Best 2019

Più che su riviste, siti o webzines – che come sempre sono pieni di recensioni, articoli e interviste – è tra molti appassionati di musica sui social che serpeggia il luogo comune secondo il quale non uscirebbe più musica interessante. Per quello che mi riguarda è vero esattamente il contrario: ne esce troppa!!!

La verità è che essere realmente convinti che non ci sia più buona musica in giro non può che significare che di ciò che esce oggi non si ascolta nulla o, forse peggio, che lo si fa esclusivamente con orecchie ancora ferme alla musica del passato, rimanendo del tutto refrattari a qualsiasi cambiamento. Forse è vero che manchino i capolavori capaci di segnare un’epoca e che suoni autenticamente nuovi latitino un po’ in tutti i generi, ma ciò non toglie che escano ancora tonnellate di album capaci di emozionare, esaltare, incuriosire.

Detto questo, come ormai da molti anni a questa parte, voler sintetizzare un’annata con una trentina di titoli è impresa tra il folle e lo sciocco, ma proprio per questo è sempre così divertente farlo. La lista che troverete qui sotto è ovviamente frutto di ascolti parziali – pur avendo ascoltato centinaia di album nuovi, quanti me ne sarò persi che avrebbero potuto finire in questa lista? – del tutto soggettiva, che non può che essere specchio dei miei gusti e di quello che alla fine ho ascoltato di più. Come sempre, quindici titoli sono in maggior evidenza, mentre gli altri quindici sono potenzialmente intercambiabili con altri.

Il mio disco dell’anno è probabilmente quello dei Purple Mountains di David Berman, un disco straordinario a prescindere dalla fine del suo sfortunato autore, con canzoni a dir poco fantastiche musicalmente, melodicamente e liricamente. Subito a ruota l’album dei Lankum, un pugno di canzoni intente a rivisitare il folk che mi sono entrate nel profondo in un battito di ciglia e che proprio non riesco a smettere di ascoltare. Per molti versi questo è stato l’anno dei Big Thief, due dischi uno più bello dell’altro a dimostrarlo. Della classe di personaggi come Bonnie “Prince” BillyBill Callahan, Tim PresleyCesare Basile Vinicio Capossela non c’è da dir quasi nulla, se non che tutti i loro nuovi lavori sono vette nelle rispettive discografie. Due dischi che indubbiamente hanno segnato l’annata sono quelli di Nick Cave e LINGUA IGNOTA, due album dolorosi e difficili che ho fatto una certa fatica ad assorbire e a farmi piacere, ma che alla fine mi hanno definitivamente conquistato con la loro intensità. Per il resto sempre immensi gli Swans, anche in questa loro ennesima, nuova incarnazione, come grandi si sono dimostrati i Mercury Rev nella loro rivisitazione del dimenticato capolavoro di Bobbie Gentry, The Delta Sweete. Con All Mirrors Angel Olsen dovrebbe aver convinto ormai tutti del suo immenso talento, ma sono molte le cantautrici che ci hanno donato ottimi lavori nel 2019: qui ho messo in evidenza Weyes BloodJulia JacklinAldous HardingCate Le BonAmanda Palmer, a cui si potrebbe idealmente aggiungere l’esordio di una Kim Gordon finalmente convincente nel suo post Sonic Youth, ma nella playlist ne troverete altre. Per quel che riguarda il resto, in lista trovate un po’ di giovani band come Fontaines D.C., Vanishing Twin Diiv, la poesia di Kate Tempest, le sperimentazioni futuriste di Holly Herndon, il jazz spaziale dei Comet Is Coming, outsider come Tropical Fuck Storm 75 Dollar Bill, i sempre enormi Sleaford Mods, due modi distanti di vedere la canzone d’autore come messo in chiaro da Craig Finn Bon Iver.

Il consiglio, comunque, rimane sempre quello di farvi un giro per la playlist che trovate alla fine dell’articolo, dove i titoli arrivano a 112 (per quasi nove ore ininterrotte di musica) e neppure quella riesce a fare una panoramica completa dell’universo musicale targato 2019.

Essendo anche a fine decennio, non è improbabile che prossimamente si tenti di fare un sunto anche di questi “Anni Dieci”. Vedremo, intanto buon ascolto!

Lino Brunetti

I QUINDICI

PURPLE MOUNTAINS – Purple Mountains

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LANKUM – The Livelong Day

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BONNIE “PRINCE” BILLY – I Made A Place

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SWANS – leaving meaning.

