MEGANOIDI “Mescla”

MEGANOIDI
MESCLA

LIBELLULA

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È uscito il 6 marzo scorso il nuovo disco dei genovesi Meganoidi, formazione partita dallo ska punk, ma col tempo attestatasi nell’alveo di un alternative rock melodicamente pop. Nell’anno in cui festeggiano i vent’anni di attività, Mescla consolida il loro fare musica con dieci nuove canzoni frizzanti e chitarristiche, spesso caratterizzate da una base funky, come evidenziato da pezzi come Condizione Non Indugio, o da trame chitarristiche che ben si sposano alle melodie tratteggiate da una voce sempre in primo piano nel mix.

Personalmente, però, penso che il meglio lo diano non tanto nei brani più uptempo come la title-track o l’iniziale Ora È Calmo Il Mare, facilmente memorizzabili, ma non così originali da essere anche memorabili (e scusate il bisticcio di parole), quanto più nei brani un po’ più lenti, vedi la bella 1982, la dinamica ballata rock Esercito In TV e soprattutto quella Persone Nuove, nella quale ben s’infila la tromba di Luca Guercio, che proprio oggi viene pubblicata come secondo singolo tratto dall’album e che nelle parole della stessa band vuole raccontare esattamente ciò che stiamo vivendo in questo momento: l’isolamento, le distanze, la riflessione, ciò che eravamo e ciò che, se lo vogliamo, potremo essere.

Sia pur scritta un anno fa, la band oggi vede la canzone come un pezzo in grado di essere una buona colonna sonora di queste giornate difficili e a noi piace appoggiare questa suggestione, specie dopo aver visto il mini video realizzato con l’aiuto dei fan in lockdown (lo potete vedere sulla pagina Facebook della band qui). Persone Nuove ve la facciamo  sentire qui sotto e vi segnaliamo pure il loro progetto Fotografie d’ascoltare, realizzato assieme alla fotografa Elisa Casanova, in cui ogni foto da lei realizzata per questa serie sarà accompagnata da un verso di una canzone dei Meganoidi.

Lino Brunetti

MARCO DENTI “Forze Speciali”

MARCO DENTI
FORZE SPECIALI
Fragile Libri

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Non è il suo primo libro, ma Forze Speciali è probabilmente quello in cui Marco Denti combina l’amore per la letteratura e la passione per la musica con maggior lirismo e brillantezza: del resto basta scorrere una delle tante recensioni, dei tanti articoli o interviste che ha stilato negli anni sulle pagine di diverse riviste specializzate, non ultima la mainstreet a cui fa capo questo blog, per intuire quanto Marco sapesse padroneggiare acume critico e eccellenti qualità da romanziere (attualmente si possono apprezzare le sue critiche letterarie nella sezione libri del sito Rootshighway).

Forze Speciali è un’opera di fantasia ambientata nell’attualità di un conflitto che sconvolge la vita di una metropoli europea: uno scenario apocalittico a cui ci hanno abituato tante drammatiche cronache dal Medio Oriente e dove l’ultima cosa che possa venire in mente è l’organizzazione di un concerto di Bob Dylan. La trama è quindi quella di un romanzo d’azione con il colonnello Blind, veterano appassionato di Delta blues, come protagonista principale, ma a renderla diversa da quella di qualsiasi altro libro di genere sono i tanti contenuti musicali che danno l’impressione che Forze Speciali possa essere la fantasiosa combinazione tra un volume di Fredrick Forsyth e un saggio di Peter Guralnick.

Marco racconta di armi, mezzi, tattiche e regolamenti con perizia e linguaggio da esperto militare, costruendo una storia drammatica e avvincente a cui la musica fa da sfondo attraverso versi di canzoni, citazioni, titoli e nomi di artisti che danno un’identità ai personaggi e alla sua prosa. Di sicuro la scrittura ha il ritmo e la potenza del rock’n’roll: spesso incalzante, a volte forsennata, altre volte malinconica e perfino romantica con dialoghi serrati e una serie di frasi primarie che paiono raffiche di mitra o scariche di tamburi. Nell’intreccio dell’azione si delinea un particolare ritratto di Bob Dylan e della sua musica, eletto a icona, metafora e presenza spirituale nel contesto del libro come nella realtà. In proposito sono davvero d’effetto le pagine cinematografiche che raccontano del concerto, in cui con poche frasi Denti inquadra emozioni, energie, sensazioni e atmosfere che trasformano la cronaca in esperienza.

