di Lino Brunetti
Boring Machines compie dieci anni. Boring Machines da quando esiste è una delle nostre etichette preferite, per la bellezza artigianale delle sue curatissime pubblicazioni, per il coraggio delle sue uscite, ovviamente per la bellezza di musiche sempre stimolanti, uniche, lontane dai luoghi comuni, ostiche magari, di certo gratificanti per coloro che non si accontentano di ascolti distratti o che comunque coltivano la curiosità nei confronti di suoni spesso di confine. Dietro di essa, non poteva che esserci una persona intelligente e con le idee chiare, Andrea Ongarato, per tutti, semplicemente Onga. In occasione del decennale della sua creatura, abbiamo pensato bene di festeggiarlo anche noi, attraverso questo piccolo speciale, questa intervista. Che siate o meno fan di Boring Machines, credo che le parole di Onga siano comunque interessanti per chiunque abbia voglia di gettare uno sguardo nelle faccende dell’underground musicale italiano, ma non solo direi. Dice cose importanti ed in larga parte assai condivisibili, perciò bando agli indugi e lasciamo a lui la parola!
Boring Machines nasceva dieci anni fa. Come ti venne l’idea di fondare un’etichetta?
È iniziato tutto quasi per gioco, per sfida, per l’urgenza di dare una veste ufficiale alla musica di un amico che aveva un vasto repertorio, fino a quel momento autoprodotto. Nel panorama delle etichette italiane di dieci anni fa, ho avuto la presunzione di pensare che mancasse qualcosa, che anche io avrei potuto dire la mia almeno per una volta, pubblicando un disco che era sfuggito ai più in quel momento. Il disco era Clinical Shyness di My Dear Killer.
Avevi avuto esperienze analoghe prima di allora?
L’idea di creare Boring Machines è la conseguenza di una serie di attività che avevo svolto negli anni precedenti nel campo dell’underground italiano. Ho fatto parte del duo Martini Bros djset, con il quale portavamo l’attitudine da radio sul campo, facendo sentire nei locali qui in zona, ma poi anche molto lontano da qui, la nuova musica che usciva, giusto per porre un argine alla valanga di musica di merda che si sente normalmente nei bar. Ho poi fondato Basemental, attività dedicata alla produzione di musica dal vivo e occasionalmente dell’organizzazione di tours. Proprio in occasione di un live organizzato qui a Castelfranco, ho conosciuto My Dear Killer e i ragazzi di Madcap Collective, con i quali ho iniziato a collaborare curando alcuni aspetti delle loro produzioni. Così ho imparato un po’ di cose sulla gestione di un’etichetta, fino a che ho deciso di fondarne una io, mettendomi assieme proprio a Madcap, a Shyrec, a Eaten by Squirrels, nonché alla Under My Bed di proprietà del killer stesso, per fare uscire Clinical Shyness.
Furono difficili i primi passi? Avresti immaginato, all’epoca, che potesse diventare una cosa duratura nel tempo?
Come per tutte le cose, all’inizio si è un po’ incoscienti e non ci sono difficoltà che in qualche maniera non siano superabili, anche perché non ci si pone il problema della durata nel tempo, si pensa solamente al “qui e adesso”, cercando di fare sempre il meglio che si può. Se dieci anni fa mi avessi chiesto come mi sarei visto tra dieci anni, non avrei mai detto che saremmo stati ancora qui a parlarne. Il gioco ha cominciato a farsi serio solo più avanti, per dirti, quando ho fatto uscire il mio primo disco in solitaria, Neutrino di Be Invisible Now!, ma anche lì, non avevo ancora capito che sarei andato avanti per altre release.
Boring Machines si è da subito caratterizzata per la scelta di pubblicare musicisti al confine, underground forse per vocazione, di sicuro lontano dai luoghi comuni. Avevi in mente fin dall’inizio quello che volevi fosse la tua etichetta?
