Do It Again esce nientemeno che su Damaged Goods, l’etichetta del vecchio leone inglese. Beh, non si può negare che se siete in cerca di un misto di  rock’n’roll, punk, glam e pub rock stradaiolo, il tutto infarcito di melodia, cori da stadio da cantare a squarciagola, riffoni ed assoli di chitarra, pianoforti saltellanti e tanto ritmo, i dieci brani di questo nuovo album dei Giuda, siano la fermata che fa per voi. Niente che non si sia sentito migliaia e migliaia di volte, con anche quel pizzico di tamarragine proletaria, sacrosanta ed obbligatoria, visto il contesto, ma, nel genere, fatto assai bene.

Lino Brunetti