Sunn O))) live a Trezzo sull’Adda, 26/1/2020

Venti metallici sul Live Club di Trezzo sull’Adda la sera del 26 gennaio 2020. A scaldare gli animi ci pensano The Secret, band triestina nota per essere nel catalogo della prestigiosa Southern Lord, rimasta ferma qualche anno, ma ormai stabilmente tornata a propagandare il suo verbo in bilico tra death metal, hardcore e sulfuree nubi dark. Confesso che non è proprio il mio genere, ma l’assalto che i cinque mettono in campo è indubbiamente dotato di forza e potenza e non lascia indifferenti. Il mio gradimento, per puro gusto personale, va a quei momenti in cui rallentano sfiorando abissi doom, ma è soprattutto tramite un suono furioso che The Secret si esprimono, agguantando il plauso dei presenti.

Durante il loro show, il locale non è ancora del tutto pieno, ma un po’ alla volta le presenze aumentano di numero, diventando quasi sorprendenti se consideriamo la natura della musica dei Sunn O))). Loro, si sa, sono una delle band più divisive in circolazione. In tantissimi li considerano tra i maggiori innovatori della musica estrema in circolazione, capaci di fondere avanguardia, metal, minimalismo, drone music, in quello che per sintetizzare è stato definito drone metal, un’idea di musica di certo nata su quanto fatto agli inizi della loro carriera da una band quale gli Earth, ma poi portata da Stephen O’Malley e Greg Anderson a un livello ancora più ardito e sconvolgente. Molti altri invece pensano che i due abbiano avuto sempre e solo un’unica idea e l’abbiano perpetrata ben oltre il limite della maniera. Diciamo che in qualche modo c’è del vero in entrambe le dichiarazioni, ma che nell’insieme, pur avanzando per sfumature, i Sunn O))) siano finora riusciti a mantenersi interessanti anche grazie alle numerose collaborazioni (memorabile quella con Scott Walker, ma ci sono anche quelle con gli Ulver, coi Boris o quelle con i tanti ospiti che da un certo punto in poi hanno accolto all’interno dei loro dischi), con le quali hanno operato piccoli aggiustamenti e sottili variazioni d’atmosfera.

Quel che è certo è che un loro concerto è qualcosa di molto più simile a un’esperienza mistica, a una seduta d’ipnosi, a un rituale volto alla trascendenza, che non a un normale spettacolo musicale. Anche in questo caso è un prendere o lasciare e per godere davvero dell’esperienza bisogna accettarne le regole e lasciarsi andare al flusso sonoro dal quale si verrà inesorabilmente investiti. In formazione a cinque, con due tastieristi (uno anche al trombone) e un bassista a supportare le chitarre di O’Malley e Anderson, i Sunn O))) si presentano sul palco incappucciati come di rito e immersi in una nebbia fitta che non cesserà di avvolgerli fin quasi a nasconderli alla vista per le quasi due ore di show. Lentezza e asfissiante ripetizione, ecco il modo in cui inducono alla trance e a quell’oscura forma di spirituale abbandono a cui mirano. Il riff pachidermico, profondissimo, iper distorto e al rallentatore con cui saturano l’aria per tutta la prima ora è puro suono che scuote le viscere, vibrazione che altera il senso del tempo e offusca le sinapsi. Non c’è una reale progressione, tutto si gioca sui volumi, sui minimi cambiamenti di velocità e sul modo in cui i radi accordi, l’inserimento dei synth, gli armonici e i riverberi interagiscono tra di loro portando il concetto di psichedelia ai suoi limiti estremi.

Dopo un’ora il tutto fluisce nei venti minuti più musicali di tutto il concerto: entra in scena il trombone in quella che è quasi una parte solista, mentre le chitarre vi si avviluppano attorno per quella che è un’idea di astratta psichedelia dagli echi jazzati (è Alice, pezzo che stava su Monoliths & Dimensions). L’effetto è deflagrante, perché dopo un’ora di doom immutabile, tutto ciò dà l’impressione dell’irrompere di una band swingante (anche se così non è, in realtà). È in questi momenti che il potenziale pressoché infinito dei Sunn O))) viene fuori, perché la loro è una musica che potenzialmente può ibridarsi con moltissime altre (e il sottoscritto sogna una collaborazione con altri grandi minimalisti quali The Necks).

