MOPE “Mope”

MOPE

Mope

Taxi Driver Records

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A Genova e dintorni le cose si stanno facendo sempre più interessanti vista la gran quantità di progetti e band che vivono (e suonano) il meteorologicamente disastrato territorio ligure. Nell’ambito dello stoner doom poi le cose vanno a meraviglia e tutti questi gruppi perpetuano una tradizione che ormai comincia ad avere radici solide e lontane nel tempo. Tra i nuovi adepti possiamo annoverare i MOPE che debuttano con l’omonimo lavoro (Taxi Driver Records) annoverando a dire il vero tra le proprie fila non proprio dei novellini e non solo barbuti doomster di navigata solidità, vale a dire Fabio Cuomo degli Eremite alla batteria e Stefano Parodi dei Vanessa Van Basten al basso, bensì anche le gentili donzelle Jessica Rassi (artista presso The Giant’s Lab) alla chitarra e Sara Twinn, sax, già con i Folagra. Proprio da quest’ultima si può partire per parlare di loro, perché il suo sassofono è la parte centrale e principale della loro musica. Sulle afose atmosfere create dalla base ritmica e dalla chitarra si staglia il gelido suono del sax, nitido e mai distorto, quasi a voler delineare una immaginaria ed inusuale linea vocale (i brani sono strumentali) perché spesso la sua delicata melodia si scontra (doverosamente) con la inquietante ostilità alle sue spalle. Proprio questa dicotomia rende affascinante il progetto, là dove la musica della band è sporca ed abrasiva il suono del sax va a controbilanciare armoniosamente ma con la giusta dose di sinistra profondità. Amate i Kilimanjaro Darkjazz Ensamble o i Bohren And Der Club Of Gore ma a volte ascoltandoli vorreste più volume, più chitarre e meno elettronica dal sapore jazz? I MOPE fanno per voi, si posizionano su quelle lunghezze d’onda perché hanno il jazz ma del resto anche la narcolettica potenza sonica degli Sleep. Tre lunghi pezzi per oltre mezz’ora di drone mefitici profumati dal sax, suoni ipnotici tesi e fumosi, proprio come quella bruma che sale dal terreno dopo un violento temporale nel torrido sole d’agosto.