Un po’ si, un po’ no. Diciamo che la mia ispirazione al tempo, e lo sono tuttora, erano etichette come Kranky e Constellation, soprattutto la seconda per la sua ecletticità e la cura estrema dei packaging. Anche io mi sono messo fin dall’inizio a cercare di fornire un prodotto di alta qualità a tutto tondo, dalla musica alle copertine dei dischi etc. Mi sono fatto fare delle fustelle personalizzate per i CD, ho sempre scelto personalmente le carte da usare, per ottenere sempre il massimo dei risultati. Inoltre, visto che gestisco tutto in prima persona e non ho necessità di scendere a compromessi di nessun tipo, ho sempre seguito il mio gusto ed istinto nella scelta dei dischi da pubblicare, indipendentemente dal genere proposto.

Jealousy Party
Esiste un ascoltatore tipo dei dischi Boring Machines?
Spero di no e spero invece di poter arrivare sempre a un maggior numero di persone il più possibile eterogeneo. Di sicuro l’acquirente dei dischi Boring Machines è uno che apprezza il formato fisico curato nei particolari e ha un’apertura mentale che gli consente di spaziare tra diversi micro-generi senza fossilizzarsi sul suono di moda in quel momento.
Come s’inserì Boring Machines nel circuito delle altre etichette underground italiane? Come accennavi, le collaborazioni sono sempre state importanti…
Ho iniziato con una collaborazione tra etichette ed ho proseguito onorando la tradizione underground delle co-produzioni o semplice aiuto reciproco ogni volta che se ne è presentata l’occasione. I miei esempi sul territorio agli inizi sono stati Wallace, Bar La Muerte e Fooltribe, dal quale esempio ho imparato tante cose su come e perché si fanno certe cose.
Nonostante io prediliga lavorare da solo, per praticità e per attitudine mia, le collaborazioni sono una parte importante del percorso di Boring Machines. Anche il 2016 si apre con una collaborazione a tre, con Old Bicycle e Under My Bed, e il numero di dischi co-prodotti in collaborazione con altre etichette italiane o estere è circa il 30% del totale. Il Tagofest, di cui sono stato parte dell’organizzazione per anni, per la scena italiana è stato un momento di incontro molto forte, che ha dato modo a tante realtà piccole e medie del panorama underground italiano di incontrarsi, discutere e fare cose assieme. Ti faccio un esempio: Fuzz Orchestra, ai cui dischi ho contribuito due volte, li ho conosciuti al Tagofest. I Jealousy Party, che in una grande e festosa ammucchiata abbiamo supportato per l’uscita del disco Live li ho conosciuti al Tagofest. Molti elementi sui quali ho basato il mio lavoro vengono da esperienze del genere, che ho poi rielaborato secondo i miei gusti, necessità, urgenze.
Come scegli cosa pubblicare?
Le proposte che mi arrivano sono davvero tante, la maggior parte completamente fuori fuoco, da musicisti che la sparano lì uguale per tutti, senza preoccuparsi di capire cosa fa Boring Machines. Di solito quelli con cui ho lavorato arrivano da percorsi che si sono incrociati con il mio, suonano in band che ho visto dal vivo o di cui possiedo i dischi o fanno parte di un circuito dove si è avuta occasione di frequentarsi. Dopo qualche puntata all’estero, ho deciso di seguire solo produzioni fatte da italiani, non importa dove siano residenti, perché credo che lo stivale abbia molto da dire. Quando mi capita di sentire qualcosa che mi piace, una serie di ripetuti ascolti in diverse situazioni, con grande preferenza per la macchina durante i miei trasferimenti in notturna per andare in giro a concerti, mi dice se quello che ho sentito fa per me o meno. Purtroppo, per questioni economiche, di energie e di tempo, ho dovuto passare la mano su molte cose che in realtà mi sarebbero piaciute, soprattutto perché spesso venivano da persone che godono della mia stima e con le quali mi sento vicino, che è comunque una parte importante delle motivazioni che mi spingono ad affrontare una nuova release.
Al di là delle semplici operazioni di produrre un disco, si tratta di qualcosa di più profondo, che è legato al fare comunità, al creare occasioni di incontro e confronto, sotto il grande ombrello della passione per la musica. Farei una gran fatica a mettermi “in affari” con persone con le quali non riuscirei a passare una giornata a tavola per dire.
