BLESSED CHILD OPERA “The Darkest Sea”

BLESSED CHILD OPERA

The Darkest Sea

Seahorse Recordings/ Audioglobe

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Da anni il napoletano Paolo Messere è figura importante dell’underground musicale italiano, nelle molteplici vesti di produttore, discografico (sua la Seahorse) e musicista, dapprima in formazioni quali Silken Barb Ulan Bator, poi, dal 2001, a capo dei Blessed Child Opera, senza ombra di dubbio la sua creatura più personale e sentita. In una discografia che, con quest’ultimo, consta ormai di ben sei dischi, Paolo ha costruito un corpus autoriale intenso e denso di grande musica, con una sua sempre marcata coerenza, pur tra i mille cambi di formazione. Il nuovo The Darkest Sea si presenta con una copertina nera ed espressionista, resa affascinante dai disegni di Felice Roscigno, i quali ben introducono ai contenuti dell’album. La base sarebbe come sempre il rock ed il folk americano, ovviamente visto da una prospettiva gotica e profondamente dark. I referenti possibili sono molteplici: da un David Eugene Edwards affiorante in più episodi, al cantautorato sofferto di Mark Kozelek, dalla malinconia folk dei Willard Grant Conspiracy, alle ombre blues di un Hugo Race. Spesso il cuore di queste canzoni è acustico, anche se poi, attorno ad esso, fiorisce un pulsare elettrico e rock, capace d’inglobare anche elementi wave. E se non sempre la scrittura è realmente memorabile, il tutto viene supplito dalla costruzione di un mood unitario ma ricco di sfumature, dal suono veramente evocativo e stellare. Si passa così da ballate dark quali I Had Removed Everything a stilettate rock a là Woven Hand come Blindfold, dalle distorsioni sature di A Lazy Shot In The Belly ad un pezzo degno del migliore Kozelek come In The Morning (I Do Upset The Plans), una delle cose migliori del disco, con un passo ipnotico e mantrico. Ma parlavamo di sfumature diverse: I Look At You (But I Already Know Your Answer) tra rintocchi di banjo ed electronics penetra in oscure ed abissali profondità, sfiorando la ieratica ed allucinata arte dei Current 93; per contro, Friends Faraway ha un più sereno e classico impianto folk, mentre December Wind chiude tra vibrante tensione wave. Registrato in Sicilia, The Darkest Sea guarda oltreoceano virando le musiche di quei lidi in suoni che fanno filtrare ben poca luce. Se gli artisti citati sono nelle vostre corde, una discesa fra queste onde dovrebbe essere di vostro gradimento.

Lino Brunetti

CHEATAHS “Cheatahs”