Daniele Ghiro

FLASHBACK MAGAZINE: intervista a RICHARD MORTON JACK

Non occorre essere fini analisti delle faccende musicali, per rendersi conto dell’appeal che la musica del passato (e ci riferiamo ovviamente a sixties e seventies soprattutto) ha ancora oggi su miriadi di appassionati. I germi di quanto accaduto, grosso modo, fra i primi anni sessanta e la prima metà del decennio successivo, non solo sono facilmente riscontrabili nella musica di un buon 90% (probabilmente una stima per difetto) delle bands contemporanee, ma continua ad essere di scottante attualità grazie al remunerativo mercato delle ristampe, dei box retrospettivi, financo del disseppellimento e della (ri)scoperta di oscure e misconosciute pepite musicali risalenti all’epoca. Si, perché oltre alle celebrazioni ovvie nei confronti delle grandi e conosciutissime star, mai come in questi anni si era assistito ad una simile corsa alla ristampa e, in alcuni casi, addirittura alla riscrittura della storia. Se è vero, infatti, che le grosse Major campano rivendendo, per l’ennesima volta, gli stessi dischi ai soliti appassionati, che per qualche traccia in più farebbero follie, è anche vero che non è minimizzabile il successo, sia pur di nicchia, di etichette dedite alle ristampe di dischi e nomi, spesso di assoluto culto, quali Rhino, Sundazed, Sunbeam, Light In The Attic, Ace, Cherry Red, Munster e molte, molte altre. Labels, tra l’altro, che, è il caso di dirlo, mettono una cura nelle loro ristampe, il più delle volte superiore a quello di molte Major. Persino il mondo delle riviste musicali non è esente da questa fascinazione; e non parlo solo degli articoli presenti in un po’ tutte le riviste italiane, Busca compreso, o dei numeri monografici e degli speciali allestiti da magazines quali Uncut e Mojo, quanto di riviste dedite esclusivamente alla musica del passato, vedi l’inglese Shindig! o l’americana Ugly Things. Proprio in questo settore, da un paio d’anni, s’è inserita una nuova pubblicazione, anch’essa inglese, ovvero il semestrale Flashback. Concepita e diretta da Richard Morton Jack – giornalista, scrittore di tomi quali “Galactic Ramble”, “Endless Trip”, “I Led Zeppelin dalla A alla Z” (l’unico tradotto in italiano), co-fondatore della Sunbeam Records – Flashback è per molti versi una rivista speciale e diversa da tutte le altre. Basterebbe anche solo tenerla in mano per rendersene conto: un tomone di oltre ducento, fitte pagine, stampata su una bellissima carta lucida, tanto da sembrare più un libro di grosso formato che non una rivista. Come in qualche modo esplicita già il suo sottotitolo – Psych, prog, jazz, folk, blues & beyond! – Flashback è una rivista dall’identità ben definita: innanzitutto, a parte che nella rubrica Jukebox – nella quale un gruppo contemporaneo è invitato a parlare delle canzoni e dei dischi che lo hanno influenzato nel loro fare musica – le lancette del suo orologio si fermano agli anni ’70; poi, la sua attenzione è esclusivamente dedicata ad artisti di culto e nomi non certo a tutti conosciuti delle due favolose decadi. Le “Cover Story” dei primi quattro numeri fino ad ora usciti, sono state dedicate a bands quali Mad River, Tomorrow, Mighty Baby e, sull’ultimo, fresco di stampa, Trees. Altri articoli hanno visto come protagonisti Mandrake Memorial, Montage, Hunter Muskett, Morgen, Dragonfly, The Common People, Tripsichord Music Box, senza dimenticare articoli dedicati ai 50 singer-songwriters più sottovalutati, all’analisi fra le edizioni mono e stereo di alcuni dischi del passato, ad un’approfondita carrellata sulle biografie dei musicisti etc. etc. Diverse cose colpiscono di Flashback: l’incredibile qualità della scrittura (anche per via della presenza di alcune autorevolissime firme), l’accurata e dettagliata precisione e profondità dei suoi articoli (giusto un esempio: la disamina della storia e della musica dei Trees si stende sulla bellezza di 33 pagine, con interviste a tutti i membri della band!), il sorprendente apparato iconografico, con rare foto d’epoca, riproduzioni d’articoli tratte dalla stampa del tempo, materiali promozionali, persino la riproduzione dei contratti firmati dalle bands con le case discografiche! Per molti versi, uno schiaffo al giornalismo pressapochista che spesso si trova su Internet (ma non solo, purtroppo), Flashback è una testimonianza di passione ed amore assoluta nei confronti di un’era, della sua musica, dei suoi protagonisti. Ci è sembrato sano e giusto farla conoscere ad appassionati seri come voi lettori del Buscadero e, per fare ciò, abbiamo contattato Richard Morton Jack per porgergli qualche domanda.

 Cover

Qual è stata la molla che ti ha spinto a creare una nuova rivista musicale?

Alla base della nascita di Flashback, c’è la convinzione che ci fosse spazio per una rivista corposa che andasse a coprire, con spessore e profondità, la musica meno conosciuta dei sixties e dei seventies, concedendo alle sue storie tutto lo spazio necessario a sviscerarle, riproducendo inoltre documenti e materiali d’epoca molto rari. La maggior parte delle riviste musicali tendono a concentrarsi su un numero relativamente ridotto di artisti ben conosciuti, inoltre senza avere un’attenzione speciale e rigorosa ai dettagli e alla ricerca. Per questo motivo la scelta è stata quella di muoversi in un’altra direzione, di andare un bel po’ più in profondità, in modo da poter dare il maggior risalto possibile agli artisti di cui di volta in volta avremmo deciso di parlare. C’è un sacco di entusiasmo tra i giornalisti musicali nei confronti di questo periodo, però non altrettanto rigore. La mia idea, insomma, è stata quella di avere un approccio più erudito, mi auguro bypassando il rischio di sembrare sterile o accademico.

In questi primi quattro numeri, Flashback è stata caratterizzata da una struttura ben definita, con una serie di rubriche e tipologie d’articolo fisse. Pensi che verrà mantenuto questo assetto?

Si, credo proprio che le rubriche fisse rimarranno al loro posto.

Tra queste, una delle mie preferite è “First Person”…

Volevo dare, ad una serie di interessanti personalità, lo spazio per narrare le loro storie, attraverso le loro stesse parole (sull’ultimo numero, Beverley Martyn racconta di Woodstock, Monterey, della Swingin’ London e del matrimonio con John Martyn, NdA). E’ un modo per portare alla luce alcune intriganti informazioni, che non necessariamente riescono ad emergere da un’intervista convenzionale.