Questa lunga parentesi un po’ alla volta si sfilaccia tornando a coagularsi nuovamente in un riff sepolcrale, che stavolta dura però meno, lasciando il finale alle atmosfere dell’ultimo Pyroclast, ovvero tra le distorsioni imponenti di una drone music densa di feedback e frequenze trapananti che per una mezz’ora buona ci traghetta verso il mistico finale (tra l’altro, e non so se è stata una cosa voluta o me la sono immaginata io, le luci sparate sulle coltri di fumo che avvolgevano il palco avevano gli stessi colori della copertina di Life Metal, l’altro disco pubblicato dal duo nel 2019). Dopodiché le luci si accendono, la nebbia si dirada e i cinque s’inchinano di fronte al pubblico in parte annichilito, che finalmente può esplodere in un applauso. Come che la pensiate, almeno una volta un concerto dei Sunn O))) è un’esperienza da provare.

Lino Brunetti

Tutte le foto © Lino Brunetti

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RICHARD DAWSON “2020”

RICHARD DAWSON
2020
Weird World Record Co.

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Arrivo con qualche mese di ritardo sull’uscita di questo nuovo disco di Richard Dawson, ma ormai esce talmente tanta roba che anche focalizzarsi sulle cose che m’interessano diventa problematico. Il singer-songwriter di Newcastle è da sempre considerato facente parte del panorama folk contemporaneo, ma basta accostarsi anche solo a uno dei suoi vari lavori per rendersi conto che se pure così è, comunque lo è da autentico outsider. La sua musica ha a poco a poco abbandonato l’allucinata alterità avant dei primi album, in favore di una forma canzone probabilmente più palatabile, il che non vuol dire però necessariamente più facile e immediata. Diciamo che la sua idea bizzarra e del tutto personale di folk si è progressivamente imbastardita attirando al suo interno elementi di prog smaccatamente britannico, suggestioni medievaleggianti, un melodiare capace a tratti di arrivare al pop, una certa arzigogolatura a là Zappa, persino elementi mutuati dall’hard rock e dal metal, come vedremo. Il fatto è che la scrittura musicale e melodica di Dawson è tutt’altro che lineare e ogni suo pezzo pare potenzialmente composto dall’unione di due o tre canzoni diverse. Le sue melodie sono un saliscendi imbizzarrito in cui si può passare dal falsetto al tono più profondo in un lampo e solo a tratti si coagulano in affondi pop propriamente detti (qui l’esempio migliore ci arriva dal ritornello di una Fulfilment Centre altrimenti in continua divagazione zappiana o da una Two Halves che nell’insieme appare un po’ più dritta del resto del programma). 2020, il cui titolo anticipava di qualche mese l’anno e il decennio appena iniziati, è un disco liricamente completamente calato nell’oggi, i cui testi raccontano una serie di storie narrate in prima persona, le quali messe una in fila all’altra tratteggiano un quadro della vita dei suoi personaggi a mezza via tra satira velenosa, triste desolazione e istintiva partecipazione emotiva. Da questo teatrino in bilico tra farsa e tragedia esce fuori un’idea del contemporaneo piuttosto livida, dove una parvenza di comunità ancora tende a resistere, ma dove l’odio e l’egoismo appaiono sempre più difficili da contrastare. In questo senso è il singolo Jogging a esemplificare il tono narrativo dell’album, tramite un hard rock potente, ma sui generis, il cui testo vede il protagonista cercare di capire se è lui paranoico, oppure se ciò che lo circonda è davvero permeato d’odio e risolve il tutto, con una scrollata di spalle, preparandosi a correre la maratona di Londra. Musicalmente qui Dawson fa tutto da solo e suona tutti gli strumenti (unica eccezione per le registrazioni del vento operate da Chris Watson). Come dicevamo c’è parecchio prog, come subito evidenziato dalla nerboruta Civil Servant messa in apertura, ma pure dei pezzi acustici dal gusto medievale (The Queen’s Head), delle ballate dal profilo ondivago (Heart Emoji) o dei brani che nel mazzo infilano un riff hard stradaiolo in combutta col folk-prog, con tanto di synth un po’ tamarri, che manco in un disco dei Black Mountain (Black Triangle). Personalmente il Dawson che preferisco è quello più semplice, quello voce e chitarra qui presente nella sola Fresher’s Ball, ma 2020 è un disco parecchio interessante, che gli amanti dei generi citati dovrebbero prendere in considerazione, pur sapendo che non proprio lavoro per ascolti distratti trattasi. 

