L’ultimo album dei Mudhoney, Digital Garbage, uscito nel 2018, ci mostrava Mark Arm e soci in forma smagliante, niente affatto intaccati dal passare del tempo. Dalle stesse session di quel disco arrivano le sette canzoni che oggi riempono Morning In America, un EP ancora una volta potente e al passo coi tempi. Il fatto è che l’attuale situazione politica americana sta fornendo buon materiale per mantenere alta l’incazzatura della band, che infatti non manca di farsi portavoce di affondi politici sia nel malatissimo blues melmoso che titola il dischetto, che nel punk affilato e fulminante Creeps Are Everywhere, ma in fondo lungo un po’ tutta la scaletta. In parte inediti, in parte provenientidagli ormai introvabili singoli usciti assieme all’ultimo album un anno fa, i pezzi che compongono il programma allineano cover per intenditori (Ensam I Natt della band di culto svedese Leather Nun), hard blues velenosi (Vortex Of Lies, la conclusiva One Bad Actor), punk’n’roll che non lasciano scampo come la bellissima Let’s Kill Yourself Live Again, affondi degni dei migliori Stooges come l’acida Snake Oil Charmer. Della generazione grunge i Mudhoney si stanno rivelando non solo la band più longeva, ma anche quella artisticamente più credibile, non mostrando nessun reale segno di cedimento e, anzi, continuando a palesarsi alfieri del più crudo e autentico rock in circolazione. Teniamoceli stretti!
Eccolo qui, finalmente, il tanto atteso disco dei Tool. Tredici anni dopo l’ultimo lavoro si ripresentano con Fear Inocolum infilando un altro tassello indispensabile nella loro discografia. Ecco, l’ho detto subito, tanto per sgombrare subito il campo e poter parlare liberamente. Sei dischi tutti imprescindibili, sempre riconducibili alla loro visione musicale ma comunque profondamenti diversi uno dall’altro, anche se a un primo disattento ascolto possono sembrare molto simili. Non è così: si va dal proto-grunge di Opiate al progressive-grunge di Undertow, si prosegue con la pesantezza metallica di Aenima per arrivare all’apoteosi tecnica di Lateralus, giungendo quindi al rarefatto metal di 10.000 Days. Ora Fear Inocolum si attesta su derive molto progressive (il fantasma degli Yes di Drama, dei Rush di Hemispheres, dei King Crimson di The Power To Believe aleggia in più parti del lavoro) ma per contro si lascia andare anche a ritmiche più serrate rispetto a 10.000 Days con riffoni che ricordano i Meshuggah nelle parti più dure e gli Isis nella costruzione di momenti enormi di pathos esplosivo. Non si dovrebbe prescindere, parlandone, dal ricordare quanto la band abbia giocato sull’attesa, estenuando e riducendo a quasi una barzelletta ogni nuova notizia sulla sua presunta pubblicazione. Non si dovrebbe prescindere nemmeno dal fatto che tredici anni fa i Tool potevano avere una parte centrale negli ascolti di qualcuno ma che ora le direzioni musicali di quella stessa persona potrebbero essere radicalmente cambiate. Insomma, il rischio di un’album fuori tempo massimo c’è tutto e queste motivazioni, per i critici, sono sacrosante. Infine il rilascio di un’unica versione CD limitata (per ora) ad un prezzo non abbordabile da tutti (seppur comprensiva di un packaging da paura, con schermo integrato per contenuti visivi inediti) potrebbe far storcere il naso a più di una persona. Ma il detrattore, oggettivamente, non può imputare alla band scarsa qualità, di aver fatto il compitino per le masse o peggio ancora di essersi venduti. Qui i Tool sfornano un lavoro decisamente più omogeneo rispetto a 10.000 Days, andandone a recuperare le sonorità ma aggiungendo compattezza nonostante una decisa virata verso un songwriting più dilatato (i brani sono tutti oltre i dieci minuti tolti gli “intermezzi” di collegamento) e per cementare il tutto hanno lavorato molto sulla parte strumentale. Proprio per questo Maynard James Keenan è decisamente più frenato nelle sue parti vocali, rinunciando completamente alle sue grida, pur inserendosi a meraviglia nelle melodie ultra psichedeliche della chitarra di Adam Jones, strepitoso nel cesellare una quantità enorme di riff a rilascio lento, sfornando anche assoli inusuali per quanto fatto finora nella band. Ma la parte più evidende nel cambiamento risulta essere una base ritmica che Justin Chancellor al basso imbastisce da par suo sulla batteria dirompente di Danny Carey, vero e proprio motore di tutto l’album. Il suo drumming potente, contornato da una serie innumerevole di effetti percussivi, propone la vera chiave di lettura di Fear Inocolum. Per quanto riguarda le singole canzoni non voglio dilungarmi oltre e prendo una precisa presa di posizione: in un epoca in cui Spotify (del quale sono un assiduo frequentatore) e l’aquisto di un singolo pezzo in rete la fanno da padrone, qui ci sono 80 minuti di musica nei quali ogni singola ultima nota di una canzone si immette alla perfezione nella prima di quella successiva, creando un flusso continuo, un vortice bellissimo da ascoltare al buio, tutto d’un fiato e a volume alto. Bentornati, nella speranza che le prossime pubblicazioni abbiano tempi da comuni mortali e non da film di fantascienza su dilatazioni spazio temporali.