Un’altra bella rubrica è “Jukebox”, l’unico vago punto di contatto con la contemporaneità in Flashback…

Si, è così. Come dicevo prima, l’obiettivo di Flashback è quello di parlare approfonditamente di musica vintage. Mi arrivano costantemente album di nuovi artisti da recensire, ed ogni volta devo spiegare: “Mi dispiace, non è quello che facciamo”…

Una delle cose che maggiormente salta all’occhio è la qualità del materiale iconografico: rare foto d’epoca, memorabilia, riproduzione di articoli usciti al tempo e molto altro ancora! Immagino sia tutt’altro che facile reperire questo materiale…

Si, è senz’altro difficile, però una parte essenziale della rivista è proprio far circolare e condividere cose del genere. E’ una cosa che veramente mi sbalordisce il considerare che Flashback è più o meno l’unica rivista che, sistematicamente, fa ricerche per i suoi articoli nella stampa musicale dell’epoca di cui tratta. Quello che intendo è: la storia dovrebbe essere la fonte primaria, giusto? Ci sono delle altre persone che mi aiutano a reperire varie cose e, come loro, sono sempre stato ben felice di condividere con altri le cose rare che mi capita di trovare. Non ho mai avuto tempo, invece, per quei collezionisti che serbano i propri tesori.

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Come scegli gli artisti di cui scrivere?

La “Cover Story” è sempre dedicata ad una band con una storia interessante e, possibilmente, che non sia mai stata sulla copertina di una rivista prima di allora. Gli altri articoli sono dedicati ad artisti che ammiro o che sono stati proposti da qualcuno dei collaboratori. Credimi se ti dico che ho una lunga lista dei desideri di articoli che vorrei veder scritti…

Flashback è colma d’articoli dedicati a bands di culto, sconosciuti eroi del passato. Qual è il tipo di lettore che hai in mente? Pensi che in futuro ci saranno articoli dedicati anche ai grossi nomi della musica che amiamo?

Il lettore che ho in mente è qualcuno che abbia già una cultura di base circa gli acts più conosciuti dell’epoca, ma che al contempo abbia voglia di approfondire le sue conoscenze. Credo fermamente che non ci sia granché di nuovo che possa essere scritto circa i maggiori artisti dell’epoca. Ovviamente amerei moltissimo parlare con Paul McCartney o Jimmy Page, ma solo per porgli specifiche ed oscure domande e non per sapere qualcosa in più del loro ultimo progetto, mentre un PR della casa discografica si agita nell’angolo tenendo d’occhio il suo orologio.

Nello staff di Flashback ci sono alcuni grandissimi scrittori. Giusto per nominarne qualcuno: Richie Unterberger, Aaron Milenski, David Wells o Patrick Lundborg. Come sei entrato in contatto con loro?

Faceva parte delle mie intenzioni pubblicare gli scritti di alcuni dei giornalisti che considero i migliori del campo e che hanno lo stesso occhio per il dettaglio che ho io. Quando ammiro gli scritti di qualcuno, generalmente cerco di entrarci in contatto. Conosco Richie da anni, all’incirca da quando ero uno studente all’università; ho conosciuto per la prima volta Patrick a causa della nostra comune ammirazione nei confronti della genialità dei COB (scrisse una lunga recensione del loro secondo album sul suo sito, Lama Review – http://www.lysergia.com/LamaReviews/lamaMain.htm). Quando iniziai a lavorare al mio libro “Galactic Ramble”, chiesi a Patrick di contribuire e lui mi mise in contatto con Aaron (che considero il più arguto ed autorevole critico d’album al mondo). Con David c’è sempre stata una relazione, probabilmente perché entrambi abbiamo un’etichetta che si occupa di ristampe. Con Scott D. Wilkinson, invece, entrai in contatto quando vidi il suo blog e gli chiesi di collaborare al mio libro “Endless Trip”.

Quanto è difficile ogni volta mettere insieme un numero di Flashback? Qual è la cosa che ti mette in maggiore difficoltà?

E’ uno sforzo ogni volta! A volte è difficile trovare abbastanza materiale illustrativo della qualità appropriata, anche se devo dire che è molto più un piacere che non un’incombenza. Probabilmente, in caso contrario, non lo farei. La parte più difficile è armonizzare le immagini con il testo; fortunatamente, il grafico con cui lavoro, Tony Marks, è un mago, ed è lui che si occupa di tutto questo genere di problemi!

C’è qualche articolo di cui sei particolarmente orgoglioso?