Le oltre 300 pagine di Forze Speciali si leggono tutte d’un fiato come fossero quelle di un thriller, anche se non rappresentano una celebrazione dell’eroismo, ma piuttosto una malcelata denuncia dell’assurdità e della cieca crudeltà di qualsiasi guerra e dei suoi meccanismi: una tesi che per quanto non smetta mai di essere d’attualità, può sembrare quasi banale, ma che Marco Denti elabora e argomenta con ingegno, passione e in maniera mai banale.

Luca Salmini

A.A.V.V. “Ten Years Gone: A Tribute To Jack Rose”

A.A.V.V.
TEN YEARS GONE: A TRIBUTE TO JACK ROSE
Obsolete Recordings/ Tompkins Square Records

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Il 5 dicembre del 2009 furono in molti a piangere la morte del chitarrista Jack Rose, forse uno degli artisti più talentuosi e influenti emersi dall’underground weird folk del nuovo millennio, tra questi ci sono la cantautrice Meg Baird che “…pensa alla musica in termini di “prima” e “dopo” la scomparsa di Jack…”; Ben Chasny dei Six Organs Of Admittance che è convinto che sia “...difficile descrivere il suo modo di suonare senza cadere nell’iperbole…” o Steve Gunn che ritiene ci fosse “...qualcosa di estremamente potente e drammatico nel suo modo di suonare…”; ma nessuno deve sentirne la mancanza quanto il chitarrista Buck Curran, che per celebrare l’anniversario dei dieci anni dalla morte si spende con un tributo in suo onore intitolato appunto Ten Years Gone: A Tribute To Jack Rose.

Con competenza da addetto ai lavori (due ottimi tributi in memoria di Robbie Basho da lui curati: We Are All One, In The Sun del 2010 e Basket Full Of Dragons del 2016) e in ricordo del rapporto di amicizia che lo legava a Rose, Curran mette insieme 14 brani originali eseguiti da altrettanti musicisti, non solo chitarristi, selezionati con cura tra quanti gli furono vicini e tra quanti invece se ne sentono in qualche modo influenzati.

La scelta non prevede ovviamente alcun nome celebre, ma tante figure di culto che girano attorno al mondo dei solisti della chitarra acustica e oltre a rappresentare un’eccellente panoramica sull’attuale stato dell’arte dello strumento, riesce a cogliere le molteplici sfumature della musica di Jack Rose, a partire dalla passione per la tradizione old-time con la selvatica The Other Side Of Catawba del violinista Mike Gangloff, qui probabilmente la persona più vicina a Rose, visto che suonarono insieme nel progetto Pelt e collaborarono con i Black Twig Pickers; passando per il fingerpicking faheyiano di Sir Richard Bishop con una bluesata e straordinaria By Any Other Name e per i dinamici cambi di accordi di una brillante A King’s Head di Nick Schillace; per il lato più lirico e minimalista con lo splendido e spettrale gospel di Greenfields Of America (Spiritual For Jack Rose) suonata da un’ispiratissimo Buck Curran; fino ai momenti più sperimentali evocati qui dal violoncello di Helena Espval, impegnata in una mantrica e straniante Alcantara.

A dare un respiro internazionale ci sono inoltre gli italiani Simone Romei, che mostra un gran feeling nel bluegrass Hawksbill Mountain Blues e Paolo Laboule Novellino con il blues spettrale di Scheletri e Spiriti; lo spagnolo Isasa con le note sospese di Saeta De La Calle Mozart e l’argentino Mariano Rodriguez con la magica Raga For Dr. Ragtime.

Tutto questo e molto altro ancora fanno di Ten Years Gone: A Tribute To Jack Rose il miglior omaggio che si potesse immaginare all’arte e al talento del chitarrista che era e che probabilmente sarebbe diventato Jack Rose, se il destino non avesse spezzato il cuore di tutti questi artisti e di molti altri ancora, portandolo via all’età di soli 39 anni.

Luca Salmini

L’album è acquistabile qui.

