Il Primavera Sound con il film “Line-Up”, appena proiettato nei cinema spagnoli e in diretta online, ha reso noto il cartellone completo della sua quattordicesima edizione, che si svolgerà a Barcellona da lunedì 26 maggio a domenica 1 giugno, dopo che era già stata precedentemente annunciata la presenza dei canadesi Arcade Fire, del ritorno dal vivo dei Neutral Milk Hotel e della band di Frank Black, i Pixies. A questi si aggiunge ora un esteso elenco di artisti che si divideranno i vari palchi del Parc del Fòrum dal 29 al 31 maggio. Tra tutte queste nuove conferme risaltano come headliner i Nine Inch Nails di Trent Reznor, gli americani The National, la mitica formazione desert rock dei Queens of the Stone Age, il nuovo progetto di Justin Vernon (con Bon Iver) i Volcano Choir, il rapper californiano Kendrick Lamar e il leggendario e influente cantautore brasiliano Caetano Veloso.
I primi live festivalieri per l’appena riunita band britannica dei Slowdive, l’house dei britannici Disclosure, i Television, da New York, che rieseguono “Marquee Moon”, il loro più grande album, il math-pop dei potenti Foals, la presentazione del nuovo album degli scozzesi Mogwai, l’electropop degli artisti di grande successo Metronomy e Darkside, il nuovo progetto di Nicolas Jaar: sono tutti progetti che si aggiungono al cartellone dell’evento barcellonese.
Un gran numero dei partecipanti di questa edizione suoneranno in Spagna per la prima volta. È così per la perla nascosta del folk al femminile Linda Perhacs, The Julie Ruin (la nuova band di Kathleen Hanna, già componente delle Bikini Kill), l’esplosiva cult band Chrome, la rumorosa band britannica dei Loop and Body/Head, e il nuovo progetto di Kim Gordon dei Sonic Youth.
Anche altri nomi del momento arriveranno al Primavera Sound per presentare i loro più recenti lavori: dall’Australia Cut Copy e il loro dance pop, i divertenti e stravaganti Black Lips, il genio britannico Blood Orange, rivitalizzatore della più attuale black music, i veterani del rock anni novanta Superchunk, i Drive-By Truckers col loro classical rock e il dance floor funk del duo Chromeo.
Una moltitudine di stili musicali animerà i palchi dell’evento barcellonese: si va dall’afrobeat di Seun Kuti & Egypt 80 e i newyorkesi Antibalas, al cosmic jazz della Sun Ra Arkestra, al post rock dei canadesi Godspeed You! Black Emperor, al metal delle band Kvelertak e Deafheaven, al noise dei Wolf Eyes, allo splendido electro pop di Helen Love, la musica neo classica di A Winged Victory For The Sullen fino ad approdare al soul di Charles Bradley.
La selezione delle band spagnole è capitanata dalla band Standstill che metterà in scena lo spettacolo Cénit, a seguire ci saranno la band di Granada Grupo de Expertos Solynieve e la presentazione del nuovo album della band barcellonese Mishima, la consacrazione di El Petit De Cal Eril come una delle band più stabili della Spagna, l’alleanza musicale tra Sílvia Pérez Cruz and Raül Fernández Miró, i live di León Benavente e El Último Vecino, le band rivelazioni del 2013, la cantautrice catalana Joana Serrat con il suo nuovo album, il duo electro-analogico Svper e, infine, gli Oso Leone di Maiorca.
Per quanto riguarda il programma di musica elettronica, a fare da apripista sarà il Dj francese di fama mondiale Laurent Garnier, dopodiché si esibiranno molti altri artisti: i tedeschi Moderat (Nati dall’unione tra Modeselektor e Apparat), i ritmi possenti dei SBTRKT, la rivelazione electro-dance Daniel Avery, Jamie XX dal Regno Unito (membro della band The XX), da Madrid arrivano i Pional, Da Barcellona i Lasers con il loro live set impeccabile, la house di Julio Bashmore, i suoni sperimentali di Demdike Stare e The Haxan Cloak.
