a cura di Lino Brunetti
da un’idea di Andrea Trevaini
Prima di addentrarci in questo piccolo speciale dedicato alla label di base a Roma, ma come vedremo dalle caratteristiche internazionali, Heavy Psych Sounds, devo doverosamente fare delle scuse, sia a Gabriele Fiori, il titolare dell’etichetta qui di seguito intervistato, che ad Andrea Trevaini, autore di alcune delle recensioni che seguiranno e iniziale ideatore dell’articolo che segue. È infatti l’aprile del 2017 quando Andrea mi scrive e mi dice: “Lino, ho qui alcuni dischi pubblicati da questa Heavy Psych Sounds, mi paiono tutti molto belli e sarebbe interessante dedicargli un articolo. Tu la conosci? Che ne pensi?”. Io la conosco molto bene, sui miei scaffali ho diversi dei loro dischi e accetto l’idea rilanciandola. “Sarebbe il caso di non mettere giù solo delle recensioni e direi anzi che ci starebbe anche un’intervista a chi l’etichetta la dirige”. Inizialmente pensiamo di preparare il tutto per il Busca cartaceo, ma un po’ per la solita mole enorme di articoli in attesa di essere pubblicati, un po’ perché consci che proprio prioprio buscaderiane queste musiche non sono, optiamo per andare on line. Gabriele lo contatto più o meno agli inizi di maggio e lui è velocissimo a farmi avere dei file audio con tutte le risposte alle mie domande. E poi che succede? Avviene che prima sono via per una decina di giorni di vacanza, poi parto per il Primavera Sound, poi vengo risucchiato da una serie di lavori e da una mole d’incombenze che non posso rimandare, poi… Insomma, passano i mesi e l’articolo rimane in stand by. Gabriele mi scrive prima della pausa estiva, gli garantisco che ci sono quasi, ma è evidente che sono ottimista. Insomma, mentre probabilmente lui si convince di avere a che fare con un quaquaraquà, io continuo a rimandare fino ad oggi. Alla fine, ragazzi, che vi devo dire? Più delle scuse pubbliche non posso fare.
Anche se di tempo ne è passato un sacco, non ho cambiato comunque idea sulla Heavy Psych Sounds, un’etichetta che continuo a ritenere validissima, con un roster pazzesco (date un’occhiata al suo sito e rifatevi occhi e orecchie guardando quali band hanno inciso per essa), italiana di base certo, ma capace di stare a fianco alle più blasonate etichette d’area internazionali. Quale area? Beh, il nome direbbe già tutto! Qui si parla di psichedelia (heavy per lo più), stoner, rock anni ’70, space-rock, garage e tutto quanto confina con questi generi.
A questo punto, dopo tanto attendere, lascerei la parola a Gabriele.
Dopo l’intervista, qualche recensione di alcuni fra i tantissimi dischi pubblicati dall’etichetta, scelti tra le uscite dell’ultimo anno circa. Liberi poi di esplorarne il catalogo per i fatti vostri, cosa che sono sicuro farete. Buona lettura e buon ascolto!
INTERVISTA A GABRIELE FIORI
Puoi farmi una presentazione di quando e perché hai deciso di fondare un’etichetta, specie considerando i tempi che forse indurrebbero a non imbarcarsi in una simile avventura?
La prima uscita fu una compilation di band italiane in CD. L’etichetta nacque dalla necessità di affiancare un po’ di lavoro a quello della mia band, i Black Rainbows. All’epoca avevamo un’etichetta francese, ma con loro non ci trovavamo bene, quantomeno a livello di promozione. È in quel periodo che ho cominciato a capire le dinamiche di questo mondo, come funzionassero stampa, promozione, distribuzione, vendita. Da lì ho iniziato a pubblicare altri dischi, anche in vinile, uno split coi Farflung ad esempio. Al contrario di quello che si sente in giro, devo dire che no, i tempi sono al contrario propizi, ottimi, perché rispetto a prima, quantomeno nel genere che tratto io, la gente compra dischi, vinili, merchandise. Forse quando ho cominciato la cosa poteva sembrare meno allettante di quanto lo è oggi, ma era un percorso che andava compiuto.