Tra quelli scritti direttamente da me, direi l’articolo dedicato ai Mighty Baby sul numero 3; ha necessitato di un sacco di ricerca e lavoro e ha avuto dettagliati input da tutti i membri della band, che è stato davvero un piacere conoscere personalmente, sono tutte persone fascinose.

Mighty Baby Flashback Issue 3 The Action From Mods to Mecca

Tu sei anche il fondatore della favolosa Sunbeam Records (http://www.sunbeamrecords.com)! Le due attività sono in qualche modo connesse?

Non sono connesse in alcun modo, eccetto per il fatto che entrambe si occupano della musica di uno stesso periodo.

Le ristampe della Sunbeam svettano per l’estrema cura con cui sono realizzate. Quali sono le cose che ti guidano nella scelta di ristampare un disco piuttosto che un altro?

Ovviamente devono essere dischi che mi piacciono in particolar modo. Devono poi essere album che non sono mai stati ristampati prima o, al massimo, la cui ristampa precedente era stata fatta con approssimazione e poca cura. Inoltre, su tutto, amo molto lavorare a stretto contatto con gli artisti stessi, perciò, idealmente, devono essere ancora in giro!

C’è qualche progetto in vista di cui vuoi anticiparci qualcosa?

Attualmente sto preparando una seconda edizione di “Galactic Ramble”, che sarà enorme, e sto compiendo i primi passi nella realizzazione di un nuovo libro, di cui al momento non posso dirti di più…

Cosa pensi della cosiddetta crisi del disco? Credi ci sia un futuro per l’industria musicale?

Io credo che la gente comprerà sempre i dischi in vinile, anche per via del loro intrinseco fascino estetico, mentre probabilmente le vendite dei CD si contrarranno sempre più, nello stesso modo col quale si sono contratte quelle delle cassette (tranne forse per quello che riguarda il mercato degli audiofili). Penso che continuerà ad esserci un’industria musicale fino a che ci sarà qualcuno che continuerà a voler ascoltare della musica. Certo, le basi attraverso cui avverrà quest’operazione continueranno a cambiare. Anche il diverso rapporto tra artisti e fan avrà il suo effetto: oggi è più diretto ed ha senz’altro meno bisogno di una grossa etichetta per concretizzarsi.

Il tuo amore per la musica del passato è evidente, ma qual è il tuo rapporto con il rock contemporaneo? C’è qualcosa che ti piace?

Delle bands contemporanee, mi piacciono Wolf People, Howlin Rain, White Denim, Wooden Shjips ed un pugno d’altre, anche se tendo a ritenere i loro concerti più soddisfacenti dei loro dischi. Andando un po’ indietro, mi piacciono parecchio i Belle And Sebastian e i Voice Of The Seven Woods (non sono sicuro di cosa gli sia accaduto, prova però a cercare The Fire In My Head su YouTube!). Penso che Stephen Malkmus sia un ottimo songwriter e che Luke Haines abbia molto talento. Potrei andare avanti a lungo, con molti e molti nomi. La maggior parte della musica che amo profondamente, però, è quella emersa da quell’esplosione di creatività avvenuta tra il 1964 e il 1973.

Ultima domanda! Puoi segnalarci cinque album pubblicati dalla Sunbeam da avere assolutamente?

Mi stai chiedendo di scegliere fra i miei bambini!! Non c’è nulla di quello che è stato o sarà pubblicato su Sunbeam, che io non giudichi di assoluto valore e meritevole di stare sull’etichetta. Sceglierò pertanto un pugno di album fra i miei preferiti, scelti secondo ragioni del tutto arbitrarie: Dedicated To The Bird We Love degli Oriental Sunshine, A Jug Of Love dei Mighty Baby, Moyshe McStiff And The Tartan Lancers Of The Sacred Heart dei COB, Lily And Maria di Lily And Maria e Volume One degli Human Beast.

Flashback, che ovviamente necessita di una certa conoscenza della lingua inglese per essere letta, non è distribuita in Italia; può essere però facilmente ordinata ed acquistata dal sito http://www.flashbackmag.com/index.html

Un ringraziamento particolare, infine, a Carlo Bordone, che per primo me l’ha fatta conoscere.

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BOLOGNA VIOLENTA: BERVISMO E UNO BIANCA

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Nicola Manzan ha ormai un certo seguito nel panorama rock estremo italiano (e non solo). Ai dischi e alle attività di Bologna Violenta, la sua creatura della quale è unico artefice, si aggiungono collaborazioni varie come session man, come produttore e come “discografico” attraverso la sua etichetta Dischi Bervisti. Proprio per questo tralasciamo una dettagliata biografia e andiamo a chiedere qualche informazione supplementare, Nicola risponde sincero e disponibile, parlando anche del suo nuovo lavoro Uno Bianca, del quale trovate la recensione alla fine dell’intervista.