Primavera a la Ciutat inonderà di musica ogni angolo di Barcellona con svariate proposte in parallelo alla programmazione principale dell’evento principale.
Tra queste risalta la giornata a ingresso gratuito di mercoledì 28 maggio al Parc del Forum, dove suoneranno Sky Ferreira, la rivelazione belga Stromae, gli argentini Él Mató a un Policia Motorizado, il duo electro pop Holy Ghost!, il gruppo emergente inglese Temples e la formazione di Madrid Fira Fem. Per tutta la durata della settimana del festival, locali come Apolo, BARTS e il Teatre Principal accoglieranno tutti i tipi di concerti, tra i quali si distinguono Darren Hayman and the Trial Separation, Full Blast, Shellac, Angel Olsen, Juana Molina, Paus, The Brian Jonestown Massacre, Har Mar Superstar e gli showcase delle etichette catalane Bcore e La Castanya. Merita una nota a parte la programmazione a ingresso gratuito di Els Vermuts del Primavera nel Parc de la Ciutadella, con concerti come quelli di Speedy Ortiz, Dum Dum Girls, Boogarins, The Mark Eitzel Ordeal, e La Sera, nei giorni 31 maggio e 1 giugno.
Heineken® sarà per il secondo anno consecutivo lo sponsor principale del Primavera Sound, in seguito alla più che positiva esperienza della scorsa edizione. Il festival e la nota marca di birra uniscono di nuovo le forze per assicurarsi che anche questa edizione, risulti ancora una volta memorabile. Da parte loro, Ray-Ban e adidas Originals, con i loro duraturi trascorsi come sponsor ufficiali del festival, continueranno anche quest’anno a scommettere sul Primavera Sound. Si aggiungono come nuovi sponsor Martini e Lay’s, mentre Movistar rinnova la sua presenza come partner tecnologico.
Marco Notari, cantautore del quale qui abbiamo elogiato l’ultimo album, pubblica a sorpresa su youtube una versione chitarra e voce di un brano del suo nuovo disco, attualmente in lavorazione ed in uscita a fine 2014. La canzone si intitola “Le fotografie”, ed è stata registrata in presa diretta nella cascina di Dogliani in cui il cantautore registrerà il suo prossimo lavoro. Nei prossimi mesi Marco Notari sarà inoltre protagonista di un tour in solo, in cui presenterà in anteprima anche alcuni dei nuovi brani.
Queste le prime date confermate del Solo Tour:
24 gennaio BOOKIQUE (Trento)
27 gennaio GATTO’ (Milano)
14 febbraio RATATOJ per M’ILLUMINO DI MENO (Saluzzo – CN)
15 febbraio DIAVOLO ROSSO per TRIBUTO A LOU REED (Asti)
Martedì 28 Gennaio il Primavera Sound 2014 svelerà il suo cartellone con la presentazione del film “Line-Up”, che debutterà nelle nelle sale delle principali città spagnole, comprese Madrid e Barcellona. Diretta da Alex Julià, la mente dietro il documentario “Nitsa 94/96: El giro elettronico“, e prodotto dalla Igloo Films, la pellicola sarà visibile simultaneamente sia al cinema che online cliccando sul link http://www.line-upthemovie.com. “Line-Up” è stato girato a Detroit, ex-capitale dell’industria automobilistica USA attualmente nel vivo di una crisi senza precedenti, dove il protagonista del film, un commesso di un negozio di dischi, vive un’esperienza unica grazie a un disco misterioso.
La proiezione inizierà alle 20:30 precise.
A Barcellona, dopo il film gli spettatori saranno invitati a una festa nel Teatre Principal, situato sulla Rambla centrale della città, dove a partire dalle 21:45 ci sarà un concerto a sorpresa di una delle band internazionali che parteciperanno alla prossima edizione del Primavera Sound e un dj set di Dj Coco.