Lino Brunetti

IMAGINATIONAL ANTHEM vol.9

A.A.V.V.
Imaginational Anthem Vol. 9
Tompkins Square Records

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Chi meglio di un chitarrista saprebbe comprendere a fondo il lavoro di altri chitarristi e coglierne i talenti espressi o nascosti? Deve trattarsi della stessa domanda che si è posta la Tompkins Square Records nel momento in cui affida a Ryley Walker il nobile compito di selezionare gli artisti per Imaginational Anthem Vol. 9, l’ultimo volume della serie inaugurata nel 2005 con l’intenzione di fare il punto sullo stato dell’arte della chitarra contemporanea e dare visibilità a musicisti ancora poco o per niente conosciuti. Chiunque si stia chiedendo quale sia il futuro dello strumento, in questo nono volume di Imaginational Anthem troverà esaurienti risposte, perché la ricerca svolta da Walker porta a galla 11 chitarristi (9 dei quali sconosciuti perfino ai preparati titolari dell’etichetta) tutti da scoprire, che con un brano a testa provano a impressionare gli ascoltatori con quanto ha colpito il curatore del progetto, che in proposito sottolinea: “...Ho fatto ricerche in lungo e in largo e i risultati sono fantastici…”. Basta ascoltare uno qualsiasi dei dischi di Ryley Walker, per intuire che non avrebbe potuto essere altrimenti e che la visione e l’approccio allo strumento del chitarrista di Chicago sono abbastanza ampi da comprendere artisti con stili e attitudini diverse in modo da comporre una soddisfacente e per lo meno estrosa panoramica su quanto succede oggi e probabilmente domani nel mondo delle sei corde. Ogni scelta è stata fatta con l’intento di mettere in luce approcci, stili, strumenti, toni, tecniche e feeling diversi e non sorprende che i nomi contemplati siano quasi o del tutto sconosciuti, perché quello dei chitarristi è un mondo a parte e anche se nessuno di questi musicisti è mai apparso sulla copertina di Rolling Stone, non si tratta evidentemente di assoluti principianti: molti vantano una lunga carriera nelle zone d’ombra del music business, dove da anni sbarcano il lunario tra ricerca e sperimentazione; altri sono magari poco più che debuttanti in quanto a discografia ma non per quel che riguarda l’esperienza. L’unica incognita è il misterioso Mosses che apre la raccolta con il raga psichedelico Om Ah Hung, affascinante al punto da evocare le atmosfere dei dischi di Robbie Basho, altrimenti Imaginational Anthem allinea un manipolo di veterani della scena avant jazz di Chicago come Shane Parish con il cristallino fingerpicking di una spaziosa Leicester Hwy e Matthew Sage che duetta con le note di un pianoforte nella pastorale Camaro Canyon; talenti in erba come Eli Winter che intreccia folk e bluegrass in una bucolica e briosa Woodlawn Waltz e la brava Kendra Amalie, che accompagnata da una band, fruga tra la polvere degli Appalachi con una scenografica e spettrale Boat Ride oppure sperimentatori come Peter Fosco che mescola folk e misticismo in una meditativa Variations On Themes For Blind Dogs, fino ad autentici visionari come la giovane Fire-Toolz che processa attraverso l’elettronica gli accordi di una straniante World Of Objects o come Dave Miller che erutta colate di feedback in una abominevole Seedlings che parrebbe sfuggita a Metal Machine Music. Non potevano mancare i preziosi virtuosismi dei primitivisti con la meravigliosa e faheyana I Used To Sing suonata con grande estro da Matthew Rolin e con la cooderiana e desertica Knots Where Never Was da parte di un’ispiratissimo Lucas Brode, mentre a scombinare le carte c’è la cantautrice newyorkese Dida Pelled, che canta una deliziosa ballata all’acido lisergico dagli sfondi sixties come Walkin’ My Cat Named Dog, resuscitando l’euforia della Summer Of Love. Più che abbastanza per avere il quadro della situazione, Imaginational Anthem Vol. 9 stuzzica la curiosità dell’ascoltatore senza sedarne pienamente gli appetiti, aprendo la strada a ulteriori approfondimenti e ricerche intorno agli artisti contemplati e in tal modo soddisfacendo i propositi di operazioni di questo tipo.

