Best 2022 part 3: Lino Brunetti

Lo scriveva Luca Salmini nel suo pezzo, lo vado sostenendo anch’io già da qualche anno: chi si lamenta dell’assenza di buona musica è solo perché probabilmente non ha più molta voglia di andarla a cercare o perché è restio a lasciarsi andare nei confronti dei nomi nuovi che il panorama musicale ha da offrire. Per quello che riguarda il sottoscritto, il problema non è il fatto che ci sia poca roba buona in giro, è esattamente il contrario! Ce n’è troppa!!! 

Potrei fare copia e incolla dal post che avevo scritto per il 2021 e sostenere anche stavolta “di non essere mai stato investito da così tanti dischi come quest’anno. Un problema per certi versi, perché è diventato praticamente impossibile seguire tutto ciò che si desidererebbe, ma spesso anche frequentare come si deve i dischi che emergono dal marasma, pur dedicando alla musica un sacco del proprio tempo (è chiaro che a casa mia lo stereo non è mai spento)”.

Uno potrebbe legittimamente chiedere, però: ma ci sono autentici capolavori tra tutti questi dischi, lavori che resisteranno all’usura del tempo e che un domani, in qualche modo, ce lo sapranno ricordare e raccontare ancora? Boh, chissà, difficilissimo dirlo oggi. Probabilmente non saranno dischi rock a farlo: forse guardando al 2022, tra vent’anni, c’è chi lo identificherà col centrifugato iper pop di una figura sempre più ibrida quale Rosalìa, con l’hip hop colto e raffinato di Kendrick Lamar o magari con le canzoni classicissime, eppure capaci d’intercettare il gusto di un pubblico vastissimo (e che in linea di massima di quel tipo di sound se ne frega) come Taylor Swift, che nel momento in cui scrivo è responsabile del sorpasso del vinile sul CD grazie alle vendite del suo ultimo Midnight, non accadeva dai tempi di Bad di Michael Jackson, sei milioni di copie vendute dal 21 ottobre, giorno in cui è uscito, senza contare quegli 82 milioni e rotti di ascoltatori mensili stando solo a Spotify. Tutto ciò alla faccia della crisi dell’industria musicale, in realtà mai così florida, spesso alla faccia degli artisti, che ben lungi sono dall’avere il potere contrattuale della Swift.

Sui nomi appena citati sospendo il giudizio, sono dischi che ho ascoltato, ma non approfondito, probabilmente non sono riusciti a catturare abbastanza la mia attenzione, anche se almeno citarli mi pareva il minimo, giusto per non dare l’impressione di essere completamente fuori dal mondo. Perché poi, come sempre, nel tentativo sempre più futile e destinato alla sconfitta di provare ad arginare quello che è uscito di buono in un’intera annata, non si può che ricorrere al gusto personale, dando maggiore rilevanza a quello che in definitiva si è ascoltato di più.

Come gli altri anni, alla fine del pezzo troverete una mega playlist con dentro di tutto un po’, così da avere un riassunto, comunque ovviamente sempre incompleto, di quello che nel 2022 è accaduto. Al momento conta 226 brani per svariate ore di musica, ma diciamo che potenzialmente è destinata ad ingrandirsi, perché in realtà l’onda lunga di un’annata si prolunga anche in quella successiva e, proprio il periodo delle classifiche di fine anno è foriero di nuove scoperte. Non è per questo che si fanno?

Insomma, lo si dice sempre ed in effetti è così: questo delle classifiche è un gioco, magari anche un po’ sciocco, che tutti noi appassionati di musica però prendiamo abbastanza seriamente. Per tutte le cose che ho scritto sopra, non metterò in fila un elenco come gli altri anni, ma mi atterrò al formato discorsivo scelto dai mie due soci prima di me. Unica differenza, dividerò il tutto in sezioni, più che altro per una questione di comodità e leggibilità. Visto che citerò una marea di nomi, in neretto quelli più rilevanti. Buona lettura, ma soprattutto, buon ascolto!