Da dove nasce la tua voglia di fare musica?

E’ iniziato tutto quand’ero bambino. Ho iniziato a suonare il pianoforte a cinque anni e verso gli otto anni ho iniziato lo studio del violino. Ho sempre amato la musica, mi affascinavano gli strumenti e già a quell’età facevo le classifiche a casa (col giradischi) imitando quelle della radio. I vinili di mio padre comprendevano musica classica e cose pop o cantautorali che mischiavo con molta naturalezza, creando delle mie personali playlist che non ammettevano distinzione di “genere”.

Sei diplomato in violino, presumo che ci sia bisogno di un’impronta classica per studiare questo strumento. Come sei finito a fare grindcore?

Come dicevo, ho iniziato da piccolo a suonare il violino e mi sono diplomato in conservatorio a fine anni 90. Amo la musica classica, è una parte fondamentale del mio background e dei miei ascolti. Però amo anche i generi più distruttivi, forse perché rappresentano l’opposto di quello per cui ho combattuto in anni di conservatorio: l’eleganza, il bel suono, il rigore interpretativo e tutte queste cose. Il grindcore è considerato l’anti-musica per eccellenza, e questo mi affascina molto. Raggiunta la maggiore età ho iniziato a suonare con i primi gruppi della zona, che hanno avuto un’impronta sempre abbastanza pesante, nelle sonorità, ma solo con BOLOGNA VIOLENTA ho deciso di estremizzare tutto e mettere in musica il mio lato più estremo.

I due aspetti (classico ed estremo) sono in antitesi o si possono coniugare? Sembra che tu riesca in scioltezza ad inserire elementi classici in contesti estremi. Qual’è il tuo approccio?

Il mio approccio è molto semplice: voglio fare musica che sia molto forte dal punto di vista emotivo. L’uso di tempi molto veloci nei pezzi genere ha già di per sè un forte impatto, ma negli anni sono riuscito ad utilizzare tipi di accordi e sequenze armoniche che riescono a sottolineare al meglio quello che voglio “dire”. Da notare che in genere sono proprio gli archi a creare le armonie, mentre la chitarra sta sotto a macinare ritmiche veloci e spezzate. Mi sembra il modo più naturale per mettere insieme le due cose, per quanto col mio ultimo disco ho fatto dei notevoli passi avanti, cercando di rendere gli archi più estremi e le chitarre più armoniche.

Sembri un tipo luciferino e sinistro, la tua musica è estrema e violenta, ma poi conoscendoti si ha la sensazione che tu sia un tipo tranquillo, c’è una sorta di Jekyll/Hyde nella separazione tra musica e privato?

Beh, c’è da dire che nel privato non sono sempre gentile e tranquillo, chi mi conosce bene lo sa… Sono testardo di natura, quindi se le cose non vanno come voglio io tendo ad essere molto pesante. Però credo anche che la mia musica abbia molti risvolti “positivi”, io la vivo come una specie di catarsi, un breve incubo che una volta finito ti fa stare meglio. Quindi non vedo il mio progetto come violento-e-basta, lo vedo molto provocatorio, più che altro, e questo mi rispecchia in pieno. La gentilezza e il rispetto per il prossimo dovrebbero essere alla base di tutte le relazioni tra gli esseri umani, la musica che si fa non dovrebbe c’entrare.

Una one man band ha dalla sua il vantaggio di essere a capo di tutto. Ti piacerebbe essere in una band con altri elementi o la tua dimensione solitaria è completamente appagante?

Le due esperienze sono molto diverse, devo dire. Mi piace essere a capo di tutto per quello che riguarda BV e spesso mi chiedo se vorrei altra gente a suonare sul palco con me (la risposta è spesso positiva, tra l’altro). A volte risulta pesante essere quasi ogni sera su un palco da solo a creare uno spettacolo che funzioni, in cui devo spingere sempre al massimo perché l’attenzione è tutta su di me. Mi piace molto suonare con altre persone (anche se negli ultimi due anni non è mai capitato), devi creare il feeling giusto, il “respiro comune”, è creare qualcosa di unico con altre persone, quindi la sento una cosa molto speciale (tanto speciale da tenermi alla larga da improvvisazioni modello: dai prendiamo due strumenti e vediamo cosa esce). Spero presto di ricominciare a suonare anche con una vera band, tutto sommato mi mancano i fischi alle orecchie post-concerto, quelli che nel silenzio ti fanno compagnia tutta la notte col suono dei piatti del batterista di turno…

Tra collaborazioni, registrazioni, produzioni sembra che la tua vita sia totalmente dedicata alla musica, è così?