INFORMAZIONI SU “LINE-UP”:
SINOSSI:
Un uomo lavora in un negozio di dischi di Detroit e vive un’esperienza unica grazie a un disco misterioso. Da lì in avanti la sua vita compierà una svolta a 180 gradi, influenzando tutto ciò che lo circonda. Ma è davvero pronto per vivere questa esperienza?
CREDITS:
Regista: Alex Julià
Idea originale e sceneggiatura: Snoop
Produzione: Igloo Films
Produzione esecutiva: Meghan Shaw / Mireia Martínez / Marta Argullós
Fotografia: Marc Miró
Editor: Andrés Gil
Assistente alla regia: Luis Casacuberta
Produttore: Shannon Cragin
Postproduzione immagini e suoni: JD Alonso / Enefecto 3,0 / Xevi Estudi
CAST:
Barton Sumner Bund: Paul
Joanna Maria Bronson: Bruna
Jennifer Amanda Proescher: Ragazza bionda
Brian Joseph Papandrea: Amico di Paul
Grover Mcants: Uomo col Cappello
Marty Bufalini: Padre di Paul
Connie Cowper: Madre di Paul
Anton Bassy: Uomo col cane
SPECIFICHE TECNICHE:
Titolo: Line-Up
Genere: Fantascienza
Colore
Suono: Stereo digitale
Anno di produzione: 2014
Nazionalità: Spagna
Data d’uscita: 28 gennaio 2014
Lingua: Inglese
Versione: Inglese con sottotitoli in Spagnolo
Ray Scona è un chitarrista e cantante originario di Chiavari, in provincia di Genova. Ormai da un decennio abbondante, il tramite col quale fa conoscere la sua musica è il quartetto denominato Guitar Ray And The Gamblers, che al suo fianco vede allineati il bassista Gab D, il tastierista Henry Carpaneto ed il batterista Marco Fuliano. Formazione innamorata e dedita alle varie forme del blues, in passato ha avuto modo di collaborare con alcuni mostri sacri quali Fabio Treves, Big Pete Pearson (col quale hanno pure realizzato un album), Otis Grand e Jerry Portnoy, armonicista quest’ultimo alla corte di Muddy Waters, così come di Eric Clapton. Un curriculum di tutto rispetto insomma, che oggi si aggiunge di un nuovo capitolo – il quinto, contando l’album con Pearson – intitolato Photograph.E proprio una fotografia del loro suono possiamo considerarlo questo CD. Pur essendo un disco di blues, Ray e compagni sono bravi nel non farsi ingabbiare al 100% nelle maglie del puro e solo disco di genere. Immettono quel pizzico di varietà che permette all’ascoltatore non fanatico di solo blues di non annoiarsi, e inseriscono, a livello d’arrangiamento, qualche sfumatura che tiene desta l’attenzione. Ray ha una bella voce calda – anche se abbisognerebbe di un po’ più di personalità – ed è un buon chitarrista; è inoltre coadiuvato da una band che sa il fatto suo, nonché da uno stuolo d’ospiti – Fabio Treves, lo Gnu Quartet, il cantautore canadese (qui anche produttore) Paul Reddick, i fiati di Paul Maffi e JB Lobello, alcune coriste – che aggiungono ulteriore carne al fuoco. I pezzi ondeggiano tra slow blues e affondi più rock, tra R&B a volte un po’ funky e qualche ballata. Tra le mie preferite: una Mary Lou che prende il Lou Reed di New York per sbatterlo in qualche bettola di New Orleans; la splendida You Are The One, che non è difficile immaginare cantata da Mark Lanegan, e dove lo Gnu Quartet fa un lavoro davvero magistrale; la bella ballata He Thinks Of You, bisognosa giusto di un cantato un po’ più prepotente; la chiusa acustica di Bella Bambina, l’unico pezzo in italiano, cantata però da Reddick. Il disco esce il 18 gennaio – date un’occhiata al loro sito – ma fin da oggi, potete ascoltarlo in streaming cliccando sul link qua sotto. Buon ascolto!