SINGER-SONGWRITER (VOCI FEMMINILI)
Se la sezione dedicata ai singer-songwriter è divisa in due, non è tanto per marcare una vera differenziazione tra la canzone d’autore al femminile piuttosto che al maschile, ma nuovamente per una questione di comodità d’esposizione. Nessuna voglia di creare ghetti insomma, tanto più che, in questo caso, a finirci sarebbero i maschietti, decisamente minoritari nei miei ascolti rispetto alle femminucce. Quisqulie a parte, da tempo trovo che in ambito cantautorale (ma diciamocelo, non solo) le donne abbiano una marcia in più e quest’anno è parso evidente come non mai, sia in fatto di numeri, che per ciò che riguarda la qualità dei lavori. Particolarmente rilevanti, per me, sono stati i ritorni discografici di cantautrici quali Angel Olsen e Sharon Van Etten, la prima con Big Time a riabbracciare a modo suo il country in compagnia di Jonathan Wilson, la seconda col bellissimo We’ve Been Going About This All Wrong a regalarci quello che è probabilmente il suo miglior disco, di certo il più maturo. Tra i nomi più noti, dischi da ricordare sono anche quelli di Beth Orton, Aldous Harding, Weyes Blood, lo stupendo riaffacciarsi di Nina Nastasia e a seguire quelli di Julia Jacklin, Jesca Hoop, Janny Hval, Cate Le Bon, Nilufer Yanya, Courtney Marie Andrews, Joan Shelley, Laura Veirs, Tess Parks, Weather Station, Shilpa Ray. Tra i nomi più o meno nuovi, ho amato moltissimo il disco di Grace Cummings, voce e personalità straripante, ma anche quelli di Marina Allen, Tomberlin, Eve Adams, Aoife Nessa Frances, Indigo Sparke, Skullcruscher, Naima Bock. Tra le cose non del tutto (o non solo) ascrivibili al mondo del cantautorato, ottimi i dischi di Gwenno, Zola Jesus, Carla Dal Forno e quello distorto e metallico della bravissima A.A. Williams. Da citare almeno anche il bel lavoro di Leyla McCalla, mentre buono, ma non indimenticabile il nuovo Hurray For The Riff Raff. In playlist, ovviamente, trovate anche altro.

SINGER-SONGWRITER (VOCI MASCHILI)
In questa sezione sono soprattutto tre gli album che più mi hanno appassionato: il grandioso This Is A Photograph di Kevin Morby, il Bill Callahan in formissima di Ytilaer, l’idiosincratica canzone sperimentale messa a punto da Eric Chenaux in Say Laura. Bravo Ty Segall in versione acustica in Hello, Hi, buona la doppietta di Jack White (soprattutto, anche in questo caso, l’acustico Entering Heaven Alive), mentre altre cose da ricordare sono gli album di Fantastic Negrito, Ezra Furman, Kurt Vile, Richard Dawson, Cass McCombs, Jake Xerses Fussell. Stando sui super classici, anche piacevole, ma sostanzialmente inutile e comunque un’occasione persa l’Only The Strong Survive di Bruce Springsteen, mentre al momento non ho ancora sentito il nuovo Neil Young, come sempre strabordante anche nella sezione ristampe/archivi.

BAND
In questo caso l’invito è quello di mettervi a spulciare la playlist, perché se citassi tutti il rischio sarebbe quello di fare un elenco lunghissimo. Mi limiterò quindi a segnalare le cose per me veramente da non perdere, ben sapendo che ce ne sarebbero in realtà molte altre oltre quelle qui elencate. Innanzitutto i Black Country, New Road di Ants From Up There, probabilmente il mio disco dell’anno in un anno in cui il disco dell’anno in realtà non ce l’ho (scusate se vi sembro contorto). E poi, i Fontaines D.C. sempre più maturi con Skinty Fia, i Big Thief del doppio Dragon New Warm Mountain I Believe In You, gli imprevedibili Horse Lords di Comradely Objects, l’esordio degli Smile, i nuovi album di band amatissime come Black Angels, Wilco, Calexico, Beach House, Spiritualized, la conferma da parte di band come Dry Cleaning, Bodega, The Cool Greenhouse, Viagra Boys. Tra le cose più o meno nuove, il graffiante album dei Party Dozen ha sicuramente il posto d’onore assieme a quello dei King Hannah, ma non meno interessanti sono i Caroline, i Moin, gli Special Interest, gli Yard Act, il pop contagioso delle Wet Leg, il classico indie rock degli Horsegirl, l’assalto dei Gnod e… basta, mi fermo qui. Anzi no, almeno una citazione la devo agli irriducibili King Gizzard & The Lizard Wizard, che nel 2022 hanno pubblicato ben cinque album (ne volete solo uno? Scegliete Omnium Gatherum, non foss’altro che per i 18 minuti del pezzo che lo apre).

JAZZ/BLACK/HIP HOP
In ambito jazz le cose migliori continuano a dividersi, per chi vi scrive, tra quello che viene pubblicato da etichette come International Anthem o Brownswood e quello che ha da offrire la scena londinese, guidata ovviamente da uno come Shabaka Hutchings, quest’anno presente con un breve album a suo nome e il pulsante ritorno dei Comet Is Coming. Ottimi i dischi intestati a due batteristi, quello di Makaya McCraven e quello di Tom Skinner, mentre altri lavori da ricordare sono quelli di Alabaster DePlume, KOKOROKO, Binker & Moses e quello degli Anteloper della compianta jamie branch.
In ambito black/hip hop da non perdere sono il plumbeo Conduit di Coby Sey, Aethiopes di Billy Woods, il più rockettaro Loggerhead di Wu Lu, i vari album dei Sault (con preferenza per 11) e i dischi nuovi di Moor Mother, Little Simz, Kae Tempest, quest’ultimo forse più orientato alla sound poetry.