Come dicevi, una cosa che hai sempre curato molto è stata la confezione e la grafica delle tue emissioni. Rimane sempre e comunque un elemento importante anche in questi anni di (presunta) smaterializzazione?
Sono un gran compratore di dischi e apprezzo molto i progetti che riescono a dare una veste grafica che sia altrettanto buona come la musica che contengono. Da grande fan del formato fisico tout-court, non avrebbe senso per me fare uscire dei dischi fatti giusto per fare, senza una cura particolare. Un disco per me va ascoltato, toccato, annusato, vado matto per l’odore delle diverse carte. Ah! La chimica, che cosa meravigliosa! Che profumo ha un file .flac? Che senzazione tattile dà un .jpg? Io sostengo che in generale gli artisti vadano supportati acquistando i loro prodotti qualsiasi sia il formato, quindi ben venga anche la musica “liquida”, io stesso ho acquistato album e tracce digitali direttamente da alcuni musicisti. Potendo scegliere, però, preferisco avere un oggetto tra le mani. Ingombrante, delicato e che porti i segni del tempo, come colui che li possiede.

My Dear Killer
Da un certo punto in poi, hai abbandonato il formato CD per dedicarti ad un totale ed esclusivo ritorno al vinile. Come hai maturato questa scelta?
Il CD è stato un ottimo formato per iniziare: abbastanza economico, semplice da produrre, alla portata di tutti. La scelta di andare verso il vinile è in parte mutuata dall’amore per questo formato, in parte è di carattere commerciale. Ho notato nel tempo che, per motivi che non condivido appieno, il CD è stato in larga parte ostracizzato in favore del ritorno del vinile e a conti fatti si vendevano sempre meno dischi in quel formato, soprattuto tramite le distribuzioni più “cool” che hanno quasi dichiarato guerra al piccolo pezzo di plastica digitalizzato. A me il CD piace sempre e in certi casi lo trovo persino indispensabile, quando si tratta di pubblicare tracce lunghissime (che amo) o cose particolarmente silenziose e nitide (certa ambient su vinile fa ridere i sassi). Mettici però un po’ di hipsteria, mettici che il formato 12” è ottimo per spalmarci delle grafiche da paura, al momento la release su vinile è quella più probabile per ogni nuova uscita.
A lato di ciò, però, hai pubblicato (o stai per pubblicare) cose più particolari: penso alla serie “Postcards from…” ad esempio o alla filologica ristampa in cassetta del primo My Dear Killer. Immagino tu tenga molto a questi progetti… Ce li vuoi presentare?
“Postcards from…” è un’idea nata assieme ad Adriano Zanni aka Punck, anche lui conosciuto ai tempi del Tagofest e al quale avevo già pubblicato un album nel 2008, intitolato Piallassa (red desert chronicles). L’album narrava e rielaborava i suoni dei luoghi dove Antonioni ha girato “Il Deserto Rosso”, un capolavoro ambientato nei luoghi dove Adriano è nato, vive e lavora. Adriano oltre che ottimo musicista è un fotografo straordinario, che ha passato l’ultimo decennio e più a documentare quei luoghi dove la grigia industria incontra la natura incontaminata, tutto sotto il velo protettivo della nebbia padana. Abbiamo deciso, in occasione del cinquantenario del film “Il Deserto Rosso”, di pubblicare una raccolta di foto che traducesse in immagini i suoni da lui elaborati in Piallassa. Il tutto, come sempre da mia abitudine, con una confezione studiata nei minimi particolari, un box serigrafato a mano da collezione, con 61 stampe in bianco e nero, su carta ricilata, perché siamo dei punk. Adesso sto per pubblicare il secondo capitolo della serie, questa volta con Fabio Orsi, anche lui fotografo incredibile, oltre che musicista apprezzato internazionalmente. Si tratta di una collezione di foto, a colori stavolta, raccolte durante i quattro tours fatti in Russia negli ultimi anni. Il box, sempre serigrafato a mano da Legno, contiene anche una cassetta con un nuovo album costruito con i loops utilizzati dal vivo in Russia e qualche field recording, con un finale davvero epico! Per quanto riguarda la reissue in cassetta di Clinical Shyness di My Dear Killer, è un’operazione doverosa, che mi è stata proposta da Vasco di Old Bicycle Records (toh, guardacaso pure lui conosciuto al Tagofest molti anni fa). Quando ho fatto uscire il disco nel 2006, MDK mi parlò tra le altre cose delle release in cassetta, cosa che per molto tempo ha portato avanti con la sua Under My Bed. L’uscita su CD sembrò la cosa più naturale ai tempi e adesso, nell’occasione del decennale di Boring Machines e di Clinical Shyness, il disco ritorna al suo formato forse più congeniale, per una serie limitata di tapes.