Furono difficili i primi passi? Avresti immaginato, all’epoca, che potesse diventare una cosa duratura nel tempo?
No, non furono particolarmente complicati. Il tutto nacque per passione, mi divertivo, era una cosa che non mi portava via molto tempo e aiutava la mia band. Fortunatamente, visto che coi Black Rainbows suonavo anche con gruppi rilevanti come Nam e Karma To Burn, decisi di provare a proporre gli stessi servizi anche a loro, magari per cose minori, EP, cose così. Non avevo bene idea, all’inizio, di dove avrebbe potuto portarmi fare una cosa del genere, sperimentavo con queste piccole uscite senza sapere cosa aspettarmi dal futuro. Ora è tutto più facile: la musica psichedelica e tutta quella che tratto è particolarmente in voga, sono aumentati i festival e ci sono un sacco di bands, molte delle quali hanno portato il genere alla ribalta.
Come s’inserisce Heavy Psych Sounds nel circuito delle etichette undergound italiane?
Se guardi bene, Heavy Psych Sounds non è propriamente un’etichetta italiana, si muove soprattutto tra Europa e Stati Uniti e quindi sinceramente con le altre etichette italiane non mi saprei relazionare. Credo che quello che faccio con Heavy Psych Sounds, che ricordiamolo è anche booking, logistica, sia una cosa, magari non unica, ma certamente rara, di sicuro in Italia. Per certi versi lo è anche in Europa, dove infatti sto crescendo, anche perché avendo una band, so cosa vogliono le band e cerco di darglielo.
Collaborare con altre etichette è importante per te?
Non sono tanto per le collaborazioni, preferisco fare tutto da me. A parte per quel che riguarda i Mothership, che era una cosa tra Europa e USA (io ho curato l’Europa) e qualcosina agli inizi, ho sempre fatto tutto da solo. Potrei essere interessato a qualche collaborazione sempre con qualche label americana, ma l’obiettivo è conquistare anche quel territorio, dopo esserci imposti già in Germania, Austria e Svizzera. Ora ci stiamo provando con l’Inghilterra, dopodiché proveremo ad allargarci negli Stati Uniti.
In un periodo relativamente breve di tempo, Heavy Psych Sounds è diventata una label non solo riconoscibile e stimata dagli appassionati, ma con nel proprio roster un sacco di bands internazionali, in alcuni casi anche molto importanti. Come sei riuscito a metterle sotto contratto?
Come ti dicevo, in questo è stato importante avere una band. Le varie formazioni messe sotto contratto, alcune sono venute loro, alcune perché avevo appunto contatti diretti, altre perché le ho contattate io. È bello constatare che anche band di un certo livello si fidano di me e io cerco sempre di dare il massimo.
Per un’etichetta come la vostra quanto è importante scovare anche nomi nuovi e fare da vetrina per la nuova scena italiana? Vi arrivano molte proposte? E come scegli cosa pubblicare?
Sinceramente, come dicevo, non è una nostra priorità pubblicare band italiane, potrebbe essere anzi un punto debole, soprattutto perché loro non spingono tanto all’estero. C’è forse una percentuale un pizzico più alta di band italiane in quello che ho pubblicato, ma in realtà ho band inglesi, finlandesi, francesi, tedesche, tante californiane, del Texas, dell’East Coast americana. Non è un’etichetta che segue propriamente band italiane. Per l’Italia, più che altro, cerco di portare delle band ai festival: qui da noi, purtroppo, se porti delle band, se organizzi cose, devi scontrarti col fatto che il pubblico è ancora un po’ scarso, non siamo certo la Germania. Mi arrivano proposte? Tante, tantissime. Sicuramente la priorità ce l’hanno certi nomi; a volte pubblico cose che non mi fanno impazzire al 100%, ma so che possono far bene all’etichetta, altre volte copro io cose che m’interessano. In ogni caso, quelle che prendo sono band che già si sono affacciate sul mercato, non prendo una band che non ha fatto proprio nulla. Pubblicherei un esordiente se avesse fatto un disco davvero incredibile. Devo dire che oggigiorno la media generale è molto alta. Scovare nomi nuovi è importante, ma è più importante scovare nomi importanti per far crescere l’etichetta. I nomi nuovi vengono offerti da label più grandi che si fidano. I Duel, per dirne una, sono una band che ho preso e a cui ho offerto un contratto di tre dischi. Ci stiamo lavorando molto, stiamo lavorando bene ed è un esempio di band che va seguita.