CHEATAHS

Cheatahs

Wichita

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Ad un anno dall’uscita del non troppo convincente Extendes Plays, che racchiude gli EP Coared e Sans, eccoci qua a parlare del nuovo omonimo disco dalla band londinese Cheatahs. Londinesi si fa per dire, visto che il cantante e leader Nathan Hewitt è nato cresciuto in Canada, a cui si aggiungono l’inglese James Wignallm alla chitarra, il bassista californiano Dean Reid e il batteristaMarc Rue, originario di Dresda in Germania. Shoegaze, noise, grunge sono queste le chiavi per collocare questa band che affonda le proprie radici musicali nel più classico alternative rock anni 90. I quattro ragazzi tirano fuori un lavoro sicuramente di piacevole ascolto, che purtroppo però non si discosta minimamente da ciò che già dieci anni fa sarebbe stato considerato datato. Se l’intro rumoristico fa presagire un noise rock etereo, sono le seguenti  Geographic e Northern Explosure  a mettere le cose in chiaro e a definire il sound che dominerà  gran parte dell’album: sezione ritmica potente e intrecci chitarristici figli del più indemoniato J. Mascis. Con Mission Creep le cose cambiano, il noise- pop viene sostituito da una litania neo-psichedelica che suona molto vicina agli australiani Tame Impala, a cui fa seguito l’accattivante Get Tight,  che potrebbe tranquillamente rientrare nel variegato repertorio del capolavoro degli Smashing Pumpkins, Mellon Collie And The Infinite Sadness. Le sferragliate chitarristiche e gli intermezzi noise di The Swan creano invece un ponte tra i grandissimi Husker Du e i Sonic Youth di Daydream NationIV e Fall sono  dei chiari omaggi ai My Bloody Valentine: la prima è contraddistinta da un apertura shoegaze che pian piano muta in un chitarrismo aggressivo figlio dei già citati Dinosaur Jr., per concludersi con una coda rumoristica molto simile all’intro iniziale di I, mentre Fall crea paesaggi cupi e sognanti figli tanto dei My Bloody Valentine di Loveless quanto dei Ride. Se Cut The Grass risulta come banale incursione nello shoegaze più datato, Kenworth parte subito con uno sfrenato noise che muta inesorabilmente  in un finale tanto distorto quanto psichedelico (sembra di ascoltare The Sprawl dei Sonic Youth), senza dubbio il pezzo più riuscito dell’album. La  più solare Loon Calls non aggiunge molto, se non fa rimarcare quali siano i gusti musicali di Nathan Hewitt and co. Come già detto prima,  un disco piacevole che sicuramente non mette in difficoltà l’ ascoltatore, ma niente che non si sia già ascoltato. Indubbiamente spunti interessanti ci sono, ma dipende molto dalle vostre aspettative valutare se bastano a  giustificare un album che nel 2014 può solo risultare innocuo.

Alessandro Labanca

STONE JACK JONES “Ancestor”

STONE JACK JONES

Ancestor

Western Vinyl/Goodfellas

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Chi è Stone Jack Jones? Forse l’uomo misterioso che, sulla copertina del suo ultimo disco, cammina verso un paesaggio sconosciuto, tra le brume di una sterminata pianura americana? Discendente di quattro generazioni di minatori di carbone, provenienti dalle rive del torrente Buffalo (WV), dopo essere stato respinto dal servizio militare al tempo della guerra del Vietnam a causa dell’epilessia, e dopo essere rimasto deluso dagli affari nell’ambiente minerario, scelse la vita da girovago. Questo lo portò a svolgere i lavori più disparati: giostraio, illusionista, ballerino, suonatore di liuto, fino ad avere un numero in un club notturno di Atlanta. Dopo tutto questo peregrinare, approdò infine a Nashville, dove incontrò le persone giuste per dare finalmente forma al suo talento artistico in personaggi quali il produttore Roger Moutenot e musicisti come Patty Griffin e Kurt Wagner. Il risultato di questo fruttuoso incontro è Ancestor, terzo disco di questo ancora sconosciuto artista. L’album si apre con poche precarie note di banjo che ci portano subito in un mondo fatto di vagabondi e cantastorie in piena tradizione folk, anche se il brano prende subito un andamento più cupo, vuoi per la voce che velatamente ricorda Mark Lanegan, vuoi per la lenta cavalcata notturna, quasi gotica, sostenuta da un coro di voci maschili. Questa era O Child, un’invocazione forse al bambino che è dentro di noi, punto di partenza e punto di arrivo di questo viaggio  che è l’esistenza. Stone Jack Jones ha scelto di realizzare questa ricerca attraverso un trip autobiografico introspettivo, servendosi dell’arte e, in questo caso, delle undici ballate di Ancestor. La romantica e nostalgica Jackson è la seconda tappa del nostro viaggio: le stelle non cadono dall’alto su Jackson è quello che il ritornello sostenuto da un controcanto femminile, in pieno ambiente country, tra chitarre acustiche, piano elettrico ed un organetto quasi circense, ci rammenta. Storie di sbornie e di sbandamenti e della speranza di una storia d’amore, a Jackson. Black Coil ci trascina invece giù nei sotterranei delle miniere di carbone, ambiente famigliare all’autore: cori e armoniche insieme ad un incedere pressante delle chitarre ci fanno esplorare le gallerie e le miserie di questa categoria di lavoratori. La tranquilla State I’m In ci conferma il carattere notturno di quest’opera: fa un’apparizione una tromba e un sottofondo di voci ricrea l’ambiente di un club fumoso. Voci e presenze si sovrappongono e contrastano col cantato intimo che è appena cessato. Ci si risveglia con Joy, più colorata e ottimistica: questa volta il banjo suona in maniera più netta, accompagnato dall’armonica e da un coro gospel.  Non si fa in tempo a credere a Joy, che la bella Red Red Rose, cantata a denti stretti, riporta un tono più drammatico e solenne; inevitabile qui un’accostamento a Wovenhand. Un rullante, sul finale, sottolinea questo sentimento, cadenzando una marcia che non lascia nell’aria buoni auspici. Way Gone Wrong, nonostante il titolo, fila via liscia: altra bella canzone, con un più sostanziale piglio rock, diurna se vogliamo contrapporla a quelle più oscure e crepuscolari. Se la notte segue il giorno, con Anyone vi ripiombiamo: introdotta da un organo, questa volta il dramma si fa più vicino, meno declamato, intimo. Anyone ha l’aria di essere una sorta di confessione, nonché il punto cruciale del percorso.  Pianoforte e organo per Good Enough For Me, insieme ad un coro per intonare un gospel sofferto e molto personale. Con  Marvellous ci avviciniamo alle pacate considerazioni finali, un chiaro inno all’amore nel rispetto della tradizione americana: ritorno verso casa, l’amore e cose semplici e buone. Chiude Petey’s Song che ha proprio l’aria di un commiato, in mezzo ad arpeggi acustici e nostalgiche armoniche in dissolvenza. Gli undici brani sono molto coerenti tra loro e fanno del disco un corpo unico, da ascoltare sempre dall’inizio alla fine. È grazie a dischi come questo che il genere folk rivive e si rinnova continuamente.