The Soft Moon è il progetto di Luis Vasquez da San Francisco. Soft Moon è la prima opera di questo sperimentatore americano; disco perfettamente riuscito (è uscito nel 2010 e gli sono già seguiti un EP, una collaborazione con John Foxx ed un secondo album), che recupera in maniera intelligente i suoni di molteplici generi degli anni ’80 come la new wave ma soprattutto post punk e dark wave, senza snaturarne la vena sperimentale. Il disco si apre con quello che potremmo definire il capolavoro dell’album, Breathe The Fire, nel quale l’imperterrito battito della drum machine, fa da base sia alle atmosfere da film noir create dal synth, che alla voce sussurrata e psicotica di Vasquez, quasi un omaggio ai Joy Division di Trasmission e Atmosphere. In Circles, le sensazioni create sono di angoscia e depravazione, con il regolare battito delle percussioni a far da contraltare all’incessante alone industrial e ai deliri nonsense di Vasquez, e dove l’intermezzo noise-rumoristico porta alla mente sia il noise rock americano che quello giapponese. Il disco continua senza sosta la sua corsa apocalittica con Out Of Time, una sorta di Ghost Rider del duemila e con la ballata When It’s Over, con la chitarra minimalista che renderebbe veritieri i paragoni con certo post-rock – Slint su tutti – non fosse per l’inondazione di synth che avvolge il brano. Il basso e il synth sono padroni indiscussi anche dell’ incalzante Dead Love, hit che non avrebbe certamente sfigurato in qualche discoteca alternativa eighties. I Joy Division sono senza dubbio i padri spirituali di questo disco e, a dimostrarlo, sempre se ce ne fosse ancora bisogno, è Parallels, altro vertice del disco, aperto da una rimbombante linea di basso, che porta alla mente il capolavoro strumentale di Ian Curtis and co., Incubation, tutto ciò fino a quando uno sciame di synth prende il sopravvento destrutturandolo completamente. Accenni di noise rock si trovano anche nell’orgia chitarristica di We Are We, mentre l’incalzante boogie di Sewer Sickness, con la chitarra a mo’ di sirena, fa presagire l’imminente fine del mondo (sarebbe sicuramente un brano di punta nelle feste di qualche serial killer!). Into The Depths è un’altra macabra danza vicina tanto ai Ministry di Twich, quanto a certe sonorità kraute. Angosciosa e cupa è invece Primal Eyes, dove un’inquietante voce di sottofondo crea un’atmosfera desolata e gelida, seguita da una sferzata noise. Il disco si chiude con Tiny Spiders, più vicino al dream pop che al post-punk, un attimo di tranquillità rispetto ai sentieri orrorifici intrapresi da Vasquez fino ad ora. Disco lineare e geometrico, che non disprezza citazioni importanti, i citati Joy Division ma anche Sister Of Mercy, Cure e certo kraut-rock, senza dimenticare qualche riferimento ai primi Ministry. Con questo disco Vasquez non cerca nulla di rivoluzionario, si limita a rivisitare il periodo d’oro della new wave, ma con un’intelligenza e una sincerità riscontrabili in pochi altri artisti. Assolutamente da seguire!
