Non certo dei novellini alle prime armi e già autori di un (bel) disco d’esordio, tornano i Moostroo da Bergamo con il loro nuovo lavoro. Ancora una volta, come già nel precedente, la band mette in campo tutta la propria maestria nel creare un suono che parte dal folk ma che poi si evolve e si ramifica verso varie direzioni, abbracciando con nonchalance vari generi musicali, tenendo ben presente un omogeneità di fondo che amalgama alla perfezione le varie sfumature con le quali è dipinta la loro musica. Dulco Mazzoleni (voce e chitarra), Francesco Pontiggia (basso) e Igor Malvestiti (batteria) immettono immediatamente nell’apertura del disco tutta la loro inquietudine: Meteora lascia sbalorditi con quell’arpeggio iniziale, qui il folk elettrico non è relax per figli dei fiori bensì viene virato in seppia e malinconicamente spostato verso peasaggi decisamente più bui (Tardiva o precoce la vita è veloce/Nel tempo fugace l’amore ci cuce). Spolpami ha ancora dalla sua la delicatezza della chitarra che però lascia rapidamente il passo a scudisciate elettriche. Se per voi le Murder Ballads di Nick Cave significano qualcosa andatevi ad ascoltare la malata malinconia di Regalami o la riproposizione in versione acustica di Umore Nero, già presente sul primo disco e qui posta in chiusura. Il trio non si ferma qui, andando ancora più in profondità, scendendo le scale tortuose della new wave italiana con Ostinato Amore, regalandoci una versione più pop del lato oscuro dal finale momorabile. In mezzo a tutto questo c’è spazio anche per il nervosismo e le chitarre ruggenti di Oblio che tra dissonanze, distorsioni e un testo cattivo quanto basta (Sono nessuno niente mi consola/Cane malato cappio alla gola) insieme a Sul Ciglio segna il lato ruvido del gruppo. A questo punto che ne dite di un breve viaggio verso il Neil Young capace di scrivere ballate elettriche di cruda bellezza? Eccoci arrivati a Cadavere, ricca di phatos e malinconica tristezza: un grande pezzo. Lacci è un noise dall’andamento indolente, Usura è caratterizzata dalla voce di Luca Barachetti e dai suoi testi allucinogeni (Usura, sterco del nulla, bolla che strozza, arte ragioniera che ti lecca e poi s’ingozza, tarlo della fame nella tela dell’umano, e tremore della mano che lavora e si inginocchia) con un basso pulsante che crea una trama marziale di funk spurio, avvicinandosi alle grida dei CSI. Che dire, come detto in apertura il loro maggior pregio è quello di tenere bene in mano tutte le varie componenti musicali, i loro brani sono declinati attraverso una sintassi che presenta numerose sfaccettature, per niente nostalgica e proprio per questo vitale, eclettica e ricca di personalità.
GOD DAMN
Everything Ever One Little Indian/Audioglobe
Considerando che solo solamente un duo – Thom Edward a chitarra e voce e Ash Weaver alla batteria – i God Damn riversano sugli ascoltatori una tempesta elettrica d’incomparabile violenza. Ci avevano colpito con il loro esordio dell’anno scorso, Vultures, rilanciano facendo ancora meglio col nuovo Everything Ever, un disco più riuscito sotto tutti gli aspetti. Prodotte da Ross Orton (Fall, Drenge, Tricky), le tredici nuove canzoni non perdono minimamente in potenza – quel paio di ballate che ci sono, I’ll Bury You e Oh No, sono comunque torturate e seppellite dalla distorsione e solo la conclusiva Easily Misbled ha sonorità più acustiche – ma guadagnano in cura generale, mostrano una scrittura viscerale, ma più consapevole e rifinita e nell’insieme non lasciano indifferenti, soprattutto se siete fan della musica degli anni ’90. Si, perché è agli anni del grunge che guardano i due God Damn, agli ovvi Nirvana, agli Smashing Pumpkins, infilandoci un pizzico di sensibilità garage odierna, dello stoner, qualche riff sabbathiano e un po’ di psichedelia, nel tentativo di mescolare ulteriormente le carte. A rendere particolarmente rimarchevole ciascun brano, c’è poi il fatto che, nonostante il tutto sia rabbioso, abrasivo, metallico e autenticamente devastante, sia evidente una pur perversa qualità pop che, come ai tempi di Nevermind, potrebbe rivelarsi il viatico per una notorietà sempre maggiore. Intanto prossimamente passeranno dall’Italia: varrebbe la pena andare a vederli.