Maurizio Misiano

 

BLANK REALM “Grassed Inn”

BLANK REALM

Grassed Inn

Fire Records/Goodfellas

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Solare, ricercato, naif, pop: eccovi qui presentato il nuovo album dei Blank Realm. Il gruppo è formato dai tre fratelli Daniel Spencer (voce, batteria), Sarah Spencer  (voce, synth), Luke Spencer (basso) e dal chitarrista Luke Walsh, provenienti da Brisbane, in Australia. Se si pensa ai loro lavori precedenti, non è difficile notare il cambiamento  avvenuto con Grassed Inn, dove i baccanali noise lasciano spazio ad un suono (non sempre impeccabile ma sicuramente interessante) più vivace, festoso e, come già detto, pop, con elementi di psichedelia che in molti casi prendono il sopravvento. Queste caratteristiche sono subito riscontrabili nell’iniziale Back to The Flood e nella deliziosa psichedelia di Falling Down The Stairs, con l’organetto padrone indiscusso; i Blank Realm, oggi, non sembrano suonare più come i Sonic Youth, bensì come i Modern Lovers. Vero, ma fino ad un certo punto, visto che i “giovani sonici” sono stati presenza ingombrante in tutta la loro discografia e non potevano mancare neanche in questo nuovo album, basti pensare a Bulldozer Love, con le chitarre che poco alla volta si fanno sempre più distorte, seguite nel loro incedere da un organo spaziale. I fratelli australiani ci mettono dentro anche un pizzico di elettronica in Violet Delivery, mentre la ballata noise di Baby Closes The Door è un chiaro richiamo ai Velvet Underground, altro gruppo molto caro ai nostri. Anche lo stomp elettronico di Even The Score, sfociante in un incursione noise -psichedelica, non può far altro che portare di nuovo alla mente i Velvet Underground. In questo articolato insieme di suoni non mancano anche le più morbide, ma non meno noiseggianti, visioni psichedeliche di Bell Tower e della finale Reach You On The Phone, dove il synth prende vita un po’ alla volta fino a dominare la scena. Grassed Inn si può certamente definire un buon disco, anche se non esente da evidenti cadute di tono, vedi l’incedere a volte troppo confusionario e le traballanti doti vocali. Detto questo, in un momento in cui gran parte delle band rifanno se stesse album dopo album, i Blank Realm sono riusciti ad attuare un interessante cambio di rotta, intelligente e non privo di originalità.