E così eccoci qui anche quest’anno, proprio appena s’affaccia il 2014, impegnati nel solito giochetto dei migliori dischi usciti nei dodici mesi appena passati. Una rassegna – così come sottolineato nella propria dall’amico Zambo – che non può che essere che la risultante dei gusti e degli ascolti solo di chi scrive. Non rappresentativa quindi del Buscadero – quella la troverete sul numero di gennaio della rivista – e alla fine neppure di questo blog – auspico però, che almeno il buon Daniele Ghiro voglia dire la sua su questa pagina. Che anno è stato, musicalmente parlando, dunque, il 2013? Per quel che mi riguarda, molto buono direi. Non sono mancati i dischi belli e, anzi, il problema è stato il solito di questi tempi impazziti, ovvero il districarsi tra le mille uscite che invadono un mercato, magari asfittico dal punto di vista delle vendite, ma sicuramente vivace per numero e qualità delle uscite. E se è vero che manca il disco rappresentativo e che i capolavori veri latitano – ma è così facile poi riconoscere all’istante un disco che rimarrà nel tempo? – e che la musica del presente mai era sembrata così pesantemente rivolta ai vari passati della popular music, è anche vero che un appassionato curioso di muoversi fra i generi, di dischi in cui perdersi, nel 2013, ne ha potuti trovare molti.
I RITORNANTI
Parallelamente all’immenso mercato di ristampe e box retrospettivi – vera e propria gallina dalle uova d’oro per l’industria musicale nell’ultimo decennio, ne parleremo brevemente più avanti – il 2013 ha visto il ritorno discografico di un nutritissimo numero d’artisti e bands che, chi più chi meno, mancavano dalle scene da tempo innumerevole. Uno dei dischi più favoleggiati degli ultimi vent’anni, il terzo album dei My Bloody Valentine, ha finalmente visto la luce: MBV non ha deluso le apettative, proponendosi sia quale sunto della ventennale attività misteriosa della band di Kevin Shields, che come punto di ripartenza, nuovamente ardito ed originalissimo (gli ultimi tre, quattro pezzi). Altro gruppo di culto, i Mazzy Star, con Seasons Of Your Day, hanno ripreso il discorso interrotto diciassette anni fa, facendoci riprecipitare fra le loro ballate oppiacee, fatte di country, folk e psichedelia velvettiana. Gran disco! Che dire poi di The Argument dell’ex Hüsker Dü Grant Hart,se non che è un’opera coi controfiocchi? Hart, rispetto all’ex compagno Bob Mould, è sempre stato visto come il “Brutto Anatroccolo”, quello sfortunato, il junkie: il suo nuovo album è invece un disco ambizioso e creativo, colmo di bellissime canzoni, servite tramite un mix di raffinata ruvidezza, che come non mai ci mostra Hart autore vario e sopraffino. Mai stato un grande fan di David Bowie, eppure devo dire che il suo The Next Day l’ho apprezzato non poco. Probabilmente non lo metterei tra i miei dischi dell’anno, ma almeno tre/quattro delle sue canzoni svettano in una scaletta che comunque non ha cadute di tono. Uno su cui invece non ho mai avuto dubbi è Roy Harper: il suo nuovo album, parzialmente prodotto da Jonathan Wilson, è un gioiello, magari non per tutti, però dal fascino senza tempo e disco di quelli che non si trovano tutti i giorni. Devo ammetterlo, non ci avrei scommesso un euro circa la bontà del rientro discografico dei riformati Black Sabbath: invece 13 è davvero niente male! I riff, le atmosfere, in parte anche la voce di Ozzy, sono quelli dei primi lavori; nessuna vera novità, però una scrittura ben più che dignitosa, al servizio di un sound che ha fatto epoca ed è ormai leggendario. Come diceva qualcuno, nessuno fa i Black Sabbath meglio dei Black Sabbath stessi! Potremmo aggiungere, nessuno fa gli Stooges come gli Stooges: il loro Ready To Die non è un capolavoro, però è l’ennesimo sputacchio punk che ha permesso ad Iggy e compagni di tornare a sculettare selvaggiamente sui palchi di mezzo mondo e questo ci basta. Mi aspettavo grandi cose invece dai rinnovati Crime & The City Solution e così è stato: American Twilight è un ottimo album di rock vetriolitico e di blues allucinato, in cui il contributo prezioso di Mr. Woven Hand si sente e accresce il feeling gotico emanato da questi solchi. La palma di ritorno più inaspettato e bizzarro è però quello di Dot Wiggin, un tempo nelle famigerate Shaggs, la “peggior band della Storia del Rock”. Garage rock intinto di irresistibile freschezza naif, che ha fatto felice i cultori di questa favolosa leggenda underground. Che altro rimane da citare in questa sezione? Il fascinoso libro/CD delle Throwing Muses, Purgatory/Paradise e, alla voce mezze delusioni, lo sciapo, nuovo EP dei Pixies ed il dignitoso, ma lontano dai vecchi fasti, Defend Yourself dei Sebadoh.