ALTRO
Per ciò che concerne i territori più sperimentali, scelgo quattro album su tutti: lo straordinario The Liquified Throne Of Simplicity degli sloveni Širom, la mai così devota al formato canzone Lucrecia Dalt di ¡Ay!, il cantautorato destrutturato ed ermetico di Kee Avil in Crease, il lavoro sulle tradizioni est europee e non solo dei redivivi Black Ox Orkestar. In realtà ce ne sarebbe un quinto almeno che merita tutta la vostra attenzione, ovvero Canti di guerra, di lavoro e d’amore di Silvia Tarozzi e Deborah Walker, con quale ci spostiamo in…

ITALIA
Non che non abbia ascoltato anche i lavori di artisti ormai storici come Manuel Agnelli, Verdena, Marlene Kuntz o Edda, o che non mi sia dedicato ai dischi di alcuni nomi segnalati da tutti (dal pop Tutti Fenomeni, ai mesmerici Post Nebbia, fino all’elettronica stilizzata di Whitemary), ma la mia Italia 2022 è principalmente oscura. E quindi: gli enormi e internazionali Messa di Close, l’ancestrale Mai Mai Mai di Rimorso, il Nero Kane sempre più cupo di Of Knowledge And Revelation, la spesso allucinata Bebawinigi di Stupor, la scoperta dell’ultima ora (per me ovviamente, grazie Giada che hai insistito!) Cigno che, in Morte e pianto rituale, riesce a risultare credibile citando Ernesto De Martino e fondendo Capossela, Iosonouncane e i CCCP. Da non dimenticare assolutamente sono anche i Maisie, La Forbici di Manitù, Alessandro Fiori, Il Lungo Addio, i Calibro 35 e gli Horseloverfat.

RISTAMPE/LIVE
La sezione ristampe/live/materiali d’archivio inediti è sempre più affollata, senza contare poi i tanti cofanetti celebrativi. Mi limito alla segnalazione di poche, rimarchevoli cose: la ristampa da parte di Strut delle introvabili incisioni storiche dei Pyramids di Idris Ackamoor in Aomawa: The 1970s Recordings; il cofanetto live Live At The Fillmore 1997 di Tom Petty & The Heartbreakers; le Maida Vale Sessions dei Broadcast; il quinto volume della serie Switched On degli Stereolab Pulse Of The Early Brain; le BBC Sessions dei Come. Ci sarebbe tantissimo altro, ma mi fermo qui.

POSTILLA FINALE
Al contrario dell’anno scorso, quest’anno non mi sono granché dedicato alla visione di film d’argomento musicale, nulla comunque che qui mi sento di ricordare. Almeno un libro – oltre a quello bellissimo in cui Sean O’Hagan intervista Nick Cave, citato da Luca nel suo pezzo – ve lo voglio però segnalare, perché a mio parere è a dir poco imperdibile, per come è scritto, per le sue analisi, per l’ampiezza e l’importanza del suo studio: parlo di Alla ricerca dell’oblio sonoro di Harry Sword, clamoroso!!
In un anno in cui sono stato a tre festival internazionali e a una marea di concerti, potrei dedicare una sezione anche ai migliori live dell’anno, ma mi sembra di avervi già annoiato abbastanza e quindi, ora, non vi resta che tuffarvi nella playlist che c’è qui sotto! Buon ascolto e buon 2023!!!

Dedicato alla memoria di Mimi Parker, Mark Lanegan, jamie branch, tre delle tante anime volate via nel 2022.

Lino Brunetti

Best 2022 part 2: Luca Salmini

Sarà stata forse l’onda lunga degli effetti dell’isolamento da pandemia che ha consentito agli artisti di riflettere sul proprio ruolo come ha fatto Nick Cave e di mantenersi creativi come hanno fatto i Native Harrow o magari l’euforia suscitata dalla sensazione di essere finalmente usciti dalla catastrofe, ma musicalmente parlando il 2022 ha tutta l’aria di essere stata quella che i vinicoltori definirebbero un’annata eccezionale data la quantità e la qualità dei dischi pubblicati nel corso dei 12 mesi appena trascorsi.