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BIG THIEF – U.F.O.F./Two Hands

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THE COMET IS COMING – Trust In The Lifeforce Of The Deep Mystery

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MERCURY REV – Bobbie Gentry’s The Delta Sweete Revisited

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LINGUA IGNOTA – CALIGULA

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NICK CAVE AND THE BAD SEED – Ghosteen

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ANGEL OLSEN – All Mirrors

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75 DOLLAR BILL – I Was Real

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FONTAINES D.C. – Dogrel

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TROPICAL FUCK STORM – Braindrops

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DIIV – Deceiver

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KATE TEMPEST – The Book Of Traps And Lessons

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GLI ALTRI QUINDICI

BILL CALLAHAN – Shepherd In A Sheepskin Vest

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TIM PRESLEY’S WHITE FENCE – How To Feed Larry’s Hawk

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CATE LE BON – Reward

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KIM GORDON – No Home Record

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VANISHING TWIN – The Age Of Immunology

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WEYES BLOOD – Titanic Rising

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AMANDA PALMER – There Will Be No Intermission

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CRAIG FINN – I Need A New War

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JULIA JACKLIN – Crushing

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CESARE BASILE – Cummedia

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SLEAFORD MODS – Eton Alive

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VINICIO CAPOSSELA – Ballate Per Uomini E Bestie

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ALDOUS HARDING – Designer

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HOLLY HERNDON – PROTO

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BON IVER – i,i

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PLAYLIST

GOSPELBEACH “Let It Burn”

GospelbeacH
Let It Burn
Alive Naturalsound Records

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Anche se non fosse uno dei più brillanti dischi di Americana usciti di recente, il nuovo album dei GospelbeacH, Let It Burn, meriterebbe tutta l’attenzione possibile solo per il fatto di essere uno degli ultimi progetti a cui ha contribuito Neal Casal prima della sua prematura dipartita avvenuta lo scorso 26 agosto. Chris Robinson lo considerava un caro amico e un fratello e di sicuro i GospelbeacH la pensano allo stesso modo, perché secondo chi l’ha conosciuto, Neal Casal era un’anima gentile e una persona affabile e modesta nonostante fosse un musicista di grande esperienza e un chitarrista pieno di passione e talento, come dimostrano la sua lunga carriera (in primis come cantautore e poi con Chris Robinson Brotherhood e The Cardinals, la miglior formazione che quel capriccioso di Ryan Adams abbia mai avuto) e gli ispirati assolo che sparge nelle canzoni di Let It Burn, terzo disco di studio dell’ensemble californiano. Neal Casal era capace di fare tutta la differenza in una rock’n’roll band e il cantante e bassista Brent Rademaker e il batterista Tom Sanford dovevano esserne consapevoli quando nel 2014 meditavano di formare un nuovo gruppo con cui inseguire il sogno che lo scioglimento dei Beachwood Sparks aveva infranto, perché il primo nome che gli è venuto in mente è stato proprio quello del chitarrista, che ha contribuito all’esordio del 2015 Pacific Surf Line. I molteplici progetti in cui era coinvolto, l’hanno poi tenuto lontano dalla realizzazione del secondo album Another Summer Of Love e del live Another Winter Alive, ma le porte dei GospelbeacH sono sempre rimaste aperte dato che Let It Burn vede il suo ritorno in formazione accanto alla chitarra di Jason Soda e alle tastiere di Jonny Niemann. Il folk rock dei Byrds e il country cosmico dei Flying Burrito Brothers sono da sempre dei solidi punti di riferimento della musica di Brent Rademaker fin dai tempi dei Beachwood Sparks, così come devono esserlo stati per Tom Petty ed è proprio Let It Burn che compie la miglior sintesi possibile tra le passioni pregresse e lo scintillante rock’n’roll degli Heartbreakers, svelando una vena melodica mai tanto vivace e un suono più dinamico e elettrico rispetto al passato. Chiunque spenda una lacrima ripensando a dischi come Full Moon Fever e Into The Great Wide Open, troverà un certo conforto nell’echeggiare vintage delle chitarre e nelle deliziose atmosfere californiane che riempiono le canzoni di Let It Burn, che si tratti di ariosi midtempo Americana come la grandiosa Bad Habits dove l’estro di Neal Casal si fa sentire, di spumeggianti rock’n’roll come I’m So High o di incantevoli ballate come la romantica Baby (It’s All Your Fault). Può capitare che i GospelbeacH si abbandonino alla leggerezza di melodie che fanno venire in mente quanto spopolava nelle classifiche di metà anni ’70 come accade quando partono le raffinatezze pop di Get It Back e di Fighter che evocano i fasti dei Fleetwood Mac del periodo Rumours, ma in generale in Let It Burn ci sono più chitarre che orchestre, più nervi che sentimenti, almeno a giudicare da cristallini folk rock come Dark Angels, nervosi power pop come Nothing Ever Changes o elettrizzanti inni rock come la titletrack. Purtroppo i GospelbeacH non avranno la possibilità di fare altri dischi come Let It Burn: un motivo in più per piangere la triste scomparsa di un chitarrista straordinario come Neal Casal.