Una cosa che colpisce dei vostri dischi è l’estrema cura data al packaging, sia dei CD che ovviamente dei vinili, immagino il formato su cui puntate di più. Quanto credi che sia in effetti un aspetto importante questo, anche in questi anni di “smaterializzazione”?
Il CD, devo dire, si vende sempre tanto, mentre il vinile è chiaramente un oggetto che piace e diciamo che tutto il pubblico che ruota attorno a questo genere è gente che, a prescindere, compra il vinile da sempre. La fortuna dell’etichetta nasce da questo background, se i numeri sono più piccoli rispetto a quelli di altri settori, c’è da considerare che comunque è composta da fruitori che acquistano dischi, merchandise e permette alla scena di sostenersi da un punto di vista economico. Oggi, poi, è pure un po’ di moda…
Pensi che il ruolo della stampa musicale sia ancora importante o che i canali di diffusione e scoperta di nuova musica siano prevalentemente altri, oggi?
Sarebbe bellissimo se si potesse fare un passo indietro e anche i giovani, come acquistano i dischi, ricominciassero a comprare anche le riviste. Passare il tempo sulle riviste è molto divertente e utile, crea inoltre un senso di connessione più forte di quanto possa fare un qualsiasi sito. Ce ne sono un paio che io amo molto, impaginate molto bene, con un’attitudine molto anni ’70, molto rock. Oggi i canali sono diversi, quelli che ben sappiamo, c’è tanto digitale e tanta gente che si va a scovare i gruppi in rete, dove li può ascoltare etc. Chiaramente, come buona parte della stampa cartacea, anche in quella musicale c’è grossa crisi. Devo sottolineare, ancora una volta, come in paesi come Germania, Austria, Svizzera, si continui a comprare i supporti fisici e pure le riviste, ce ne sono tante e sono seguite.
In questi anni di attività cosa è cambiato maggiormente per te nel sempre in evoluzione mondo della musica? Come vedi la situazione attuale? Quanto è duro, economicamente parlando, stare sul mercato?
Il mercato è in continua evoluzione, cambia ogni 6/8 mesi, a volte vendi qualche copia in più, altre meno, dipende dal titolo. Le cose, a me, vanno abbastanza bene, direi a prescindere dal mercato. Credo dipenda molto dall’impegno che uno ci mette, dal fatto se va a farsi anche i festival e i mercatini, da quanto uno investe in pubblicità. Io, ad esempio, ho investito parecchio in pubblicità per le band, credo di star facendo un buon lavoro e continuo a spingere sempre. Sono convinto che le cose andassero peggio prima; dal ’94, per un po’ di anni, c’è stato una sorta di buco nero, ma ora sarà per moda, sarà per il maggior accesso alle informazioni e alle possibilità (siamo tutti connessi) le cose non vanno male. Certo, non per tutti è così, diciamo che devi anche conoscere bene la scena a cui ti stai andando a proporre, non ti puoi improvvisare su due piedi. In alcuni casi val la pena collaborare strettamente con le band. Nei casi dei debut album, spesso è necessario stilare degli accordi direttamente con la band, in cui magari queste ultime devono acquistare delle copie. È chiaro che se io devo annaspare per fare una release non va bene per nessuno, cerchiamo di trovare dei compromessi che possano soddisfare tutti quanti. Oggi, inoltre, ci sono molte più possibilità di suonare live, c’è una rete davvero imponente e ramificata. Forse c’è meno attenzione al prodotto disco, nel senso che si tende a buttarlo fuori in fretta, a meditarlo meno rispetto a come era una volta, però, in generale, è tutto molto meglio ora. Fai conto che a Roma, fino a qualche anno fa, c’erano solo Villaggio Globale, Forte Prenestino, Black Out e Circolo degli Artisti, posti dove si facevano due concerti al mese; oggi ci sono venti locali dove c’è una programmazione continua, dal garage al psych etc. Di fondo la gente si lamenta sempre, però la realtà è che c’è tanto. Prendi un volo low cost, vai a Berlino e ti vedi un botto di concerti. Ne sono testimone io, una sera che ero lì con due mie band, era un mercoledì sera e c’era la possibilità di vedere Red Fang, Mastodon, Torch o i Goat! Spuntano festival ovunque, le band hanno occasione di presentarsi, di uscire, di farsi conoscere, di lavorare, di vendere. È assolutamente un bel periodo!
