“Il Covid-19 è un virus che può togliere il respiro. Ora, in conseguenza della pandemia, viviamo in un contesto nel quale tutti, chi più chi meno, siamo portati a riflettere su che cosa significhi respirare. Che cosa sia in fondo, davvero, a non farci respirare.
Nel 2014 un arresto a New York da parte di un poliziotto bianco provocava la morte a Eric Garner al grido soffocato di“I Can’t Breathe”. Ancora, il 25 maggio 2020 è George Floyd, anche lui afroamericano, a implorare il suo “I Can’t Breathe” immobilizzato dalla polizia di Minneapolis.
Un uomo che può morire asfissiato per strada in quanto nero non è libero. Ha bisogno di respirare così come ogni altro essere vivente. L’essenziale, il minimo, è respirare“.
Con queste parole il musicista Paolo Tarsi ha presentato il suo nuovo EP, I Can’t Breathe, disponibile in digitale su Bandcamp.
In scaletta 5 brani, di cui due inediti, due remix e una nuova versione di Anitya Ma(sk), realizzati con la collaborazione di musicisti quali l’ex Soft Machine Percy Jones, il sassofonista jazz Bruno Spoerri, EmilKr e il rapper Zona MC.
Artwork e video sono curati dall’artista Robert Rossini.
In misura diversa il flagello della pandemia ha sconvolto la vita di tutti, compresa quella della giovane cantautrice australiana Sophie Payten in arte Gordi, che, avendo da poco conseguito il dottorato in medicina, si è sentita in dovere di indossare il camice e presentarsi in corsia per fronteggiare l’emergenza, mettendo da parte le aspirazioni di carriera e le aspettative per il suo secondo disco in uscita.
Per quanto imprevista possa essere stata la scelta, se non altro Gordi deve essere arrivata preparata al periodo di quarantena, visto che le registrazioni del nuovo album Our Two Skins si sono svolte nell’isolamento di una casetta nei pressi di un impianto di tosatura a Canowindra, una cittadina sperduta del Nuovo Galles del Sud in Australia, dove l’artista insieme ai collaboratori Chris Messina e Zach Hanson ha concepito le tracce per il disco all’insegna della più assoluta austerità, come spiega nelle note stampa: “...l’idea era di tagliarci fuori da qualsiasi cosa, inclusa la possibilità di fare delle scelte, e sforzarci di creare del materiale in maniera molto più minimale…”.
Un metodo che fa venire in mente il processo con cui Bon Iver aveva realizzato l’incantevole esordio For Emma, Forever Ago, non solo perché i tre hanno effettivamente collaborato con Justin Vernon, ma anche perché la magia di quel lavoro sembra in qualche modo aver ispirato le atmosfere rarefatte e sospese di Our Two Skins. Magari si tratta solo del tipo di canzoni che prendono forma da un periodo in cui ci si ritrova a riflettere sul significato della propria esistenza e del proprio ruolo nel mondo come è capitato a entrambe, ma in ogni caso OurTwo Skins combina filigrane folk, melodie pop, aerei sfondi d’elettronica e un vago senso di solitudine e malinconia come accadeva in For Emma, Forever Ago, tenendo fede al presupposto minimalista determinato dalla situazione da casa nel bosco in cui è stato realizzato.
Interpretate da una voce calda e affascinante, capace di passare da sussurri intimi e confidenziali a toni tenorili che ricordano vagamente Toni Childs, quelle che riempiono Our Two Skins sono per lo più umbratili ballate dai colori pastello e dai contorni lo-fi come l’intensa Aeroplane Bathroom, la pianistica Radiator, la boniveriana Free Association, l’evocativa folktronica della corale Extraordinary Life o la struggente Look Like You, anche se non mancano momenti liberatori in cui echeggiano le chitarre elettriche e in cui spicca una brillante vena pop come accade in Unready e Sandwiches. Visto quanto si ascolta in Our Two Skins, ci si augura che l’emergenza medica termini rapidamente, non solo per la salute di tutti, ma perché Gordi possa tornare presto a far sentire la propria voce: sarebbe un peccato essere costretti a sentirla cantare solo da un balcone.
SEABUCKTHORN Through A Vulnerable Occur IKKI Records
A giudicare dai termini con con cui viene presentata la fotografa di Melbourne Sophie Gabrielle – “...i suoi lavori sono un’esplorazione del mondo del non visto, attraverso ottiche, reazioni chimiche e il processo investigativo usato per fotografare qualcosa di invisibile a occhio nudo…” – è facile intuire come sia scaturita la collaborazione con il chitarrista inglese Andy Cartwright in arte Seabuckthorn, dato che la sua musica mistica e astratta pare applicare ai suoni i principi della ricerca per immagini effettuata dall’artista australiana.