E’ così. Ti dirò, se non mi ci dedico ogni giorno mi sento in colpa con me stesso. E’ una ossessione, più che altro…

Come sono nate le tue collaborazioni con Menace (progetto di Mitch Harris dei Napalm Death) e Justin K. Broadrick (Jesu)? Qual’è il tuo contributo in questi progetti?

Ho conosciuto Mitch quando ho suonato per la prima volta di supporto ai Napalm Death. Ha visto che avevo il violino sul palco e mi ha chiesto se registravo e arrangiavo gli archi, perché aveva questo progetto in ballo con Brann Dailor (Mastodon) e Max Cavalera (Soulfly), ma all’epoca c’erano solo dei provini. Dopo un intenso scambio di mail, pezzi e idee durato quasi due anni, siamo arrivati al punto che il cd esce a Marzo per Season Of Mist e sarà distribuito in tutto il mondo. Io mi sono occupato della parte “orchestrale” della cosa, registrando gli archi su gran parte dei pezzi, in più ho fatto alcune parti di synth e fiati, oltre al basso del primo singolo. Nel disco, prodotto da Russ Russell (Napalm Death, Evile) hanno suonato Shane Embury (Napalm Death), Derek Roddy (Hate Eternal, Nile) e Fred Leclerq (Dragonforce). Justin l’ho incontrato a Bologna suonando di supporto ai Godflesh. Anche in questo caso, ha visto il violino e mi ha chiesto di registrare gli archi veri su un pezzo dell’ultimo album di Jesu. Anche in questo caso, un’esperienza molto bella per me, soprattutto dal punto di vista umano (e qui si torna alla domanda sull’essere gentili e fare musica estrema…).

Una domanda che faccio a tutti: riesci a vivere di musica oppure fai anche altro? Gestisci tutto da solo anche per quanto riguarda la parte amministrativa e organizzativa?

Diciamo che riesco a “sopravvivere”. Ho impostato tutta la mia vita sulla musica, fin da bambino, e a parte qualche periodo in cui ho fatto anche altro, in genere sono sempre riuscito a non morire di fame. Devi pensare che oltre a BV faccio anche il fonico in studio, produco gruppi e partecipo alle registrazioni di parecchi dischi. Mettendo insieme tutto ed evitando di buttare i soldi in cazzate a fine mese non ho un vero e proprio stipendio, ma almeno non devo trovarmi qualcos’altro da fare per vivere. Inizialmente gestivo tutto, ora molto meno, i concerti li gestisce il Cecca di BPM Concerti, la stampa dell’ultimo disco la sta gestendo Woodworm, mentre l’ufficio stampa è autogestito da me e Nunzia (la mia compagna) come Dischi Bervisti, ma devo dire che ho sempre meno tempo per star dietro a tutto.

Come vedi la scena musicale italiana? Intendo quella sotterranea (ma non troppo) fatta di piccole entità come la tua (o anche maggiori) ma che mi sembra sia ormai ad un livello qualitativo veramente elevato.

Anche secondo me il livello si è alzato. Purtroppo il livello culturale italiano si è abbassato, quindi magari la musica può essere migliore, ma i posti dove farla sono sempre meno. Sono anche contento di vedere molte band che suonano e sono amate all’estero, questo significa che forse siamo arrivati, almeno in alcuni casi, ad essere “competitivi”, per quanto questo termine non mi piaccia.

So che hai fatto qualcosa anche con Ligabue: come collochi questi grandi nomi nel panorama rock italiano? Voglio dire, per me Vasco Rossi e Ligabue hanno un’influenza negativa su tanti perché il monopolio radiotelevisivo ci dice che loro sono il rock in Italia. Per trovare alternative devi cercare da altre parti e non tutti ne hanno voglia o interesse.