Anni fa tentasti una cosa forse unica al mondo: chiedere ai giornalisti una sottoscrizione annuale per poter ricevere i dischi nel loro aspetto finito e non in forma di file o Cdr, un’ulteriore testimonianza del rispetto dovuto ad ogni aspetto della tua attività. Io aderii entusiasticamente, però durò solo un anno. Che riscontri avevi avuto da parte degli addetti ai lavori?
Oddio, unica al mondo non lo so, non vorrei caricarmi di tanta responsabilità. Quella volta ricordo che feci di necessità virtù: il promo digitale era ancora una cosa mal vista (non che adesso vada meglio) e raddoppiare gli sforzi per fare dei cd-r promozionali che alla fine non costano meno dell’originale mi sembrava una cosa stupida. Il problema spesso non è tanto mandare una copia fisica del disco come promozionale, quanto le spese postali necessarie, soprattutto fuori dall’Italia. Il 70% degli sforzi promozionali che faccio sono concentrati verso l’estero e le spese promozionali stavano diventando ormai pari a quelle di produzione del disco. Il che va bene per una big-indie o per una major, ma per uno che fa le release che faccio io, con tirature che vanno da 300 a 500 copie, che non sempre, anzi, vanno terminate, non è cosa gestibile mandare dei promo fisici a 2.000 contatti. Mi ero inventato un po’ questa cosa qui allora e devo dire che le adesioni sono state tante ai tempi. Poi la cosa non era ripetibile; un anno me ne son dimenticato, poi molte realtà hanno chiuso o hanno spostato le loro attività verso cose diverse da quelle che mi possono interessare. In questo momento cerco di raggiungere tutto il mondo anticipando via mail le novità tramite dei pacchetti .zip scaricabili che contengono tutto il necessaire per capire la nuova uscita: disco completo, presentazione, cover e foto. Contando l’enorme intasamento provocato dalle centinaia di release che ogni giorno vengono sottoposte a chi scrive di musica, spero sempre che qualcuno trovi il tempo di parlare di Boring Machines, ma non ho l’assurda pretesa di essere tenuto da conto più di chiunque altro e nemmeno ho intenzione di affidarmi ad aggressive campagne da ufficio stampa con noiosi recall etc. Spero sempre sia la musica che faccio uscire a parlare per me, ed il passaparola è fondamentale.
Parlando appunto di stampa (web o cartacea che sia), credi sia stato ben raccontato il tuo lavoro e qual è il tuo rapporto con la stampa musicale?
Come accennavo sopra, il rapporto è sereno. Faccio del mio meglio per fare uscire dei dischi che a parere mio abbiano qualcosa da dire, nell’immensa mole di uscite quotidiane, e quando sono pronto lo comunico in maniera uguale a tutti i potenziali interessati. Spero apprezzino le release, spero abbiano voglia di parlarne e accetto qualsiasi giudizio venga dato perché (per fortuna) la musica è ancora una cosa che considero soggettiva e chiunque la sente con le sue orecchie. Negli anni ci sono stati sicuramente dei malintesi, direi più che altro delle descrizioni pigre di quanto ascoltato. Sul web soprattutto pullulano dei copia/incolla di stralci della mia cartella stampa, che non aggiungono nulla a quanto abbia già fatto io. In un paio di casi mi sono state proposte addirittura delle auto-recensioni: ridicolo! Devo dire che le soddisfazioni più grandi le ho avute dalla stampa estera, forse anche perché non avendo nessun contatto personale, non mi aspetto particolare empatia da chi scrive. Devo dire però che in alcuni casi la capacità di analisi e la voglia di approfondire l’argomento sono state davvero mirabili. Naturalmente ci sono anche molti in Italia che hanno avuto la pazienza e la passione di seguire il cammino di Boring Machines, raccontandone gli episodi in maniera molto articolata ed interessante. Al di là del servizio che una buona recensione può fare in funzione di potenziali vendite di dischi, è l’artista in questione che ne guadagna molto se il suo lavoro viene trattato con la stessa cura con cui lui ha trattato la sua musica.