Il testo è la traduzione integrale e per quanto possibile letterale di un articolo apparso sul sito del quotidiano inglese THE GUARDIAN, lunedì 17 novembre 2014. Traduzione di LUCA SALMINI.
foto di Lino Brunetti
Il produttore discografico, frontman degli Shellac e autore del seminale saggio del ’93, Il problema della Musica, ha parlato a Melbourne dei vantaggi offerti da internet, della morte del sistema delle majors, della legge sul copyright e di quel “nano color porpora con le chiappe al vento”. Steve Albini è il produttore (lui preferisce il termine “recording engineer”) di parecchie centinaia di dischi. È anche un membro della band Shellac. Nel 1993, ha pubblicato Il problema della musica, un saggio in cui esponeva la sua convinzione che l’industria musicale del tempo, dominata dalle grandi corporazioni discografiche, fosse inefficiente, sfruttasse i musicisti e avesse portato ad un’impoverimento della musica stessa. Sabato (15 novembre 2004) ha dato la stoccata definitiva alla conferenza Face The Music di Melbourne, dove ha illustrato il fatto che internet ha sia smantellato il sistema sia reindirizzato le iniquità:
“Voglio prima spiegare alcune cose riguardo me stesso. Ho 52 anni, sono praticamente sempre stato in una band e, in un modo o nell’altro, sono attivo sulla scena musicale dal 1978 circa. Al momento sono parte di una band, lavoro anche come ingegnere del suono e possiedo uno studio di registrazione a Chicago. In passato sono stato inoltre redattore di fanzines, DJ radiofonico, promoter di concerti e ho gestito una piccola etichetta. Non ho riscosso un particolare successo in nessuna di queste attività, ma le ho fatte tutte, e in qualche modo costituiscono le qualifiche del mio CV.
Lavoro quotidianamente con la musica e con i gruppi musicali e lo faccio ormai da più di 30 anni. Ho realizzato all’incirca 2000 dischi per gruppi indipendenti e rock stars, per grandi e piccole etichette. Ho fatto un disco due giorni fa e ne farò un’altro lunedì non appena scenderò dall’aereo. Credo tutto questo mi ponga in un’ottima posizione per valutare lo stato dell’attuale scena musicale, il modo in cui si relaziona con il passato e quanto è accaduto nel frattempo.
Siamo tutti qui per discutere dello stato della scena musicale e della salute della comunità musicale. Comincerò col dire che sono soddisfatto ed ottimista riguardo l’attuale stato della scena musicale. E accolgo benevolmente i cambiamenti sociali e tecnologici che l’hanno determinato. Spero che le mie osservazioni diano vita ad una conversazione e attraverso il dialogo si riesca ad apprezzare quanto elastica possa essere la scena musicale, quanto sostegno possa offrire e quanto accogliente debba essere.
Ho sentito da alcuni colleghi che questi sono tempi duri: che internet ha tagliato le gambe alla scena musicale e che molto presto nessuno produrrà più della musica perché non c’è più margine di guadagno. Virtualmente ovunque si tratti di musica, è contenuta una qualche versione di questa funesta prospettiva. Le persone che erano solite guadagnare bene grazie alle royalties, ne hanno visto l’inaridimento. E le persone che si guadagnavano da vivere vendendo dischi stanno avendo problemi a vendere downloads in sostituzione dei dischi e di conseguenza non producono più dischi.
Così esiste una tacita convinzione che quei soldi, soldi persi, debbano essere ricollocati e un sacco di energie sono state investite nella discussione riguardante l’effettiva provenienza di quel denaro. Puttanate al riguardo abbondano, con ognuno impegnato a pretendere che qualcun altro paghi per lui, ma allo stesso tempo convinto di non dover pagare per nessun altro. Mi piacerebbe che questo malcontento finisse.
Vale forse la pena ricordare da che situazione proveniamo, da dove provengono tutte queste puttanate. Dagli anni ’70 fino agli anni ’90, il periodo in cui sono stato più attivo con delle band nell’ambito della scena musicale – definiamola era pre-internet – l’industria musicale era essenzialmente l’industria discografica, i dischi e le radio erano i mezzi attraverso i quali la gente veniva a conoscenza della musica e attraverso cui ne faceva esperienza. Ad essi si è successivamente unita MTV e i video degli anni ’80 e ’90, ma la relazione principale che la gente aveva con la musica si basava sulle registrazioni. C’è stata un’esplosione di gruppi e tutte le band aspiravano ad arrivare in sala d’incisione, come fosse una sorta di legittimazione.
Ma le registrazioni costituivano un’impresa rara e molto costosa, tale da non essere un traguardo del tutto scontato. Anche un semplice nastro demo comportava un considerevole investimento. Quando ho cominciato a suonare nel corso degli anni ’70 e ’80, la maggior parte dei gruppi attraversava l’intero ciclo vitale senza incidere neppure una sola nota.