Alessandro Labanca

MIDLAKE live @ Tunnel, Milano – 8 marzo 2014

MIDLAKE

TUNNEL

MILANO

8 MARZO 2014

Tolto il consueto, assai discutibile trattamento che alcuni club milanesi, tra cui il Tunnel, riservano agli spettatori di concerti quando è sabato sera – apertura porte alle 20 ed istantaneo inizio del concerto dell’artista di spalla, in questo caso Israel Nash Gripka, davanti a tre persone tre; fine tassativa del tutto entro le 22.30 o poco più, per poi lasciare spazio alla discoteca – la serata dell’8 marzo per il concerto dei Midlake si è confermato il classico evento da non perdere. Se la qualità superlativa di un disco quale Antiphon aveva già provveduto a testimoniare che la defezione del cantante e chitarrista Tim Smith, colui che fino a ieri era stato considerato il leader della formazione, era stata assorbita e superata ben oltre le più rosee previsioni, rimaneva giusto da testare la qualità dei Midlake 2.0 sul palco. Nessun problema in questo senso: chi c’era ve lo potrà confermare, quello messo in scena sulle assi del Tunnel è stato un concerto di livello superiore e i Midlake rimangono una live band fenomenale. Se Eric Pulido e soci, poi, ancora avevano dei dubbi circa la positiva ricezione di questa nuova fase da parte del pubblico, sicuramente si saranno tranquillizzati, perché raramente ho visto una reazione così entusiastica provenire dalla sala. Pubblico caldissimo quindi, che di certo ha molto colpito la band ed in particolare un Pulido un po’ timido, ma sempre più sciolto e sereno col proseguire dello show. La deriva vagamente neo-prog del repertorio più recente, dal vivo riverbera in un sound potentissimo e magmatico, dove una formazione a sei – che prevede due chitarre, basso, batteria e due tastieristi che aggiungono, a seconda della bisogna, una terza chitarra o il flauto – garantisce lirismo, passione ed infinito calore. Il grosso dei pezzi è venuto ovviamente da Antiphon, anche se non sono mancati diversi episodi provenienti dal repertorio dell’era Smith. Da questo punto di vista, è stato interessante notare come, non sapendolo, nessuna reale cesura fra i due tipi di brani si sarebbe notata. Le vecchie canzoni sono, nella realtà, perfettamente armonizzate con le nuove e il fatto che i sei facciano fluire i pezzi ciascuno dentro quella successivo, crea una unitarietà ed una coerenza sonora che lascia estasiati. Le armonizzazioni vocali, spessissimo a più voci, si mescolano così alla fantasia ed alla potenza della sezione ritmica, nonché all’estatica magia affrescata da chitarre e tastiere. Le radici folk s’intingono in un sound fortemente rock, a tratti addirittura deflagrante e dagli accenti hard. La partenza con le nuove Ages e Provider detta la linea di quello che seguirà, con un primo tuffo nel passato effettuato con le bellissime Rulers, Ruling All Things, Young Bride e We Gathered In Spring, sparate una via l’altra. E si continua così fino alla fine, alternando pezzi vecchi e nuovi, fino al magniloquente ed esaltante finale con una applauditissima Roscoe ed una devastante The Old And The Young. Poi, rimane lo spazio giusto per un bis e, dopo un’ora e mezza di grande musica, la discoteca incombe e fuori ci aspetta una Milano carnevalesca e con venditori di mimose ad ogni angolo della strada.

Lino Brunetti

Setlist Milano

Setlist Milano

AFTERHOURS “Hai Paura Del Buio? – Edizione Speciale”