SINGER SONGWRITERS
Poche esitazioni, il 2013, sul versante cantautorale, ha dato non poche soddisfazioni. Eletto da più parti (a ragione) disco dell’anno, Push The Sky Away è uno dei migliori Nick Cave degli ultimi tempi. Un disco di ballate straordinarie, intense, toccanti; soprattutto un disco che ci mostra un Cave ancora in movimento, ancora desideroso di cercare strade nuove, fortunatamente lontano dal manierismo che iniziava a far capolino in alcuni dei suoi più recenti lavori. Altro nome capace di mettere d’accordo pubblici anche diversi fra loro, il già citato precedentemente Jonathan Wilson. Vecchio? Prolisso? Può darsi, però anche incredibilmente creativo ed evocativo, il suo Fanfare è un vero tuffo in un verbo rock d’altri tempi, ancora affascinante oggi, grazie soprattutto a grandi canzoni, un suono strabiliante e arrangiamenti sofisticati, serviti inoltre da una band che sa decisamente il fatto suo. Mathew Houck aka Phosphorescent se n’è uscito con quello che è forse il suo miglior lavoro, Muchacho, ottima sintesi di tradizione e modernità, quindi con un occhio al classico ed uno al pubblico independente. Altro grandissimo lavoro è Dream River di Bill Callahan: l’uomo un tempo conosciuto come Smog, è tornato con un disco asciutto ma caldo, fatto di vivide ballate segnate dalla sua inconfondibile personalità e da un’autorevolezza qui al meglio della sua forma. Niente male anche il nuovo Kurt Vile, Wakin On A Pretty Daze, disco fluviale sempre in bilico tra scrittura classica e retaggio indie. Forse giusto solo un po’ monocorde, ma da sentire. Ancora più interessanti mi son sembrati due dischi usciti (forse) sul finire del 2012, ma di cui tutti hanno finito col parlarne nel 2013: Big Inner di Matthew E. White ci ha rivelato tutto il talento di un cantautore con molto da dire e decisamente originale, protagonista tra l’altro di un paio dei più bei momenti live vissuti quest’anno dal sottoscritto; le ballate tormentate di John Murry e del suo The Graceless Age sono uno dei passaggi obbligati di quest’annata, straordinarie per intensità, scrittura e sincerità, la classica situazione in cui la vita vera pare prendere forma sul pentagramma. Ben due i dischi di Mark Lanegan usciti nel 2013, ma mentre il Black Pudding fatto in coppia con Duke Garwood è un disco crudo, disossato e denso di nudo pathos, meno convincente è parso Imitations, secondo disco di covers della sua carriera, purtroppo del tutto privo della potenza di I’ll Take Care Of You e, in più d’un passaggio, piuttosto di maniera e un po’ bolso, quasi come quel jazz da salotto che viene ancora scambiato per musica. Nella migliore delle ipotesi, abbastanza inutile. Il nome è quello di una band, Willard Grant Conspiracy, ma si sa che è quasi interamente sempre stata faccenda del solo Robert Fisher: l’ultimo Ghost Republic è un disco scarno e forse per pochi, però è anche uno di quelli che, se opportunamente sintonizzati su malinconiche frequenze, capace di elargire magia pura. Tutti lo conoscevano quale uno dei più visionari ed originali registi degli ultimi trent’anni: da un po’ di tempo a questa parte, pare però sia diventata l’attività di musicista quella principale per David Lynch. The Big Dream è il suo secondo lavoro, un disco di blues mesmerico e sognante, ovviamente profondamente lynchiano nelle sue conturbanti movenze. Per quello