Al contrario di quanto successo altri anni, non c’è magari un album in grado di mettere d’accordo tutti, perché ad esempio la rivista Uncut ha scelto A Light For Attracting Attention del progetto legato ai Radiohead The Smile, l’antagonista Mojo ha invece optato per il pop colto di Michael Head, il sito Pitchfork si inchina alle mode con Renaissance di Beyonce, dalle nostre parti, Buscadero preferisce andare sul sicuro con il live di Tom Petty e perfino un’opera su cui in verità mi sarei sentito di puntare come Dragon New Warm Mountain I Believe In You dei Big Thief, un lavoro in un certo senso definitivo che mette a fuoco le varie sfumature della musica di uno dei gruppi più celebrati degli ultimi tempi, è spesso finito lontano dalle vette delle classifiche.

Orientarsi tra le pubblicazioni e operare una scelta è impresa ardua quanto aleatoria e forse è più facile indicare dei debutti che hanno avuto un certo impatto: il primo fra questi è a mio giudizio l’esordio omonimo dei Caroline, un giovane ensemble inglese che sulla scia di gruppi come Black Midi o Black Country, New Road intreccia post rock, avanguardia, effluvi ambient, sfumature jazz, polveri folk e chitarre post punk in maniera creativa e del tutto originale. Non si può trascurare inoltre I Walk With You A Way del progetto Plains di Katie Crutchfield e Jess Williamson che senza inventare nulla, dà una bella rinfrescata al country classico di gente come Willie Nelson, Emmylou Harris o Kris Kristofferson con una immediatezza e una passione davvero al di fuori del comune.

Non è un vero e proprio esordio ma è comunque sensazionale come se lo fosse, The Real Work degli australiani Party Dozen, un duo furioso e out of our heads che mescola selvaggio rock’n’roll e fumoso jazz con una ferocia che fa venire in mente i Grinderman di Nick Cave che non a caso, canta in un brano. Si citavano poco sopra i Black Country, New Road e il loro secondo album Ants From Up There è una delle uscite che avrei visto bene in cima a qualsiasi classifica, ma forse la struttura complessa delle canzoni e il sovraccarico delle emozioni in esse contenuto, lo rende un lavoro poco immediato, benché pervaso di straordinaria meraviglia.

Non sono un gruppo nuovo anzi piuttosto navigato, The Delines, che mio malgrado ho scoperto e apprezzato solo dopo l’incantevole concerto tenuto al Buscadero Day la scorsa estate: conoscevo i Richmond Fontaine di cui adoro Post To Wire e ho letto praticamente tutti i romanzi tradotti in Italia di Willy Vlautin, di cui le canzoni dello splendido The Sea Drift costituiscono una deliziosa trasposizione in musica, sospese tra atmosfere jazz, calore soul e frammenti del Grande Sogno Americano. Sono giovani ma non di primo pelo artisticamente parlando, anche i Native Harrow, americani di stanza in Inghilterra, che con il nuovo Old Kind Of Magic celebrano la stagione psichedelica degli anni ’60 e l’immaginario del Laurel Canyon con un luminoso folk rock dalle sfumature lisergiche che suona fresco e affascinante come raramente capita di ascoltarne.

Sono immersi nel passato anche le canzoni di The Wilderness Of Mirror dei texani Black Angels che cavalcano l’onda dei 13th Floor Eleveator con un disco che suona come un capolavoro perduto della stagione psichedelica. Sempre all’altezza delle aspettative anche i Calexico, perché El Mirador appare davvero ispirato e pieno di belle canzoni, pur senza nulla aggiungere a quanto fatto in passato. Nemmeno la cantautrice americana Joan Shelley esce prepotentemente dall’ordinario, ma il suo The Spur è pura magia con una serie di ballate meravigliose sospese tra tradizione popolare e canzone d’autore che evocano il fascino dell’America più periferica e romantica con un grado di ispirazione simile a quello che riempie Weather Alive della bravissima Beth Orton, un disco intimo e dall’aura spirituale con sonorità sospese tra jazz e folk come fosse un classico di Joni Mitchell.

I loro concerti sono sconvolgenti, ma anche in studio il trio The Comet Is Coming del sassofonista Shabaka Hutchings fa scalpore, perché Hyper-Dimensional Expansion Beam è una bomba di suono che mette insieme le visioni spaziali di Sun Ra e i ritmi della club culture inglese in maniera geniale e rimanendo in ambito jazz, non si possono trascurare le uscite dell’etichetta di Chicago International Anthem, che da qualche tempo pubblica alcune delle cose più interessanti del settore, come Forfolks del chitarrista Jeff Parker, un disco per sola chitarra che fluttua liberamente tra Thelonious Monk e Frank Ocean, e Gold del britannico Alabaster De Plume, vero e proprio talento che combina poesia, impegno e contaminazioni avanguardistiche.

Kahil El’ Zabar è un veterano della scena jazz americana che ha suonato un po’ con tutti i grandi e se non l’avessi visto in concerto a Novara pochi mesi fa (ero andato principalmente per vedere Jeff Parker, previsto nella stessa serata), è probabile che avrei continuato a ignorarne l’esistenza, ma le straordinarie due ore e mezza di performance mi hanno fatto scoprire il nuovo e bellissimo A Time For Healing, un lavoro in cui spiritual jazz, musica black e influenze afro danno vita a una miscela assolutamente esaltante di suoni e emozioni.