Father Murphy
In questi 10 anni di attività cosa è cambiato maggiormente per te nel mondo della musica? Come vedi la situazione attuale? Quanto è duro, economicamente parlando, stare sul mercato?
La questione economica, in linea di massima, non me la sono mai posta, magari sbagliando. Io sono Boring Machines e Boring Machines sono le cose che faccio, quindi le mie finanze e quelle dell’etichetta coincidono. Un discorso sulla sostenibilità non me lo sono mai fatto, altrimenti andrei ai matti. Dischi ne escono tantissimi tutti i giorni, tutti sgomitano più che possono per farsi notare. I costi di produzione sono sufficientemente bassi perché molti ci provino, ma abbastanza alti perché molti ci vadano sotto. Io ho fatto una scelta diversa, dove l’etichetta non si autofinanzia con le vendite, vengono iniettate finanze dai proventi del mio lavoro diurno, per fortuna ben pagato per quanto merdoso ed insopportabile come ogni lavoro che si chiami lavoro. Ma mentre di giorno, per cose che non mi interessano minimamente, mi posso adattare alle regole dell’industria per uno scopo più grande (leggi: schei), non ho mai voluto che queste regole che ben conosco, rovinino quello che faccio con Boring Machines. Nel “mercato” ci si sta grazie a dei buoni prodotti, ma spesso anche grazie ad atteggiamenti che io non sento miei. Quindi punto tutto sul prodotto, se va va, se non va amen. Il lavoro che svolgo io è principalmente quello di scouting (se ci fai caso spesso pubblico le opere prime di alcuni artisti), e di diffusione della musica di un artista che mi piace. Non ragiono in termini di investimenti e ritorni, non sono in grado e non mi interessa, spingere la carriera di un artista perché diventi “di successo” sul breve termine. Il lavoro di crescita si fa assieme, tra l’etichetta e l’artista ed ognuno ci deve mettere del suo. Poi, se si è lavorato bene, magari qualcuno di più grosso e con maggiori disponibilità finanziarie e inclinazione al businness può prendersi cura dei lavori successivi, non sono un tipo geloso e ho sempre pensato che la musica di un gruppo appartenga al gruppo stesso e ne può disporre come vuole, indipendentemente dal lavoro che abbiamo fatto assieme. Una cosa che ho notato in dieci anni, è che in molti casi lo spirito di collaborazione, che non vuol dire solo co-produzione, ma mutuo aiuto, rispetto, coscienza di essere tutti parte di un qualcosa, è venuta a mancare, con la conseguenza che molti badano solo al proprio orticello, di fatto danneggiando il sistema tutto. Per pochi mesi di gloria personale, spesso si sacrifica la capacità sistemica di rendere sostenibile un circuito composto fondamentalmente di gente con “le pezze ar culo”, come direbbero gli amici romani.
Dovesse essere che qualcuno ti chiedesse oggi consigli su come aprire una propria etichetta, cosa gli diresti?
Gli direi di mettere la musica al centro di tutto. Sembrerà banale ma non lo è per niente. Ci sono troppi prodotti in giro che con la musica non hanno molto a che spartire, ma sono solo tentativi di passare all’incasso facilmente o di mettere se stessi al centro dell’attenzione. Prima la musica, il resto dopo.
A livello internazionale, ci sono etichette che senti vicine? E più in generale, che tipo di ascoltatore sei, cosa ti piace di più?