GRAVE T “Silent Water”

GRAVE T
SILENT WATER
Seahorse Recordings

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Formatisi nel 2015, i Grave T da Torino riescono solo ora a pubblicare il loro debutto. Ed è qualcosa che lascia piacevolmente sorpresi. Metal, ok, ma con tanti ma all’interno della definizione iniziale. Innanzitutto siamo su un livello di produzione e di suoni di grande professionalità, sound pieno, ricco, con quel grasso anni 90 che cola da riff maestosi e una miriade di sfaccettature che si vanno a posizionare una nell’altra, fino a comporre un puzzle eterogeneo e nello stesso tempo costante, posizionato sul confine di vari generi ma centrale nello sviluppo totale dell’album e con un filo logico conduttore che non perde mai la prospettiva giusta. Potreste immaginare un gruppo grunge (diciamo Alice In Chains) che di volta in volta, con il proprio sound, si sposta verso i Motorhead, i Faith No More, l’hardcore e i Pink Floyd. Può essere complicato e tutto sommato fuorviante dare questo tipo di riferimenti, resta il fatto che non riuscire ad inquadrarli perfettamente in un range musicale fatto di settorialità imperante è un bonus non da sottovalutare e si traduce sotto quella piccola parola dal significato importante: originalità. Se del rock si dice ormai che sia tutto stato già scritto, allora prendiamo dischi come quello dei Grave T ad esempio per come si possa ancora declinare con impetuoso ritmo tutta quanto è stato fatto sino ad ora. La band torinese ci riesce alla grande infilando una serie di brani dal sicuro impatto, ricchi di idee, costruiti con un piglio moderno pur avendo evidenti radici nel passato. Per concludere non posso che dare una menzione d’onore alla splendida voce di Marco Magnani, limpida e potente.

Daniele Ghiro

DIVUS “Divus II”

DIVUS
DIVUS II
Boring Machines

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I Divus sono un duo romano formato da personaggi già noti della scena musicale italiana: si tratta infatti del laboratorio musicale messo in piedi dal musicista elettronico e produttore techno Luciano Lamanna e dal sassofonista Luca T. Mai, che la maggior parte di voi ricorderà almeno quale membro degli Zu.

L’album pubblicato ora segue l’omonimo esordio uscito un paio d’anni fa e vede i due affinare il risultato del loro sodalizio. Nelle sette tracce senza titolo che compongono Divus II, i due musicisti danno vita a una musica che sarebbe perfetta per un futuristico noir espressionista o per un cupo sci-fi movie apocalittico, grazie a un sound le cui evocative qualità cinematografiche sono una delle virtù maggiori.

Si parte quindi col fraseggio di sax quasi ethio-jazz perso tra rumori, effetti e bleep elettronici assortiti di (1), per passare agli scenari da crime movie in bianco e nero di (2), atmosferica, anche se attraversata da un deciso battito ritmico. La terza traccia alza la componente allucinata, virando verso una techno industriale nella quale il sax si perde fra le saturazioni noise. (4) scivola tra landscapes ambient siderali, mentre (5) traghetta, tra echi e riverberi, verso i rimbombi e le lamine taglienti di una (6) nella quale il sax disegna immagini fumose e notturne. Il pezzo più lungo sta alla fine ed evoca la solitudine senza confini dello spazio profondo, facendo brillare davanti agli occhi l’immagine fantasmatica di un’ormai deserta stazione orbitante alla deriva.

Se è cinema per le orecchie quello che stavate cercando, qui lo avete trovato.

Lino Brunetti

Bandcamp Boring Machines

 

CHRISTOPHER PAUL STELLING “Best Of Luck”

CHRISTOPHER PAUL STELLING
BEST OF LUCK
Anti Records

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Visto quanto seminato (cinque dischi dal 2012 ad oggi) e quanto (poco) raccolto in temini di celebrità e successo, è probabile che per la realizzazione del nuovo album Best Of Luck, Christopher Paul Stelling non cercasse solo un produttore all’altezza della situazione, ma anche un nome in grado di offrirgli una certa visibilità e Ben Harper deve essergli sembrata la miglior combinazione possibile delle due cose. D’altro canto è evidente che Harper non deve averci messo molto ad intuire quali talenti custodisse la personalità di Stelling, almeno a giudicare dagli entusiasmi suscitati dall’esperienza – “...E’ stato come scoprire un John Fahey o un Leo Kottke che fosse anche un grande cantante…” – e da quanto si ascolta in Best Of Luck, forse il lavoro più estroverso e versatile realizzato dal giovane chitarrista nato a Daytona Beach in Florida.