A grandi linee, Heavy Psych Sounds ha già nel nome il genere di musica che pubblica. In qualche modo mi hai già risposto, ma quanto ritieni sia importante, per sopravvivere nel mercato, fornire agli ascoltatori un prodotto orientato ad un tipo di sound ben preciso?
Heavy Psych Sounds non nasce da una necessità, bensì da una passione, dall’amore per questa musica, per tutto il rock ’70, per la psichedelia e quindi a seguire per stoner, doom, sludge, il garage-rock. Con questi generi, come dicevamo, tutto bene; facessi punk, forse le cose sarebbero diverse, lì c’è una evidente flessione. Dopo il buio ventennale di cui ti parlavo prima, comunque, ora che abbiamo qualcosa siamo ben contenti. Secondo me, una band che suona un rock generico e che piace ad un pubblico generico, a meno che non abbia dietro un grossissimo investimento, difficilmente può arrivare da qualche parte, al contrario di quelle band che invece si riferiscono ad un genere ben preciso e si collocano in una particolare nicchia di appassionati.
Dovesse essere che qualcuno ti chiedesse oggi consigli su come aprire una propria etichetta, cosa gli diresti? E ci sono etichette che senti particolarmente vicine a te?
Fermo restando che dovrebbe essere disposto ad investirci un po’ del proprio denaro, senza alcuna certezza di recuperarlo nell’immediato, a qualcuno che volesse imbarcarsi in una simile avventura suggerirei di partire con leggerezza, per divertirsi, ma di farlo in un settore che conosce bene. Questo è stato il mio percorso e non potrei che suggerirgli di partire così. Ci sono moltissime etichette che apprezzo molto, label che una volta vedevo irraggiungibili e con cui oggi, invece, posso misurarmi alla pari, cosa che ovviamente mi fa molto piacere. Penso a etichette come Tee Pee, RidingEasy, Ripple, Small Stone, ma ce ne sono davvero molte.
Se dovessi consigliare ad un ascoltatore ignaro, che volesse avere un quadro indicativo di quello che pubblica Heavy Psych Sounds, quali sono i tre dischi che gli consiglieresti?
Consiglierei tre band: ti direi Black Rainbows in rappresentanza del lato heavy psych, Duel per quello più stoner e Farflung per quello space rock. Quello che pubblico in realtà è abbastanza vario, pur all’interno di un genere di riferimento e basta dare un’occhiata al sito e all’elenco delle band per rendersene conto.