AFTERHOURS

Hai Paura Del Buio? – Edizione Speciale

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Stanno attraversando un momento particolare gli Afterhours alla metà degli anni novanta. Dopo un pugno di album cantati in inglese, che mai li hanno fatti realmente uscire dall’underground, tentano coraggiosamente il passaggio all’italiano, utilizzando in maniera intelligente la tecnica del cut up, e miscelando in maniera sfavillante una musica che sia connubio di melodia e rumore chitarristico; l’esperimento paga e Germi diventa un autentico snodo nella loro carriera e, in qualche modo, anche per il rock italiano. Nel 1997, Manuel Agnelli, Xabier Iriondo e Giorgio Prette – all’epoca il nucleo della formazione – sono pronti a dargli un seguito, ma il fallimento della Vox Pop, l’etichetta presso cui erano accasati, li lascia nella scomoda situazione di doversi trovare una nuova label. A credere in loro arriverà la Mescal. Hai Paura Del Buio? si riconnette non poco alle atmosfere di Germi, ma in maniera ancora più sostanziale affresca una forma rock capace di essere ruvida e distorta, spigolosa, e nello stesso tempo incredibilmente melodica, pop per certi versi. La metà degli anni novanta stanno vedendo un fiorire notevole di gruppi italiani che stanno facendo uscire l’indie-rock italico dagli scantinati – pensiamo al successo dei CSI, dei Marlene Kuntz, dei La Crus o dei Massimo Volume – ma è probabilmente proprio Hai Paura Del Buio? il disco simbolo di questa emersione, tanto da meritarsi l’appellativo di miglior disco indipendente degli ultimi 20 anni. Anche perché, ed è questa la cosa importante, la qualità dell’album è tale da giocarsela non tanto entro gli asfittici confini del nostro stivale ma, quantomeno in linea teorica, con le più grandi bands del grunge e del post-grunge dell’epoca. Avevamo finalmente i nostri Nirvana o, come suggerì qualcuno (forse lo stesso Agnelli), i nostri Smashing Pumpkins (il paragone fu con Mellon Collie!). Mix di ballate conturbanti, di attacchi punk al fulmicotone e di altri pezzi non meglio definibili univocamente, Hai Paura Del Buio? viene oggi ripubblicato in un edizione speciale, anche in occasione di un tour di undici date che, lungo il mese di marzo, attraverserà l’Italia ed in cui l’intero album verrà riproposto integralmente. Al CD originale, opportunamente rimasterizzato, viene aggiunto un secondo CD in cui tutto il disco è stato rivisto risuonato con la collaborazione di ospiti importanti. E se alcune versioni rimangono sostanzialmente fedeli o quasi agli originali – la sempre bellissima Male Di Miele con gli Afghan Whigs; Pelle, con un quasi irriconoscibile Mark Lanegan alla voce ed un bel solo di piano a chiuderla; la potentissima Dea col Teatro Degli Orrori; una solo leggermente più alleggerita Voglio Una Pelle Splendida con Samuel Romano; le punkettose Sui Giovani d’Oggi Ci Scatarro Su coi Ministri e Veleno con Nic Cester – altre riletture si discostano abbastanza. Penso ad esempio alla canzone che dà il titolo all’album, prima solo un grumo di rumore, oggi una sorta di delirio impro-jazz con Damo Suzuki alla voce; alla 1.9.9.6. rivista in chiave folk-rock da Edoardo Bennato, che aggiunge anche qualche riga di testo; alla Elymania molto ritmica, tra il sexy e l’allucinato, approntata coi Luminal; alla Senza Finestra pianistica e stilizzata di Joan As Police Woman; alla notevole Simbiosi con Le Luci Della Centrale Elettrica alla voce  e Der Mauer ad aggiungerci fiati funerei; all’Eugenio Finardi che vira in pezzo cantautorale Lasciami Leccare l’Adrenalina; all’intensità asciutta dei Bachi Da Pietra, tra i migliori in scaletta, in Punto G; alla visionarietà di John Parish in Terrorswing e dei Fuzz Orchestra con Vincenzo Vasi in Questo Pazzo Pazzo Mondo Di Tasse; all’intimismo folk di Piers Faccini in Come Vorrei; all’eleganza pop dei Marta Sui Tubi in Musicista Contabile o di Rachele Bastreghi in Mi Trovo Nuovo. Rimane da citare giusto Rapace coi Negramaro (con un a me indigesto cantato super enfatico) e due bonus track: l’ottima Televisione, pezzo in origine non presente sull’album bensì su un singolo, in cui compaiono Cristina Donà e The Friendly Ghost Of Robert Wyatt e una seconda Male Di Miele, con un Piero Pelù gigione quanto mai. In pratica all’album originale – su cui mi sono soffermato poco, dando per scontato che lo conosciate – è stato aggiunto un vero e proprio disco tributo allo stesso. E se il primo si merita sempre e comunque il massimo dei voti, per il secondo, riuscito ma non a quei stratosferici livelli, tre stelle e mezza dovrebbero bastare. Ad ogni modo, il giusto tributo ad uno dei dischi più importanti del nostro rock. E ci si rivede sotto il palco!