Con l’aiuto di una sezione ritmica dai trascorsi importanti composta da Jimmy Paxson alla batteria e Mike Valerio al basso, Christopher Paul Stelling prova a combinare gli accordi da folksinger e le malinconie da loser con lo storytelling della canzone d’autore e qualche fiammata di rock’n’roll, dando vita ad ariose ballate elettroacustiche come la solare Have To Do For Now, a ispirate miniature country-folk come Lucky Star, al soffice soul singing di una splendida Waiting Game, fino alla verve di frizzanti hillbilly dall’aria vintage come Trouble Don’t Follow Me o a deliziose confidenze come la morbida serenata Made Up Your Mind.

Spesso Stelling dimostra doti e raffinatezza da prodigio del fingerpicking come testimoniano gli straordinari solismi dello strumentale Blue Bed o la magia acustica di una cristallina Something In Return, ma a volte prova anche a uscire dalla propria confort zone con un rauco blues come Until I Die, con il colpo di testa di un selvaggio rifferama garage come Hear Me Calling oppure con l’elegante pianismo di una romantica Goodnight Sweet Dreams.

In generale, dal punto di vista delle melodie e degli arrangiamenti Best Of Luck può sembrare forse il disco più levigato e mainstream fin qui realizzato da Christopher Paul Stelling, ma di certo è quello che meglio mette a fuoco i molteplici talenti e la straordinaria versatilità di un cantautore che fino a questo punto non ha mai ricevuto tutta l’attenzione che avrebbe meritato.

Luca Salmini

PURR “Like New”

PURR
LIKE NEW
Anti. Records

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Secondo il protagonista del film Taxi Driver, Travis Bickle “...questa città fa proprio schifo e da tutte le parti poi gentaccia. Roba da rivoltare lo stomaco…”, ma negli ultimi anni New York è cambiata parecchio e agli occhi del mondo oggi rappresenta sempre più l’idea del Grande Sogno Americano, il luogo dove tutto sembra possibile: devono vederla in questa luce anche Eliza Barry Callahan e Jack Staffen dato che è in uno scantinato del centro di Manhattan che i loro sogni da adolescenti hanno cominciato ad assumere la concretezza di una carriera.

I due giovani iniziano a scrivere canzoni ed esibirsi semplicemente come Jack & Eliza quando ancora frequentano l’università, ma è solo nel 2017 che le loro identità si coagulano nel progetto Purr e un paio di registrazioni fatte in casa cominciano a circolare. Hanno poco più di vent’anni e sono appena al loro secondo concerto quando salgono sul palco del Terminal 5 in apertura ai Foxygen di Jonathan Rado, che rimane incantato dalla loro musica al punto da invitarli nel suo studio di Los Angeles per produrre il debutto Like New.

Con l’aggiunta di Sam Glick al basso, Max Freedberg alla batteria e Maurice Marion alle tastiere, i Purr diventano una band che sparge acidule melodie pop dal vago respiro psichedelico intorno alle deliziose armonie vocali della Callahan e di Staffen, a cui Rado, in qualità di produttore, conferisce una seducente aria vintage, quasi avesse preso a modello le romanticherie sixties di Sonny & Cher.

Le canzoni di Like New simboleggiano il passaggio dall’innocenza dell’adolescenza alla presa di coscienza dell’età adulta, come spiegano gli autori nelle note della cartella stampa, “...Stavamo provando a resistere e (a volte) accettare gli inevitabili cambiamenti nell’ambito delle nostre relazioni e amicizie, un momento, uno specifico e strano lasso di tempo nelle nostre vite…e, naturalmente in questo…mondo…” e i Purr lo cantano con tutto l’entusiasmo dei vent’anni e l’ingenua spontaneità dei debuttanti.

Sospeso tra le armonie vocali degli anni ’50 e le atmosfere pop dei primi ’60, Like New allinea seducenti blueyed soul come Hard To Realize, sinfonici pop come Giant Night, lisergiche ballate folk rock come Gates Of Cool, sognanti corali come Wind, riverberate serenate da spiaggia come Cherries, tintinnanti florilegi melodici come Bad Advice o marcette beatlesiane come Take You Back.

Fragranti come jingles e luccicanti come abiti di paillettes, le canzoni dei Purr vivono della spensieratezza e dell’innocenza della gioventù insieme a una piacevole sensazione di nostalgia per i favolosi anni ’60, un periodo che Eliza Barry Callahan e Jack Staffen coniugano al presente in maniera semplicemente incantevole.

Luca Salmini