I DISCHI
BLACK RAINBOWS
Stellar Prophecy
Come detto, i Black Raibows sono la band del patron di casa Heavy Psych Sounds, Gabriele Fiori, qui in veste di autore, arrangiatore, produttore, chitarrista e cantante, con il trio poi completato dal bassista Dario Iocca e dal batterista Alberto Croce. Stellar Prophecy è il loro quinto e ultimo album, a cui , per completezza, andrebbe almeno aggiunto lo split coi Farflung citato nell’intervista. Loro si definiscono “italian psych fuzz trio” ed è una definizione che ovviamente ci sta tutta: basta infatti mettere su il disco per essere investiti dalle chitarre ultrafuzzate di Electrify, titolo quanto mai esplicativo. Ma la formula non è monolitica, tanto è vero che Woman ci trascina tra drappeggiature blues seventies, con tanto di organo (sempre Fiori) a farsi largo tra le chitarre; Evil Snake si profila quale rutilante affondo degno dei Kyuss; It’s Time To Die non nasconde i suoi influssi zeppeliniani e Keep The Secret la sua attitudine stradaiola e hard seventies, entrambe influenze miscelate al sentire psichedelico. A tutto ciò vanno poi aggiunte le due mirabili suite, Golden Widow e The Travel: la prima, quasi dodici minuti di durata, è un gorgo lisergico e dilatato che letteralmente risucchia; la seconda, ferma un passo prima di arrivare a dieci minuti, si profila ipnotica e sognante per poi partire verso le più profonde propaggini dello spazio siderale. Basterebbero queste due tracce per consigliare l’acquisto di questo gran disco. (Lino Brunetti)
DOCTOR CYCLOPS
Local Dogs
Sono tre ragazzi italiani dell’Oltre Po: Christian Draghi (canto, chitarra), Francesco Filippini (basso), Alessandro Dallera (batteria). Traggono il nome dal primo film di fantascienza in technicolor del 1939 e sono un “power-trio” innamorato dei Black Sabbath e dei Cathedral, con un sound che ondeggia tra prog anni ’60 e doom degli ’80. In due brani, Stardust e Druid Samhain, il primo decisamente blacksabbathiano, mentre il secondo vira verso derive blues, sono coadiuvati dalla notevole chitarra di Bill Steer (Napalm Death e Carcass). Epicurus presenta ancora stilemi bluesy appesantiti da riff dark, mentre Stanley The Howl è basata su un testo dello scrittore dark Steve Lloyd. Memorabile poi il riff della conclusiva Witchfinder General dove soffia lo spirito dei Led Zeppelin. (Andrea Trevaini)
SONIC DAWN
Into The Long Night
The Sonic Dawn sono tre ragazzi danesi: Emil Bureau (voce, chitarra, sitar), Niels “Bird” Fuglede (basso), Jonas Waaben (batteria, percussioni e backing vocals). Per questo loro secondo disco sono supportati dalla tastiere di Erik Petersson e dal vibrafono di Morten Gronvad. Il blues Six Seven ha una chitarra che rimanda sia a Jimi Hendrix che a Robbie Krieger, mentre il canto di Emil Bureau diventa rauco quel tanto che basta. La bottleneck acustica di Numbers Blue, che poi si distorce elettrica, convince sul merito di questa band che già con l’iniziale Emily Lemon, preceduta da una breve Intro spaziale, ci aveva accolto con uno psychic-sound che rimanda addirittura ai primi Traffic, però in acido. On The Shore ha una twangy guitar che pare venire da molto lontano ed un incedere da Spaghetti Western Soundtrack. Il primo respiro lo tiriamo solo con l’acustica e lieve Lights Left On in cui The Sonic Dawn non si vergognano di riprendere sonorità prog sospese tra Genesis e King Crimson, sempre dei primi anni ’70. I bei tempi passati dei Be Bop DeLuxe vengono riportati alla luce con le sonorità sognanti e jazzate di l’Espionage, dove l’hammond duetta con il vibrafono, in un’accoppiata davvero inattesa. Il viaggio epico, psichedelico, distorto finisce con l’attacco twangy di Summer Voyage, vero masterpiece del disco sospeso tra Tito Tarantula e Ry Cooder. (Andrea Trevaini)
CACHEMIRA
Jungla