Domanda difficilissima, ci sarebbero una montagna di nomi da fare. Io ascolto moltissima musica e di generi molto diversi tra loro, dalle robe elettroniche di Diagonal, Contort e Planet Mu, tutto il mondo che gira attorno a Honest Jon’s e Finders Keepers, la già citata Constellation e davvero molte altre. Ho di recente scambiato un po’ di materiale con la Drone Records di Brema, un’etichetta con un nome bellissimo, che fa musica bellissima e cura i dischi in maniera maniacale, con delle serie di 10” con il vinile degli stessi colori richiamati dagli artwork, davvero eccellente. Non ho un genere particolare al quale sono affezionato e viaggio indifferentemente tra cose vecchie di quarant’anni e cose recentissime che cercano di raccontare il presente ed i possibili futuri.

Mamuthones
Dovendo scegliere due momenti topici di questi 10 anni di attività, il più difficile e quello più gratificante, quali indicheresti?
Difficile individuarne due in particolare, ragionando per insiemi direi che il momento più difficile è quello in cui devo dire di no a qualcosa che mi piace per ragioni di energia/finanze. Non sono bravo a fare supercazzole e mi si arrossano le gote finché scrivo quelle email tipo “no sai, cioè si, però sai…” I momenti migliori sono quelli in cui vedi che il tuo lavoro è apprezzato dagli sconosciuti a millemila chilometri di distanza, oppure quando vedo che alcune mie “creature” riescono a farsi riconoscere per il loro valore. Penso ai Father Murphy che hanno infuso nel loro lavoro un’energia tale da diventare un gruppo unico, apprezzato a diverse latitudini. Penso a Mamuthones che è approdato su un’etichetta stimatissima come la Rocket Recordings, ma penso anche a tutte quelle volte in cui, davanti ad uno sparuto pubblico in una stanza buia, uno dei miei artisti ha creato la magia con il suo live, lasciando le persone visibilmente segnate dall’esperienza che hanno appena vissuto.
Domanda un po’ bastarda, lo so, ma se dovessi consigliare ad un ascoltatore ignaro, che volesse avere un quadro indicativo di quello che pubblica Boring Machines, quali sono i tre dischi che gli consiglieresti?
Oh mamma! Siccome non mi piace rendere la vita facile agli ascoltatori, inizierei con un trio tipo: Be Maledetto Now! – Abisso del Passato vol.1 / Father Murphy – Pain is on our side Now / Dream Weapon Ritual – Ebb & Flow. Se non si lasciano intimidire, sono pronti a tutto.
Boring Machines viene considerata l’etichetta regina della cosidetta “Italian Occult Psychedelia”. Ti ci ritrovi? Credi che oggi le micro nicchie, la divisione in generi sempre più precisi, sia ancora in qualche modo funzionale alla diffusione della musica?
Italian Occult Psychedelia è una scatola, dentro alla quale sono state messe, a partire dall’ottimo articolo del giornalista Antonio Ciarletta, una serie di cose che ripropongono nell’odierno alcune influenze, sensazioni, tipiche di certo Made in Italy che si rifà agli Spaghetti Western quanto agli horror di serie Z, alle grandi colonne sonore quanto alla library music che lo stivale ha partorito con una qualità ed abbondanza invidiabili, soprattutto tra la fine degli anni ’60 e per tutti gli anni ’70. Come tutte le scatole, sono utili per individuare e tenere in ordine cose non necessariamente uguali, ma che ha senso che stiano assieme. Il festival Thalassa, che ne ha celebrato alcune possibili declinazioni, ha mostrato vari aspetti di un sentire italiano che collega il mediterraneo orientale della Piramide di Sangue, con gli esotici Cannibal Movie e le vacanze marcie, impregnate di sole e violenza, degli Heroin in Tahiti. Ha portato nello stesso luogo lo spaesamento dell’emigrante Fabio Orsi, che dal sud del paese va nel nord della Germania e si porta appresso la luminosità dei suoi accecanti drones e la follia sregolata degli Eternal Zio. Il fatto che molti dei partecipanti a questa orgia musicale siano passati per Boring Machines è una casualità, sono tutti dischi che avrei fatto comunque, ma avere a disposizione la scatola IOP, secondo me, è una buona cosa e si poteva e si può utilizzare al meglio per indirizzare all’ascolto ed incuriosire i potenziali acquirenti dei dischi di queste band. Insomma, le sezioni “post-rock”, “industrial” etc. hanno fatto sempre la fortuna anche di band che magari stavano ai margini di questi macro-generi ed hanno aiutato molte persone nell’indirizzare i propri acquisti. Io sono abbastanza favorevole alle definizioni di genere quindi, a patto che non si scenda troppo nei particolari, le micro-nicchie vanno bene fino a quando non diventano nano-nicchie, perché il rischio è quello di diventare troppo autoreferenziali e di sfornare prodotti tutti identici.