Il progetto consiste nella pubblicazione di un libro e di un disco dal titolo Through A Vulnerable Occur, entità fisicamente distinte e idealmente interdipendenti, che insieme costituisco un’opera d’arte particolarmente suggestiva. Del resto i dischi di Cartwright hanno sempre avuto potenzialità da colonna sonora e che si tratti di insonorizzare le fantasie dell’ascoltatore o le più concrete immagini della Gabrielle, i presupposti di Through A Vulnerable Occursono quelli di un aereo e pittorico affresco in chiaroscuro in stretta corrispondenza con il bianco e nero degli scatti.
Non ci sono dubbi che, parafrasando quanto accennato riguardo la fotografa, la musica di Seabuckthorn rappresenti un’esplorazione del mondo del non sentito attraverso chitarre elettriche, acustiche e slide, saz (un liuto di origini turche), charango ed effetti, frutto di un’attitudine che qualche tempo fa l’autore definì “...an open mind to the guitar…”. Qualunque cosa intendesse ha davvero poco a che vedere con strofe e ritornelli, cambi di accordi, sequenze di note o quanto di solito può far venire in mente i gesti di un chitarrista, perchè Through A Vulnerable Occursuona “altro” e straniante come gli esperimenti di un iconoclasta quale Loren Connors o almeno è quello che viene in mente quando si ascoltano atmosferiche partiture ambientali quali la lunare Toward The Warmth e l’astrale titletrack, in cui tuba il clarinetto di Gareth Davis, l’insistito arpeggio di una sinistra While There By The Woods, le interferenze aliene di And Bickers Into Colour, i lampi elettrici di Which Is Hid, l’astratto fingerpicking di Other Other, sinfonie minimaliste come Copper & Indigo o ipnotici mantra come Sunken Room.
Magnetico e affascinante, Through A Vulnerable Occur è un disco visionario e spettrale come fosse stato concepito nel corso di una lunga seduta di meditazione più che di una qualsiasi session di registrazione.
TIEDBELLY & MORTANGA Old Joe Gravy & Three More Songs Bandcamp
Chiusi in casa per gli effetti della pandemia, sono tanti i musicisti che hanno provato a far sentire la propria voce o a sentirsi vivi nonostante l’isolamento della quarantena: c’era chi cantava dal balcone, chi impartiva lezioni di chitarra dalla cucina, chi improvvisava concerti in salotto e chi come il duo blues Tiedbelly & Mortanga, metteva a fuoco il materiale per un disco, un EP per essere precisi, dall’ispiratissimo titolo Old Joe Gravy & Three More Songs.
Del resto in un periodo in cui angosce, paure e incertezze sono all’ordine del giorno, c’è sempre una buona ragione per del blues, una musica che accompagna i momenti bui e difficili della vita e dell’umanità fin da quando Skip James cantava Hard Time Killin’ Floor o Robert Johnson Hellhound On My Trail. È a quegli spettri, a quell’immaginario e all’effetto che fanno quelle note scolpite nella storia della musica che si ispira il duo romano, anche se le chitarre di Tiedbelly e i tamburi di Morganta ne combinano lo spirito con l’elettricità e la rivoluzione del garage rock, dando vita a un crudo e febbrile rifferama che fa venire in mente una folle serata in un jukejoint del Mississippi più che “la dolce vita” di Trastevere.
Disponibile in formato digitale per l’ascolto o il download dalla loro pagina Bandcamp, Old Joe Gravy & Three More Songs comincia dal punto in cui si era interrotto Satan Built A House, l’esordio lungo dello scorso anno, lustrando a dovere le lapidi di Blind Lemon Jefferson, Charly Patton o Leadbelly con quattro rauche parabole ispirate al loro vangelo e trattate con tutta la furia del punk, a partire dal boogie apocalittico di Old Joe Gravy, passando per l’adrenalinico urlo rock’n’roll dell’esplosiva Honey Honey, per il selvatico rollio hillbilly di una anfetaminica Call Me Ray, fino alle ipnotiche cadenze blues di The Chain.
Magari non inventano nulla Tiedbelly & Mortanga, ma è probabile che siano i primi a rendersene conto e che nemmeno ne avessero le intenzioni quando provavano a sconfiggere la noia della quarantena con un pugno di nuove registrazioni, ma l’anima e il sangue che buttano in queste canzoni e il temperamento feroce con cui le interpretano, fanno in modo che Old Joe Gravy & Three More Songs suoni autentico e sincero come fosse appena esalato da un sobborgo di Detroit o dalle paludi del profondo Delta (che si tratti di quello del Mississippi o di quello del Tevere ha davvero poca importanza).