I Cachemira sono un trio Spagnolo: Gaston Laine’ (chitarra e voce), Pol Ventura (basso), Alejandro Carmona (batteria). Jungla è il loro primo disco, registrato in analogico su un nastro a 4 tracce. Il loro sound è decisamente psichedelico, sviluppato in 4 brani di lunga durata, dopo una breve Intro, sospesi tra i primi Pink Floyd e Santana degli anni ’60. I Cachemira sono sempre alla ricerca di sonorità lo-fi retrò: se Sail Away presenta riff chitarristici alla Santana, la successiva Ancient Goddess si sviluppa in una lunga cavalcata elettrica, con grande ritmica e improvvisi rallentamenti alla Grateful Dead. La title-track è invece decisamente psichedelica alla Steppenwolf; la finale Overpopulation mostra invece chiare influenze Led Zeppelin. (Andrea Trevaini)
GIÖBIA
Magnifier
I Giöbia sono una bella realtà psichedelica milanese, una delle migliori in circolazione, attiva ormai da circa 20 anni, formata da Stefano Basurto (canto, chitarra), Saffo Fontana (tastiere, canto), Stefano Betta (batteria), Paolo Basurto (basso). Questo disco è di fatto la ristampa del loro disco del 2015, detto per inciso, un gran disco, che rimanda ai 13th Floor Elevator, alla psichedelia spaziale degli Hawkwind, con tanto di chitarre fuzz e un approccio jam alla Grateful Dead che li porta a incidere brani come Sun Spectre di 15 minuti, mentre nella iniziale This World Was Being Watched Closely troviamo un campionamento di Orson Welles, tratto dalla “Guerra dei Mondi”. The Stain è psichedelico-beatlesiano-acida, mentre Lentamente la luce svanirà è un altro brano spaziale, ipnotico e affascinante. Anche loro registrano rigorosamente in analogico, anche con strumenti d’epoca. Questa ristampa, abbellita da un nuovo artwork ad opera di Laura Giardino, presenta una nuova e più chiara masterizzazione, oltre alla bellissima cover di Magic Potion degli Open Mind, non contenuta nella precedente edizione. Su Backstreets of Buscadero, l’album era già stato recensito anche qui (Andrea Trevaini)
DEADSMOKE
Mountain Legacy
Album numero due per gli italianissimi Deadsmoke, trio chitarra, basso, batteria oggi divenuto quartetto con l’ingresso ai synth di Claudio Rocchetti degli In Zaire. Mountain Legacy è un album fatto di monolitici riff metallici evocanti scenari desertici ed apocalittici come quello ritratto sulla bellissima copertina. La psichedelia non è certo estranea dal pentagramma della band, ma viene filtrata dal plumbeo rifferama doom/sludge, pienamente evidente nella dolorosa e lunghissima discesa agli inferi della title-track, sul quale il synth fa spirare venti agghiaccianti e mortiferi, in tandem col tono oscuro della voce, prima che il tutto si sciolga in un’esaltante ed allucinatoria cavalcata psych. È questo l’approdo di un album capace di mostrare le sue ottime carte anche nei pezzi che l’avevano preceduto, dalla rallentata e fuzzata Endless Cave, passando per l’ondivaga e inquietante Hiss Of The Witch, per l’incalzante Emperor Of Shame, per le obnubilanti spirali di Wolfcurse, per le folate di feedback che insinuano una melodia chitarristica degna di Harvestman in Forest Of The Damned. (Lino Brunetti)
LORDS OF ALTAMONT
The Wild Sounds Of Lords Of Altamont
Dal mio punto di vista, se non è un colpaccio questo, non saprei quale altro potrebbe essere: accaparrarsi in esclusiva i Lords Of Altamont! Jake Cavaliere l’abbiamo da non molto visto in Italia insieme ai Sonics. Qui riprende in mano le redini della sua band e con The Wild Sounds Of Lords Of Altamont tiene in tutto e per tutto fede al titolo scelto per questo loro sesto album, senza dubbio fra i vertici della loro intera produzione. Proto-punk debitore di MC5 e Stooges, hard rock’n’roll garagista e selvaggio, follia crampsiana, invettive soulish sputate fuori in un coacervo di infuocate chitarre elettriche, il ficcante organo Farfisa del leader ed un ritmo che continua a spingere e pulsare. Ancora oggi ho ricordo di un loro concerto come uno dei più divertenti e scatenati fra quelli che abbia mai visto. Queste undici, nuove, scorticate canzoni – quasi sempre sotto i tre minuti di durata – non si limitano a perpetrare al meglio un’idea immortale di rock’n’roll, ma mostrano da una parte quanto Cavaliere sia uno che la materia la conosce veramente bene (la scrittura è ottima), e dall’altra che l’attuale versione della band è veramente al top in termini di forza esecutiva e good vibrations (notevolissimo il chitarrista Dani Sindaco). Manco a dirlo, consigliatissimo! (Lino Brunetti)