Ho registrato i violini su due pezzi di Ligabue. Mi è stato chiesto se volevo farlo e mi è sembrata una bella occasione per mettermi alla prova e soprattutto per andare a vedere come si lavora a quei livelli. Io personalmente non ce l’ho con Ligabue o Vasco, non mi piacciono le cose che fanno, tutto qui. La questione è un po’ complessa, dal mio punto di vista, perché da un lato ci sono le major che spingono i nomi grossi per far cassa (con tutte le conseguenze del caso), dall’altra c’è un pubblico che si riconosce in quello che questi artisti comunicano. Forse è perché comunicano cose molto semplici, in cui l’italiano medio si rivede. Chi non è stato con una tipa stronza in vita sua? Se ci fai una canzone gran parte del pubblico maschile ci si rivedrà. Sta a noi decidere se vogliamo ancora sentir parlare di cuore-amore o se vogliamo che la musica sia un arricchimento culturale, oltre che semplice intrattenimento. In più la gente non ha voglia di cercare qualcosa di diverso, quindi si becca quello che le viene propinato da tv o radio e basta. La cosa finisce qui. Diventa puro e semplice mercato.

L’etichetta Dischi Bervisti l’hai fondata tu?

L’abbiamo fondata io e Nunzia, inizialmente è stato fatto perché ai tempi del mio penultimo album ci siamo resi conto che potevamo contare su Audioglobe per la distribuzione delle copie fisiche, senza dover passare necessariamente per altre etichette. Quindi ci siamo messi in proprio e a quel punto abbiamo deciso anche di gestire tutta la parte promozionale. Ora facciamo da ufficio stampa anche per altre band e coproduciamo i dischi degli amici o quelli che ci piacciono. Una cosa molto DIY, comunque.

Ho saputo che ti sei sbattezzato, hai problemi con la religione cattolica o invece è una cosa più generale contro tutto quello che riguarda la spiritualità?

Non è una cosa che riguarda la spiritualità, ma le religioni (tutte) intese come un sistema politico per il controllo delle masse. Detta così sembra una cosa complottista, ma non lo è. La chiesa e le religioni per secoli non hanno fatto altro che mettere gli uni contro gli altri, in nome di un Dio che qualcuno si è inventato. La gente crede in cose assurde e affronta la vita pensando cose tipo “se Gesù è morto per noi, allora io devo avere la mia croce e soffrire”… secondo me questa è follia pura. Non si sa neppure se Gesù sia mai esistito o meno, non riesco a sentirmi vicino a queste cose. Che poi la religione cattolica mi fa proprio ridere, piena di controsensi. Una religione monoteista in cui vengono venerati decine di santi (che poi santi nella vita non lo erano proprio). Sinceramente? Non voglio averci niente a che fare.

Ora parlami del Bervismo, al quale ti vedo molto legato. Cos’è e da dove nasce?

“Bervismo” è una parola che mi sono inventato. Ho cominciato a scriverla sui social network ed ora sta cominciando a dilagare in maniera preoccupante… Di base vorrebbe essere la parola che identifica il trionfo della ragione sui sistemi politici del passato, sulle religioni e sulle superstizioni in generale.

Passiamo al tuo ultimo disco Uno Bianca: un progetto che potrebbe prestarsi ad interpretazioni controverse. Non ti hanno ancora accusato di apologia della violenza? Perché hai rievocato la storia di quella banda criminale?

Ho pensato di rievocare in musica una storia che a mio modo di vedere ha cambiato non solo la provincia di Bologna, ma un po’ tutto il Belpaese. Una storia sconvolgente che dovrebbe continuare a far riflettere, ma di cui non si parla quasi più. E’ una storia di Bologna e il mio progetto è nato inizialmente con l’idea di parlare della città in qualche modo, soprattutto andando a raccontare le sue storie più tristi. L’argomento è scottante, me ne rendo conto, infatti fin da subito ho contattato l’Associazione delle Vittime della Uno Bianca per parlare del mio progetto e del fatto che non ho la minima intenzione di far passare quelli della banda per dei personaggi da imitare. La mia è una denuncia spietata nei confronti di chi non ha il rispetto per la vita (aggravato, in questo caso, dal fatto che chi era coinvolto faceva parte di un’istituzione che dovrebbe garantire la pubblica sicurezza).

Rispetto ai lavori precedenti si nota un massiccio uso degli archi, il tuo violino mischiato con la violenza chitarristica crea una sorta di tappeto grind orchestrale. Un connubio che ti appassiona?

Come ho già scritto sopra, penso che questo che esce con BOLOGNA VIOLENTA sia una specie di “suono primordiale” che ho in testa. Questa è esattamente la musica che ho dentro.

Diventa imprescindibile il booklet allegato all’ascolto: preso da solo l’album è spiazzante ma con la guida in mano magicamente tutto si incastona al posto giusto. Una colonna sonora per un film che non è nelle sale ma che è nella storia della cronaca nera italiana. Hai attualizzato i poliziotteschi dei ’70 si può dire.