Luca Salmini

PAN•AMERICAN “A Son”

PAN•AMERICAN
A Son
Kranky

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Chiuso definitivamente nel 2001 il capitolo Labradford – una delle band cardine del suono Kranky, sei album e qualche EP tra il 1993 e il 2000 – in qualche modo riattivato come Anjou per due album col solo Robert Donne, Mark Nelson è oggi prevalentemente assorbito dalla sua creatura più intima e personale, ovvero da quei Pan•American che di fatto sono una one man band, un moniker attraverso cui veicolare la propria visione musicale. A Son è l’ottavo album a portare stampigliata in copertina la sigla e arriva a sei anni di distanza dal precedente, un periodo di tempo in cui Nelson è andato a ritroso nel tempo, alla ricerca delle proprie radici. Sarà per quello che, forse mai come ora, un suo disco era stato così aderente al formato canzone, così vicino a un’idea di folk music, sia pur filtrata dal suo peculiare stile e dalla sua personalità. L’ipnosi del più ovattato e meditativo post-rock e i vibranti e dronanti riverberi dei filamenti ambientali a cui Nelson ci ha in passato abituato non scompaiono, però in questa raccolta la centralità ce l’hanno essenzialmente la sua chitarra e la sua voce, intente a tratteggiare un quadro di malinconica ed elegiaca introspezione, a partire da quella Memphis Helena che, dopo il breve intro evocativo Ivory Joe Hunter, Little Walter, per oltre sette minuti ci traghetta in un country desolato e ambientale, in cui lo spleen prende definitivamente corpo in una lunga e languida coda strumentale. Scritto e registrato in solitaria nella sua casa in Illinois, a Evanston, A Son è un disco che si dipana attraverso le spettrali note di chitarra di una Sleepwalk Guitars in cui echeggiano fantasmi in lontananza; tramite canzoni dal cuore folk, ma attraversate da folate d’elettricità che ricordano il Neil Young di dischi come Dead Man o Le Noise (le bellissime Brewthru e Muriel Spark); in strumentali che rendono vivida la solitudine di un ambiente che non fa sconti, illanguidendo tristemente un male interiore che trova specchio adeguato in ciò che gli si para davanti (Dark Birds Empty Fields). In Drunk Father la voce è appena un mormorio che si perde tra le vibrazioni, i riverberi e le bavi dronanti di landscapes sonori quieti, eppure covanti tensione. Il finale è scandito dal tintinnare di corde di Kept Quiet e dal definitivo abbandonarsi al fluire delle cose nella lunga e ambientale Shenandoah, sugellando con un abbraccio sfumante al silenzio un disco perfetto per abbandonarsi ad esso nelle fredde sere d’inverno.

Lino Brunetti

PLATEAU SIGMA “Symbols – The Sleeping Harmony Of The World Below”

PLATEAU SIGMA
Symbols – The Sleeping Harmony Of The World Below
Avantgarde Music

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I Plateau Sigma, da Ventimiglia, giungono al loro terzo disco con la consapevolezza di quanto fatto fino ad ora, con la forza di mille battaglie combattute per affermare la propria musica. Ed hanno concepito un monolite incredibile che raccoglie le esperienze passate mettendole al servizio di una nuova creatura che ne è la summa totale: decisamente e senza nessun rimorso si appropriano del sound da loro stessi costruito in passato e lo ampliano ancora per consegnarci il loro disco migliore. Prodotto in maniera esemplare da Francesco Genduso che dei Plateau Sigma è anche voce e chitarra (gli altri componenti sono Manuel Vicari – voce/chitarra, Maurizio Avena – basso, Nino Zuppardo – batteria) e masterizzato da Magnus Lindberg (Cult Of Luna) si presenta con suoni scintillanti e completi, che fanno da perfetto compendio alle composizioni ultraterrene della band. Stiamo parlando di doom, quello pesante e che dovrebbe essere senza respiro, quel doom che fa di una lentezza esasperante la sua forza, quel doom che a volte ti annichilisce e diventa insostenibile, quel doom che ricorda ad esempio una misconosciuta band d’altri tempi: i finlandesi Thergothon. Se non li conoscete recuperate il loro imperdibile Streams For The Heavens ed abbiatene paura. Prima ho detto apposta che questo doom dovrebbe essere senza respiro ed in effetti la sensazione è quella ma, c’è un ma, i Plateau Sigma in tutto questo ci mettono del loro, inserendo clamorosi inserti new wave che danno vita la dove sembra esserci solo morte. In quest’ottica A Parody Of Medea è un brano strepitoso con la dicotomia growl/voce pulita che tante volte stanca ma che invece qui centra il bersaglio in pieno e che fa il paio con la delicata e straniante melodia di The Child And The Presence posta in chiusura la quale ancora conferma la versatilità della band ligure. Se poi ci trovate dei richiami agli Ulver più onirici allora siamo sulla stessa lunghezza d’onda. Sparse per i solchi la carica brutale di Heterochromia, la pesantezza doom di Ouija and the Qvantvm, la granitica The Moon Made Flesh, l’imperante lirismo melodico di The White Virgin, quattro minuti di puro terrore con escalation finale in territori heavy/shoegaze. Un disco perfetto.

Daniele Ghiro