Per quanto riguarda i concerti visti lo scorso anno, i momenti indimenticabili sono probabilmente quelli vissuti nel corso degli spettacoli di Dry Cleaning, dal vivo una vera e propria rivelazione e il gruppo più eccitante che mi sia capitato di vedere negli ultimi tempi, e di Dream Syndicate, sempre bravi e professionali nel mettere insieme un rock’n’roll show sanguigno, autentico e furioso come quello di una band di esordienti.

Nel periodo post-covid, ho frequentato davvero poco le sale cinematografiche e se ben ricordo, nel 2022, l’unica volta è stata in occasione della proiezione di This Much I Know To Be True di Andrew Dominik, una pellicola su Nick Cave che è in parte documentario, in parte film e in parte concerto, forse non proprio riuscita ma tutto sommato decisamente interessante. In alternativa alle sale mi sono un po’ arrangiato con Netflix, dove ho apprezzato Blonde scritto e diretto sempre da Dominik con colonna sonora di Nick Cave e Warren Ellis, biopicture romanzato e visionario della vita breve e sfortunata della diva Marilyn Monroe, e il documentario Un Eco Nel Canyon, incentrato sulla scena californiana degli anni ’60.

Se da un lato sono andato meno e in verità quasi per niente al cinema, il 2022 è stato un anno pieno di letture e tra quelle che ho gustato di più, segnalerei i romanzi di Colson Whitehead Il Ritmo Di Harlem, un appassionato giallo ambientato nella comunità nera degli anni ’60, e di Amor Towles Lincoln Highway, rocambolesca avventura on the road in bilico tra le malinconie di Stand By Me e la follia di Sulla Strada, il saggio di JR Moore Electric Wizards che contempla le varie sfaccettature della musica heavy, quello di Sarah Smarsh Una Forza Della Natura su un personaggio che senza leggere il libro avrei considerato rascurabile, come la star della musica country Dolly Parton, e infine il libro di Nick Cave e Sean O’Hagan Fede, Speranza e Carneficina, straordinaria raccolta di conversazioni che elevano l’intervista a opera d’arte.

Ho ascoltato, letto e visto molto altro e probabilmente ho lasciato fuori qualcosa da questa selezione che avrebbe meritato più di quanto abbia inserito, ma al momento è con questi titoli che credo di poter ricordare il 2022. 

Luca Salmini

Best 2022 part 1: Daniele Ghiro

Fine anno, tempo di classifiche. Che poi non è che sia un appassionato di questo tipo di cose ma è interessante andare a spulciare le playlist altrui per poter scovare qualcosa di interessante che mi è sfuggito o che, pur non rientrando nei miei ascolti abituali, possa essere degno di un approfondimento. Dunque proprio questo è l’intento, magari anche solo per dare qualche spunto o suscitare un po’ di curiosità.

Al solito, e alla faccia di chi dice che “non c’è più la musica di una volta” (frase che odio profondamente) ci sono tante cose interessanti e voglio partire dalla musica italiana, tanto bistrattata sui social e commentata sotto ogni post con risate e moti di repulsione. Certo che se il punto di riferimento è Rolling Stone, Radio 105 e X-Factor, ovvio che le risultanze possano essere non proprio in linea con la musica che mi piace, ma basta farsi un giro su Bandcamp (tanto per dirne uno) e troverete un mondo sommerso ricco di spunti. Emblematico a questo proposito è il resoconto finale che Spotify manda annualmente ai propri abbonati (il WRAPPED): il mio riassunto è completamente un’altra cosa rispetto ai miei veri ascolti, frutto del fatto che la maggior parte della musica l’ascolto in ufficio, con i miei CD e LP, mentre Spotify (a parte le playlist che mi faccio per l’auto) lo utilizzo come enorme motore di ricerca e i risultati sono ovviamente sorprendenti.