che riguarda le voci femminili, è stata probabilmente Lisa Germano quella che ha allestito il disco più particolare dell’annata, No Elephants, album in cui il suo cantautorato intimo si palesa attraversa un suono minimale e un pizzico di intrigante lateralità. Altro nome che ha avuto un certo eco nel 2013 è stato quello di Julia Holter: il suo Loud City Song se ne sta in bilico tra carnalità e sonorità eteree, tra scampoli di reminiscenze 4AD, pop, qualche inserto cameristico ed un pizzico d’elettronica. Un nome che, per certi versi, potrebbe esserle affiancato è quello di Zola Jesus, il cui passato sperimentale ed underground si riverbera oggi nelle reinterpretazioni ben più pop e “classiche” di Versions. Ma sono altri i dischi da ricordare veramente: il definitivo ritorno a standard altissimi di Josephine Foster con I’m A Dreamer, la brillantezza di Personal Record di Eleanor Friedberger, l’intensa maturità della Laura Marling di Once I Was An Eagle, lo sfavillio di Pushin’ Against The Stonedi Valerie June, le ruvidezze di Shannon Wright in In Film Sound, nonché quelle di Scout Niblett in It’s Up To Emma o, per contro, la dolcezza folk-pop delle esordienti Lily And Madeleine.
(PS devo sentire ancora in modo appropriato il nuovo Billy Bragg, di cui ho letto un gran bene; mentre da ciò che ho orecchiato, John Grant non fa proprio per me).
BANDS
E’ sempre difficile essere categorici, ma la mia Palma di disco dell’anno se la beccano i Primal Scream di More Light, creativi e potenti come non gli capitava da tempo, calati nei nostri tempi tramite testi ultra politicizzati e musicalmente vari ed esaltanti. Un capolavoro! Politicizzati lo sono sempre stati anche gli svedesi The Knife, di ritorno quest’anno con un mastodontico triplo LP di elettronica livida, oscura ed ostica, che solo labili tracce del loro passato pop continua a mantenere. Disco coraggiosissimo, così come a suo modo coraggioso era il loro spettacolo “live”, di cui potete leggere le mie tutt’altro che entusiastiche impressioni qui sul blog. Livido, oscuro ed ostico sono ottimi aggettivi per un altro album amatissimo dell’anno appena trascorso, il visionario The Terror dei Flaming Lips, recentemente ancora nei negozi anche con l’EP Peace Sword, ennesima dimostrazione dell’inarrestabile stato di grazia della formazione americana. Stato di grazia che continuano ad avere anche i Low con The Invisible Way: è il loro disco più sereno, più arioso, in larga parte costruito sul pianoforte, un disco che non smette di perpetrare l’incanto tipico di buona parte della loro produzione. Non sono gli unici veterani ad aver fatto vedere belle cose: non male, anche se a mio parere inferiore alle loro ultime uscite, Change Becomes Us dei Wire, Re-Mit dei Fall, Fade degli Yo La Tengo, Vanishing Point dei Mudhoney e, soprattutto, Tres Cabrones firmato da dei Melvins in grandissima forma. Uno dei dischi più discussi è stato l’ultimo Arcade Fire, Reflektor: chi lo ha valutato quale capolavoro, ha dovuto scontrarsi con quanti l’hanno visto quale ciofeca inenarrabile. Io mi metto nel mezzo, nel senso che lo considero un album discreto, con qualche buona canzone, un paio ottime e un bel po’ di roba di grana un po’ grossa. Ammetto anche, però, di non avergli ancora dedicato la giusta attenzione, prendete quindi queste considerazioni per quello che sono, impressioni più