Piramide di Sangue
Parliamo di festeggiamenti! Intanto ci sarà una prima festa, simpaticamente definita Ongapalooza, al Dal Verme di Roma (31 marzo e 1 e 2 aprile). Ne seguiranno altre e come si svolgeranno?
Ongapalooza è ironicamente ispirato al carrozzone itinerante che era il Lollapalooza, con un maldestro tentativo di autoreferenzialità, ma pure con un po’ di autoironia.
La prima volta che ho usato questo nome è stato in occasione dei primi cinque anni dell’etichetta, contrassegnando alcuni eventi dove almeno un paio di mie bands suonavano nella stessa sera con questo nome. L’evento più imponente fu la serata di apertura di Musica nelle Valli dentro il Barchessone Vecchio di S.Martino Spino (MO), con ben sette delle mie bands tutte in una sera. A questo giro si riparte da Roma, con un festival che sarà esagerato: tre giorni per un totale di dodici gruppi. Si tratta della quarta edizione del festival Thalassa che, giusto per i motivi che citavi sopra, ha acconsentito a festeggiare Boring Machines tra le sue mura. Il Dal Verme è un locale magico e non si poteva non fare una cosa così.
Siccome ci vogliamo molto bene, si tornerà anche a Musica nelle Valli per la nuova edizione, credo ci saranno almeno cinque progetti coinvolti. Poi sto lavorando ad altre edizioni, ci sono amici in giro per l’Italia e non solo che mi hanno già contattato. Non c’è miglior modo di festeggiare un etichetta che con tanta musica dal vivo dei suoi gruppi.
Poi ci sono le speciali ristampe di due titoli dell’etichetta (una è quella citata sopra di My Dear Killer) e l’operazione 10 anni-10 copie. Vuoi presentarci quest’ultima?
Si tratta di un’idea un po’ matta che mi è venuta nel tempo, parlando con vari amici a riguardo delle celebrazioni del decimo anno. Fondamentalmente farò uscire quattro LP, in occasione degli equinozi e dei solstizi del 2016, che saranno stampati in una edizione limitatissima di 10 copie l’uno, un oggetto da collezione. La particolarità è che per ognuno di questi quattro dischi mi allontanerò ancora di più dai meccanismi promozionali a cui si è usualmente abituati: non ci saranno anteprime, nessuna versione digitale disponibile, non saranno rivelati ne i nomi degli artisti coinvolti nè i titoli dei dischi. Le copertine saranno tutte uguali, con il numero 10 serigrafato sulla copertina, in quattro diversi colori. È una mossa un filino arrogante, un messaggio del tipo: dopo 10 anni vi dovete fidare ciecamente della musica che vi propongo. Nemmeno a dirlo i quattro dischi sono fantastici, non ci sono scarti di produzione o tracce dimenticate, tutta musica di altissimo livello.
Infine, ovviamente, continuerai a pubblicare altra nuova musica! Che augurio ti sentiresti di farti per i prossimi 10 anni di Boring Machines?