Partiamo. X-Factor dicevamo: Manuel Agnelli ha tirato fuori un disco in modalità Afterhours filtrato con innesti quasi sanremesi, buon risultato, al netto di tutte le chiacchiere sul personaggio. Verdena e Marlene Kuntz dico NI, a metà strada tra vecchio e nuovo, non mi hanno entusiasmato particolarmente pur essendo due prodotti di medio livello, al contrario di quanto fatto da Capovilla con i suoi Cattivi Maestri, che ha rialzato l’asticella dopo un periodo un po’ di stanca, bel disco, intenso. Il ritorno degli Ufomammut, Fenice, è una bella sorpresa. Basta, il mainstream termina qui, andiamo un po’ più a fondo. Innanzitutto Bunuel, Killer Like Us è una bordata noise di grande intensità. I Messa con Close hanno sorpreso un po’ tutti ma chi si è filato i due precedenti dischi sapeva che prima o poi il capolavoro sarebbe arrivato, eccolo qui: doom, black, rock e attitudine da vendere. Tenebra, Moongazer è un viaggio a ritroso nel tempo tra stoner, hard rock, blues e potenza. Hate & Merda, Ovunque Distruggi è un concentrato di odio e violenza. Nero Kane, Of Knowledge And Revelation, oscuro, misterioso e romantico. Nicola Manzan, Nikolaj Kulikov, un viaggio onirico nell’Unione Sovietica dei vecchi tempi, ammaliante. OvO, Ignoto, mortifero e funereo noise/drone dei bassifondi. Petrolio, La disobbedienza, inusuale noise elettronico, visuale, estremo. Laika nello spazio, Macerie, due bassi e batteria per una proposta particolare. Ottone Pesante, …And The Black Bells Rang, metal jazz con i fiati. Le Pietre Dei Giganti, Veti e Culti, psichedelia, prog e riti pagani. Ut, Il Pozzo e la Piramide, ve l’ho già detto che mi piace il noise? Corteccia, Vol.1, sludge doom psichedelico. Yesterday Will Be Great, The Weather Is Fantastic, post rock e psychedelia. Le Zoccole Misteriose, Oltre la Siepe, punk hardcore scatenato. Modern Stars, Space Trips For The Masses, space rock ipnotico. Non posso continuare all’infinito, sicuramente avrò dimenticato qualcuno ed è solo la dimostrazione che il piatto è molto ricco, al di là dei ristoranti stellati ci sono le trattorie, dove forse si mangia meglio.

Premetto che sono onnivoro e volentieri ascolto un po’ di tutto ma per quanto riguarda gli artisti internazionali tralascio i nomi “classici”, che pure ho ascoltato volentieri e con grande soddisfazione (Petty e Clapton, che live!, un Neil Young ancora in palla, ecc.) e anche altri ascolti “diversi” (Bjork, The Smile, Black Country, New Road ecc.) che pure mi sono altrettanto piaciuti, per concentrarmi sulla musica che ha più attinenza con il mio mood. Per prima cosa consiglio un disco che sono sicuro non troverete in nessuna classifica visto che non so per quale motivo non se li cagano in molti (probabilmente sono io che li sopravvaluto, boh), cioè …And You Will Know Us By The Trail Of Dead, che giunti al loro undicesimo disco, XI: Bleed Here Now, ancora riescono a tirare fuori un signor album che si muove tra hard rock, metal e prog: un modo di comporre canzoni che è solo loro e sempre dal livello qualitativo altissimo. Interpol, The Other Side Of Make Believe, è forse il disco che ho ascoltato di più, l’ho trovato impeccabile, difficile, elegante, intriso di quella new wave elettrica che tanto mi piace. Il ritorno dei Cave In, Heavy Pendulum, è una botta tremenda di post hardcore con melodie che in molti si sognano. Gli Zeal & Ardor, Zeal & Ardor, continuano la loro strana coniugazione di black metal e gospel, mi piacciono perché veramente fuori dagli schemi. Dalla martoriata terra ucraina arrivano i White Ward, False Light, lunghissimo album di grande potenza, una sorta di prog-sludge ben costruito. Confermano la propria indipendenza i Darkthrone, Astral Fortress, che ancora una volta ribadiscono la propria fiera appartenenza al metal estremo degli anni ottanta. Il ritorno dei Mars Volta, Mars Volta, è un sorprendente viaggio nella musica caraibica e messicana, al solito niente di banale da loro. Off!, Free LSD, glorioso punk ancora urticante. Soul Glo, Diaspora Problems, hardcore innovativo e senza compromessi. Gli Elder, Innate Passage, sono finalmente giunti alla sintesi di tutto quanto fatto fino ad ora, prog e metal (che insieme spesso sono una grande rottura di palle) fatto bene. Gloriosi i Voivod, Synchro Anarchy, sempre un passo avanti rispetto a tutti i gruppi thrash. Boris, Heavy Rocks 2022, chevvelodicoaffare, ogni cosa che fanno mi piace. Saluto con piacere il ritorno potente degli Oneida, Success, diretto come non succedeva da tempo. Poi ci sono tanti altri dischi degni di attenzione ma non finirei più, quindi mi fermo qui. Buon Ascolto!