che altro. Grande credito presso la critica hanno avuto pure AM degli Arctic Monkeys e Trouble Will Find Me dei National, due band che apprezzo ma per cui non stravedo. Non sono invece rimasto deluso dall’evoluzione e dai cambiamenti in casa Midlake: è vero, in Antiphon il prog è pericolosamente protagonista, ma l’insieme mi piace parecchio e, anzi, penso sia questo il miglior lavoro della band americana. Bello ed ambizioso anche l’ultimo Okkervil River, The Silver Gymnasium, così come da sentire è anche il disco di cover dei loro cugini Shearwater, Fellow Travellers. Come sempre di grande livello il ritorno dei Califone con Stitches, mentre il poco invidiabile primato di schifezza dell’anno se lo beccano senza esitazione i Pearl Jam: il loro Lightning Bolt non si può proprio sentire! Come sempre, grandi soddisfazioni arrivano dalle bands dedite alla psichedelia: dagli immensi Arbouretum di Coming Out Of The Fog ai Black Angels di Indigo Meadows, dalle molte incarnazioni di Ty Segall (Fuzz in testa) ai soliti ma sempre esaltanti Wooden Shijps, passando poi per Grim Tower, Dead Meadow e White Hills fra le tante cose sentite. Tra i gruppi più o meno nuovi, da non dimenticare New Moon dei The Men, i debutti delle Savages, dei Rose Windows e degli Strypes, l’ottimo General Dome di Buke And Gase, Threace dei CAVE e il folle Make Memories dei Foot Village. Tra le cose, diciamo così, più sperimentali o comunque meno rock, l’immenso Colin Stetson di New History Warfare Vol.3 – To See More Light, le doppietta Fire!/Fire! Orchestra, (without noticing)/Exit!, All My Relations di Black Pus, i Boards Of Canada di Tomorrow’s Harvest, i Wolf Eyes di No Answer: Lower Floor, i Matmos di The Marriage Of True Minds e i Fuck Buttons di Slow Focus.
ITALIANI
Nessun italiano in questa classifica? Eccoli qui! Per il sottoscritto il titolo italiano dell’anno è Aspettando I Barbari dei Massimo Volume, intenso, scuro e potente. Bellissimo come sempre il nuovo Cesare Basile (con un disco omonimo), così come anche Quintale dei Bachi Da Pietra, sorta di svolta “rock” per il duo. Ambiziosissimo, monumentale, straordinario, il nuovo Baustelle, Fantasma. Tra le altre cose da recuperare assolutamente, lo splendido esordio dei Blue Willa, il recente album di Saluti Da Saturno, Post Krieg di Simona Gretchen, Withoutdei There Will Be Blood, il nuovo Sparkle In Greye Hazy Lights di Be My Delay.
RISTAMPE
Se possibile, escono ancora più ristampe e cofanetti retrospettivi che dischi nuovi. Questa sezione potrebbe pertanto essere la più lunga di tutte. Voglio però limitarmi a citarne solo due, perché sono state quelle per me più importanti e significative dell’annata. Non potrebbero essere più diverse l’una dall’altra e questa è un’altra cosa che mi stuzzica non poco. Inanzitutto il box in sei CD sulle session di Fisherman’s Blues dei Waterboys: Fisherman’s Box è uno scrigno colmo di tesori, un oggetto a cui tornare e ritornare più e più volte, con tanta di quella musica immensa dentro che quasi non ci si crede. A lui affianco la ristampa (rigorosamente in vinile) di ½ Gentlemen/Not Beasts degli Half Japanese, uno dei dischi più rumorosi, grezzi, folli, infantili, per molti versi agghiacciante dell’intera storia del rock. Per farla breve, un capolavoro!
Qui sotto i miei venti dischi dell’anno, in rigoroso ordine alfabetico. E’ tutto, buon 2014!