In qualche modo, forse sì. Lì era tutto basato su storie inventate, qui purtroppo è una storia vera. La mia idea era proprio quella di ricreare le colonne sonore di quei momenti così drammatici, la paura, la follia, il dolore generato da un raptus di follia. La guida all’ascolto è imprescindibile, perché lo svolgersi dei fatti è sottolineato dalla musica, ma se non si sa cosa è successo, si ha la sensazione che sia tutto un po’ fine a se stesso.

Come lo porterai in tour? Hai delle idee di come sarà il tuo show?

Sto preparando dei video che spero siano all’altezza del disco… Sto cercando di creare un viaggio minimale, ma efficace. Sul palco sarò da solo, non me la sono sentita di coinvolgere altra gente nei miei deliri!

Perché qualcuno dovrebbe comprare Uno Bianca? Fatti pubblicità…

La gente dovrebbe comprare il disco perché è qualcosa di diverso da quanto esce di solito. E’ uno sconfinare tra generi continuo, anche se di base la componente violenta è quella predominante. E’ un disco fatto col cuore che racconta una storia che dovrebbe farci riflettere.

BOLOGNA VIOLENTA

Uno Bianca

Woodworm/Wallace Rec/Dischi Bervisti

BV - UnoBianca [cover]

C’è qualcosa di sorprendente nelle idee di Nicola Manzan, cioè il factotum dietro il nome Bologna Violenta. L’anno scorso ha avuto il coraggio di condensare in un’unica traccia le discografie di artisti che vanno dai Pink Floyd agli Abba passando attraverso i Carcass con l’operazione “The Sound Of…” che seppur discutibile dal punto di vista puramente uditivo (a volte ci sono pezzi di puro rumore bianco) risulta affascinante per l’idea e dimostra ancora una volta la vitalità dell’artista trevigiano. Ora dopo tre dischi in netta crescita ecco che arrivano i 27 pezzi (30 minuti di musica totali) del nuovo Uno Bianca. Un concept che percorre passo passo le gesta criminali della banda dei fratelli Roberto e Favio Savi, poliziotti, che tra il 1987 e il 1994 misero a segno una serie di rapine e assalti che terrorizzarono Bologna e dintorni. Chiunque si trovò malauguratamente sulla loro strada fù impietosamente spazzato via, al momento del loro arresto i morti che si lasciarono alle spalle furono 24, conto al quale si aggiunge il loro povero (ma controverso) padre che si suicidò, forse vinto dalla vergogna (e a questo capitolo finale è dedicata l’ultima, bellissima, sinfonica e classica traccia). La canzone vera e propria non esiste e viene abbandonata a favore del concept globale della storia, anche i titoli non esistono, visto che ogni pezzo è identificato dalla data e dal luogo di ogni loro rapina o azione criminosa, e tutto il disco si regge sulla tremenda dicotomia chitarra – violino. I ritmi sono spesso forsennati come suo solito, l’uso degli archi però è massiccio e stempera le violenze, le pause sono inserite al momento giusto e la liricità del disco ne guadagna. Spiazzante al primo ascolto, il lavoro cresce notevolmente con i successivi, ma è quando si prende in mano la guida ai brani che Nicola ha allegato al suo lavoro che tutto giunge a compimento e il suo disco si trasforma in una colonna sonora perfetta di un poliziottesco italiano aggiornato agli anni ‘90, in un continuo aumentare del coinvolgimento emotivo. La musica segue passo passo ogni vicenda e tutto si va magicamente ad incastonare nel punto giusto, lasciando stupefatti di come questo sia possibile seguendo la sua proposta musicale, che non è certo tra le più accessibili e leggere. La violenza musicale delle rapine lascia spazio agli archi delle morti e dei funerali, si sobbalza ad ogni attacco, si prova pietà per le vittime e rabbia per i carnefici, sembra di essere sulla scena del crimine (ad esempio le tristi note tzigane durante l’assalto ai campi ROM si interrompono bruscamente durante il vero e proprio tirassegno messo in atto dai criminali lasciando spazio alla furia delle chitarre). Vi garantisco che, se siete solo un minimo avvezzi al genere, vi ritroverete ad ascoltare mezz’ora di grindcore con il cuore in gola e non potrete non trasalire ad ogni rintocco di campana (24, uno per ogni morto) puntualmente sistemati al momento dell’esecuzione. Da brividi. Come ho detto all’inizio, uno dei più sorprendenti artisti italiani nel panorama della musica estrema.

Daniele Ghiro