Daniele Ghiro

INDIGO SPARKE “Hysteria”

Indigo Sparke
Hysteria

Sacred Bones Records

Per farsi largo nel music business, un peso sul cuore (come canta in Pressure In My Chest) e una testa piena di canzoni (ce ne sono ben 14 nel suo secondo album Hysteria) possono anche bastare, ma per raggiungere il successo servono talento, fascino, carisma, trovarsi nel posto giusto al momento giusto, una casa discografica che ci creda, i musicisti all’altezza, un produttore capace di interpretare quello che gira nell’aria e soprattutto il fatidico colpo di fortuna, che al momento è l’unica cosa che manca alla giovane cantautrice Indigo Sparke.

Trovare la propria strada non è stato del tutto semplice, perché a Sydney in Australia dove è nata, Indigo Sparke ha cominciato recitando come attrice, ma le sono bastati un paio di EP per ritrovarsi in tour come supporto dei Big Thief, un’esperienza che le ha fatto capire quale fosse il suo posto, l’ha spinta a trasferirsi a New York (quale luogo migliore per chi nutre sogni di rock’n’roll?) e l’ha portata al contratto con la statunitense Sacred Bones Records, che lo scorso anno ha pubblicato il debutto Echo, prodotto da Adrianne Lenker e Andrew Sarlo, e che oggi le da fiducia stampando il nuovo Hysteria, realizzato grazie ai contributi di Aaron Dessner dei The National in veste di produttore e musicista.

Non c’é dubbio che la fanciulla sia dotata di un certo buon gusto per quanto riguarda i produttori e anche la scelta dei musicisti lascia presagire che abbia le idee piuttosto chiare, dato che ad accompagnarla in Hysteria ci sono il chitarrista straordinario Shahzad Ismaily (basta ascoltare uno degli ultimi album di Sam Amidon per intuire le ragioni dell’aggettivo) e il batterista Matt Barrick (dei The Walkmen e Muzz), che scontornano le canzoni con tenui sfumature acustiche o incisivi movimenti elettrici assecondando l’alternanza di luci e ombre che riempie i testi.

A giudicare dalle tematiche delle canzoni che secondo la cartella stampa trattano di “...amore, perdita, la sua storia e il disordine emotivo che circonda quelle sensazioni…”, Indigo Sparke si direbbe una folksinger tutta intimismo e intensità e del resto è più o meno l’impressione che suscitano ballate in punta di dita come la romantica Pluto, i sospiri seducenti di confidenze elettroacustiche come l’incantevole Real, il cosmico folk della lirica titletrack o la malinconia di serenate dall’aura country come la splendida Sad Is Love, ma come ha dichiarato Aaron Dessner fin dalla prima volta che ha ascoltato questi brani, “…c’è già così tanto qui dentro…” che è difficile trovare punti di riferimento, se non quando i graffi della chitarra in orbita lo-fi di Blue evocano magari da lontano i malumori della prima PJ Harvey o quando la vaga fragranza pop di Pressure In My Chest e il tenore elettrico di God Is A Woman’s Name fanno venire in mente l’ispirazione di cantautrici come Angel Olsen o The Weather Station.

Impossibile non essere abbastanza d’accordo con Dessner, quando ragionando su Hysteria lo descrive come “…coeso, senza tempo e ispirato in un modo che so che continuerò a riascoltare…”, perché è difficile pensarla altrimenti quando partono l’urgenza emotiva e la livida ruvidezza indie di Hold On, l’ariosa spinta folk rock di Set Your Fire On Me, il circuitare elettroacustico di una meravigliosa Infinity Honey, la mestizia folkie di Why Do You Lie?, lo sferragliare alternative di Golden Ribbons o la sensualità di ballate da plenilunio come Time Gets Eaten.

Forse a breve Indigo Sparke diventerà la nuova voce di una generazione al pari delle artiste citate sopra o magari tirerà a campare come tante altre in attesa che qualcosa succeda, anche se a giudicare dalla bellezza di Hysteria si direbbe stia accadendo proprio qui e ora.

Luca Salmini

SKULLCRUSHER “Quiet The Room”

Skullcrusher
Quiet The Room

Secretly Canadian Records

Difficile credere che nel pieno dei vent’anni, già ci si possa ritrovare a rimuginare sul passato piuttosto che fantasticare sul futuro, ma forse succede quando si hanno delle canzoni da scrivere come la giovane cantautrice Helen Ballentine in arte Skullcrusher, che negli ultimi tempi non ha fatto altro che mettere insieme le memorie e le sensazioni della propria infanzia “...attraverso un’ondata di emozioni: rabbia, tristezza, pietà, confusione, il tutto cercando una sorta di compassione e ho provato a catturare le contraddizioni che compongono il mio passato per definire chi sono ora…”.