Luca Salmini

SKYE WALLACE “Skye Wallace”

SKYE WALLACE
Skye Wallace
Self-released

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Bionda, scatenata e bellissima, Skye Wallace ha l’aria di una diva, ma, benchè in cima a un palco facciano una certa differenza, le apparenze non sembrano essere il punto, almeno non quando canta e suona la chitarra come se il cielo fosse il limite, che è quanto succede nel nuovo omonimo album, il quarto della sua carriera e quello che potrebbe coronare il sogno, visto che a pochi mesi dalla pubblicazione è già stato eletto tra i 4 migliori dischi canadesi del momento secondo il quotidiano The Globe And Mail. C’è anche chi la considera già “...un tesoro nazionale…” anche se la musica di Skye Wallace non fa venire in mente i modi gentili della cantautrice e la placida solitudine delle foreste del Canada, ma la frenesia del rock’n’roll e il volume assordante di tutti i concerti con cui la giovane artista deve aver rodato i meccanismi del suono elettrico e febbricitante che eplode con tanto fragore nelle canzoni del nuovo album. Quando era ancora poco più che una bambina e si esercitava con scale e gorghecci, Skye Wallace deve aver fatto sogni da cantante d’opera, ma l’adolescenza e la scoperta del punk la trasformano in una specie di folksinger e a questo punto, avviata alla maturità, sembra davvero essere diventata la ragazza più eccitabile di Toronto con un misto di seduzione e furore rock’n’roll che potrebbe evocare la Suzi Quatro degli anni ’70 e la Chrissie Hynde degli ’80 o almeno è l’impressione che suscitano il roboare emo di una Death Of Me che avrebbe scalato le classifiche un paio di decenni fa e oggi spopola sulle college radio, lo scintillio glam di una potente There Is A Wall o i coretti e le chitarre vintage di un’incandescente Body Lights The Way, che potrebbe appartenere al repertorio degli ultimi Black Keys. Questo omonimo quarto album suona di sicuro come il lavoro più maturo e eccitante dell’artista canadese, forse grazie al contributo di una solida band che non fa economia in quanto ad elettricità e comprende il chitarrista e produttore Devon Lougheed, il batterista Brad Kilpatrick, la violinista Rachael Cardiello e il bassista Bryn Besse. D’altro canto, se Skye Wallace ha alzato il volume delle chitarre, non ha certo abbassato il tenore del songwriting che si ispira agli scenari di un passato remoto in una Coal In Your Window cantata come avrebbero fatto le Breeders; lamenta storie d’amore impossibili in una sofferta elegia post punk come Suffering For You, mormora di solitudine in una caustica Stand Back, coniuga femminismo e power pop in Always Sleep With A Knife o mescola romanticismo e malinconia in una splendida ballata dagli sfondi folk come Midnight. L’attrice, la modella, la scrittrice o perfino la ballerina: Skye Wallace avrebbe potuto fare qualsiasi cosa della propria vita, del resto grinta e determinazione non le mancano. Per chi se lo stesse chiedendo, le ragioni che hanno determinato la scelta della tortuosa strada del rock’n’roll, stanno tutte in questo suo sorprendente ultimo disco di studio.

Luca Salmini