Mi augurerei di avere sempre la stessa urgenza, di continuare a non accontentarmi. Mi augurerei soprattutto di vedere un’inversione di tendenza su alcune questioni, mi piacerebbe per esempio vedere più gente che va ai live durante l’anno e meno pecoroni che corrono solo ai supermercati della musica come il Primavera et similia. Mi piacerebbe pubblicare più dischi di donne, ma non con un mero calcolo di quote rosa che trovo offensivo, spero di scovare musiche che fanno al caso mio e che siano fatte da donne. Poi, perchè no, mi piacerebbe poter vendere qualche disco in più e rendere meno insostenibile la gestione economica dell’etichetta. Altrimenti, come dicevo prima, c’è sempre la ricca industria del nord-est che finanzia, a sua insaputa.
LE NUOVE USCITE
Del secondo capitolo della serie “Postcards Of…” parla direttamente Onga nell’intervista qui sopra. Intitolato Postcards From Russia e intestato al prolifico FABIO ORSI – davvero tanti e bellissimi i suoi album, sia quando è da solo, che quando collabora con altri (e qui ci piace ricordare quelli con Gianluca Becuzzi o quelli con Valerio Cosi) – consta di un box dalla copertina rossa, serigrafata dai ragazzi di Legno, contenente un booklet, ben 48 stampe fotografiche singole in formato A4 stampate su carta Splendor Gel da 270 grammi e una cassetta con una quarantina di minuti di musica inedita. Assai belle le fotografie a colori realizzate da Orsi stesso, focalizzate, almeno quelle che ho avuto modo di vedere in anteprima, su paesaggi marginali, su piccole scene di quotidiana solitudine e sui segni che il passato ha lasciato nella Russia odierna e sui suoi abitanti. La musica accompagna queste immagini ricorrendo ad alcuni field recordings usati a mò di cornice, all’inizio ed alla fine della composizione, per lasciare che al suo interno si stenda un lungo e malinconico drone ambientale, un flusso sonoro, evocativo di scenari invernali, di giornate dalla luce fioca, di spiagge solitarie e luoghi abbandonati. Ennesima ottima prova da parte di Orsi, non (solo) un elegante ed affascinante oggetto da collezione, tirato in 150 copie.
1997EV è il progetto solista di Andrea (EV) dell’oscuro collettivo sardo Hermetic Brotherhood Of Lux-Or, fino ad oggi probabilmente conosciuto più all’estero che da noi. Approda su Boring Machines con il suo nuovo album intitolato Love Symposium Alien Spider. Nelle 7 tracce qui contenute siamo dalle parti di una psichedelia oscura e ritualistica, in cui la ripetitività ipnotica delle strutture che compongono i vari pezzi induce alla trance. Succede in una Black Christine che si dipana foscamente per quasi 12 minuti, ma pure in una drySun Acid le cui scansioni acide sembrano voler guardare ad un misto tra rock industriale e sciamanica psichedelia. Magnetospleen è un blues doorsiano, mortifero e attraversato da trivelle noise; Oceanic è uno psych-folk stordito e plumbeo; la bellissima Olagramatic una distorta e sofferta ballata trafitta da mille riverberi; Post-Organic Lullaby e Sleepstone suonano come la proiezione da incubo di un trauma infantile. In questi pezzi la forma canzone resiste, ma è trasfigurata, resa allucinata, ingloba elementi mantrici ed improvvisativi che la rendono altra. Insomma, un nuovo capitolo della saga Italian Occult Psychedelia. Solo in vinile.
Sempre in vinile, ma registrato solo su un lato, anche Illuminant/Glory dei misteriosi PASSED. Concepite come un viaggio alla scoperta della propria natura ferale, le due tracce qui presenti ci guidano attraverso un processo di morte e rinascita, compiti assegnati, nell’ordine, a ciascuno dei due brani. Illuminant (Slowly We Dissolved) è un percussivo mantra tribale costruito attraverso il campionamento di tamburi, synth e voci, il cui suono, progressivamente sempre più oscuro, si coagula in un ritmo che sembra provenire da ossa percosse e in voci che diventano sempre più un gemito infernale, tra clangori e sibili. Tutt’altra atmosfera, ovviamente, in Glory (I Saw You Shining), testimoninza auditiva di una sorta di risveglio estatico tra le braccia di un natura incontaminata e misteriosa, bellissima eppur sempre minacciosa. Poco più di una ventina di minuti in totale, immaginifici, ma non proprio per tutti.