Lino Brunetti

L’album uscirà in tre formati: doppio CD  (CD  cover più la versione rimasterizzata dell’album originale); l’album in digitale con, in esclusiva per iTunes, il branoVoglio Una Pelle Splendida feat. Daniele Silvestri; box edizione deluxe in tiratura numerata e limitata (1000 copie) contenente due doppi vinili da 180 gr.  più il doppio CD (stesso contenuto su entrambi i formati). Qui sotto le date del tour:

  • 07.03 NONANTOLA (MO) – Vox Club (data Zero)
  • 14.03 MANTOVA, Palabam
  • 15.03 RIMINI, Velvet
  • 18.03 TORINO, Teatro Della Concordia
  • 21.03 BOLOGNA, Estragon
  • 22.03 S.BIAGIO CALLALTA (TV), Supersonic Arena
  • 24.03 MILANO, Alcatraz
  • 25.03 MILANO, Alcatraz
  • 26.03 FIRENZE, Obihall
  • 28.03 ROMA, Orion
  • 29.03 BARI, Demodè

ABOVE THE TREE & DRUM ENSEMBLE DU BEAT “Cave_Man”

ABOVE THE TREE & DRUM ENSEMBLE DU BEAT

Cave_Man

Bloody Sound FucktoryLocomotiv Records/Audioglobe

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Dopo aver diffuso la sua musica attraverso cassette, vinili e i formati più disparati, il mascherato chitarrista ABOVE THE TREE – al secolo Marco Bernacchia da Senigallia – torna con un album che prosegue ed aggiorna il discorso del precedente Wild. Mentre quello era stato realizzato con la collaborazione di E-Side, stavolta Bernacchia collabora col DRUM ENSEMBLE DU BEAT, ovverosia Enrico “Mao” Bocchini alle percussioni e Edoardo Grisogani agli electronics. Quella approntata dai tre è una musica ipnotica e dai marcati accenti ritualistici. La struttura dei loro pezzi è più o meno sempre la stessa: la chitarra elettrica disegna liquide ed effettate figure reiterative dalle poche e minime variazioni, a volte utilizzando anche la registrazione multitraccia; la voce, quando c’è , è usata come ulteriore strumento musicale; gli strumenti di Bocchini e Grisogani creano un adeguato e pulsante tappeto ritmico, capace di tenere ancorato al terreno il sound tutto. Quello che ne viene fuori è una sorta di trance music dove si intrecciano suggestioni etno, estatici deliri psichedelici, fantasmatici rituali persi nel tempo, sprazzi di visionaria ambient e un pizzico di pulsazione dance. Bellissima la rarefatta e desertica Down Wind Song, abbellita dal banjo essiccato di Glauco Salvo, e limpida materializzazione di un crudele sole a picco sulle nostre teste; in People From The Cave s’insinua subdolamente il sax di Roberto VillaBlack Spirits evoca invece le danze rituali degli indiani d’America, andando a ripescare delle registrazioni pubblicate su cassetta nel 1972 dalla Canyon Records (Kyowa: forty-nine & round dance songs); End Of Era, aperta dal suono delle chitarre in reverse, grazie agli archi apportati da Nicola Manzan, assume toni più platealmente cinematici e, in piccola parte, post-rock. Col suo mood stonato, oppiaceo, fumoso e dai confini poco definiti, Cave_Man è senza dubbio un ascolto affascinante, l’ennesima brillante variazione sul concetto di psichedelia in questi psichedelissimi anni.

Lino Brunetti