In realtà, non è la prima volta che Helen Ballentine mostra un comportamento piuttosto precoce rispetto alla media, dato che all’età di soli 5 anni comincia a suonare il piano e ha da poco concluso l’università, quando di punto in bianco abbandona la stabilità di un lavoro presso una galleria d’arte per dedicarsi alla musica a tempo pieno: le prime canzoni arrivano nel 2019 e nei due anni successivi escono un paio di EP e altrettanti singoli, inclusa una Song For Nick Drake, che lascia intendere quale sia il verso della sua musica.

In generale, la si direbbe una folksinger sensibile e introspettiva, ma, più che raccontare delle storie, il songwriting di Skullcrusher sembra mettere insieme i pezzi, che si tratti di frammenti di emozioni, di sentimenti inespressi, di lampi d’immaginazione, di solitarie note di pianoforte, di arpeggi di chitarra, del rollio di un banjo, d’interferenze d’elettronica o di campionamenti. “…È come strati di carta velina, come se qualcuno provasse a fare un disegno e si riuscisse a intravedere l’intero processo…” dichiara l’autrice riguardo il suo metodo compositivo e deve essere con questo sistema che ha realizzato il debutto Quiet The Room con l’aiuto del multistrumentista Noah Weinman e del produttore Andrew Sarlo presso il Chicken Shack studio, non lontano dai luoghi della sua infanzia che riaffiorano nelle canzoni.

Sospeso tra i momenti più effimeri dei Big Thief e le atmosfere di un disco come For Emma, Forever Ago dei Bon Iver, Quiet The Room è un lavoro basico e dal tono confessionale, fatto dei sussurri di rarefatte ballate d’ispirazione folk dai tratti malinconici e a volte addirittura spettrali, che il giornalista Marc Beaumont del The Guardian descrive come “…inni alt-folk splendidamente diafani infestati dagli evanescenti fantasmi di piano e chitarre acustiche affogati molti anni fa in una laguna del Laurel Canyon…”.

Dal senso di malinconia che lo pervade, si direbbe che Quiet The Room nasca da un qualche dolore che tormenta l’animo sensibile dell’autrice e che la musicalità dolce e i parchi arrangiamenti delle canzoni abbiano fondamentalmente una funzione catartica e consolatoria trasformando l’ansia in quiete e la realtà in sogno o almeno è l’impressione che suscitano tenui acquerelli lo-fi come They Quiet The Room e la pianistica e struggente Window Somewhere, ariosi folk come Whatever Fits Togheter, disturbanti registrazioni sul campo come Whistle Of The Dead, minimali ballate dagli sfondi ambientali come la fantasmatica Lullaby In February, effimere nenie acustiche come Pass Through Me e l’onirica It’s Like A Secret, bucolici interludi strumentali come Outside, Playing o serenate shoegaze come la sulfurea Sticker.

In un primo momento il carattere tanto personale e in un certo senso privato delle canzoni di Skullcrusher potrebbe quasi mettere a disagio, ma una volta entrati nel mood, Quiet The Room è un disco che svela piccole meraviglie a ogni ascolto. 

Luca Salmini

Ritratti musicali 3: Liars

Ci fu un periodo, tra i primi 2000 e il 2010 soprattutto, che mi capitò diverse volte di vedere dal vivo i Liars, seguendone così l’evoluzione non solo attraverso i dischi, ma anche sul palco.

La foto che segue, raffigurante un intenso Angus Andrew, il cantante e in seguito unico membro fisso della band, fu scattata al Magnolia di Segrate (MI) il 12 maggio 2010. Il tour, molto probabilmente, era quello di Sisterworld.

Liars © Lino Brunetti

Ritratti musicali 2: Bonnie Prince Billy

A fine 2008 finalmente riuscivo a prendermi una Reflex digitale professionale, la mitica Nikon D300, con cui poi avrei fatto una marea di foto.

In quell’inverno, sotto Natale, Bonnie Prince Billy fece tre concerti in tre chiese diverse e io, ovviamente, andai a tutti e tre.

Fu anche l’occasione per provare la macchina nuova, anche se all’epoca avevo degli obiettivi che definire scarsi è poco più che un eufemismo.

Ad ogni modo, quella che segue fu scattata il 19 dicembre 2008 nella chiesa di San Martino a Grezzago. Tra i pezzi che Bonnie eseguiva con Cheyenne Mize e Emmet Kelly in quei concerti, particolarmente memorabile era Champion, che di seguito potete sentire.

Bonnie Prince Billy © Lino Brunetti

Ritratti musicali 1: Vic Chesnutt

Inizia, con questo primo post, una nuova serie di articoli denominata “Ritratti Musicali”.

Di fatto andrò semplicemente a recuperare una foto dal mio archivio e ad essa assocerò un video o comunque una canzone, senza troppi commenti.

Partiamo con un grandissimo che purtroppo non c’è più, Vic Chesnutt.

La foto fu scattata al Magnolia di Segrate (MI) il 24 marzo 2009.

Vic Chesnutt © Lino Brunetti