Ora descriverò la scena così come l’ho osservata in America, ma sono convinto che la maggior parte delle strutture e delle situazioni che ho colto, hanno dei paralleli con quelle di altri mercati. Forse qualcuno della mia generazione potrebbe aggiungere il locale colore australiano ai miei commenti – preferirei fosse urlato con il vostro accento più marcato.
Come unità di misura dell’economia di quei giorni o di quel periodo, bisogna pensare che nel 1979 si poteva acquistare un 45 giri per un dollaro, un nuovo album per 5 dollari, andare a vedere un concerto in un club per 1 dollaro o per 7 in uno stadio. So queste cose perché conservo ancora le matrici di vecchi biglietti e molti miei dischi hanno gli adesivi con il prezzo. Da notare la relativa corrispondenza tra i costi dei concerti e quelli dei dischi. Una graduale inflazione si è verificata nel corso degli anni ’90, elevando il costo dei dischi, che pur rimanevano il principale mezzo con cui gli ascoltatori avrebbero potuto fare esperienze.
L’intera industria discografica dipendeva dalle vendite, e le vendite dipendevano dall’esposizione che la musica riusciva ad ottenere. I gruppi che incidevano per grosse etichette andavano in tour per promuovere i propri dischi. E le etichette fornivano supporto tecnico e logistico in modo che le bands potessero continuare a fare concerti. Questo alimentava una rete di agenti e managers e roadies e staff promozionali, che faceva lievitare le spese.
I negozi al dettaglio offrivano inoltre collocazioni speciali e promozioni: displays, posters, menzioni in annunci su carta stampata, volantini, ninnoli e quelli che erano chiamati espositori. Le case discografiche pagavano generosamente per queste forme di promozione e i negozi utilizzavano la vendita di questi oggetti come ulteriore introito. Le grosse catene in particolar modo si affidavano a grandi promozioni corporative, incuranti di quello che i singoli negozi ritenevano fosse adatto al proprio tipo di clientela. Non era per niente insolito vedere enormi cartonati riguardanti gruppi di hair metal campeggianti in rivendite urbane dove non avrebbero potuto avere alcun riscontro, ma visto che l’etichetta li aveva pagati, perché non esporli comunque.
foto di Lino Brunetti
Le stazioni radio avevano un’influenza enorme sul pubblico. Le radio erano il solo mezzo con cui ascoltare musica di qualsiasi tipo e le compagnie discografiche pagavano profumatamente per pilotarle. Le bustarelle erano illegali ma questo era solo un triviale raggiro. I promotori di dischi che agivano da consulenti dei programmi costituivano il tramite. Pagavano le stazioni radio per raggiungere chi curava la programmazione e dirigevano incontri durante i quali spingere le ultime uscite.
Queste offerte promozionali erano parecchio lucrative. Ma la loro metrica dipendeva dal fatto che le stazioni radio avrebbero aggiunto quei dischi alla loro playlist. Per soddisfare questa richiesta e garantire il flusso di denaro, spesso le stazioni radio facevano girare minuscoli frammenti di canzoni impastate l’una con l’altra in un’incomprensibile sequenza durante le ore più tarde della programmazione, giusto per adempiere alla richiesta che determinati brani venissero aggiunti alle playlists. Le radio più popolari organizzavano anche enormi concerti, spesso non retribuiti o a copertura parziale in cui erano compresi i gruppi che le etichette stavano promuovendo. Per le bands queste esibizioni radiofoniche gratuite rappresentavano una spesa da detrarre dalle entrate dei tour, ma si supponeva che il valore promozionale ottenuto sarebbe valso la spesa.
Giornalisti ed editori che potevano piazzare delle recensioni, direttori di programmi e DJ indipendenti che potevano aggiungere i dischi alle loro playlist o suonarli nei locali, erano oggetto di ulteriori lusinghe. Gli venivano inviati ammennicoli e copie promozionali dei dischi. A volte per posta. Presumibilmente erano copie per l’ascolto o destinate all’archivio. Ma erano a tutti gli effetti una forma di corruzione. Le copie promozionali venivano immediatamente rivendute ai negozi di seconda mano e come risultato non era insolito che un negozio avesse sovrabbondanza di un disco addirittura prima della sua pubblicazione regolare. Mia moglie lavorava in un negozio che negli anni ’90 acquistava dischi di seconda mano. E i loro più assidui clienti, di gran lunga più fedeli di chiunque altro, erano le persone che figuravano nelle liste di nomi delle case discografiche. Per un certo periodo il personale del suo negozio ha tenuto un registro, da cui è risultato che l’editore della sezione musicale del settimanale locale riusciva a mettere insieme un secondo stipendio della cifra di 1000 dollari o più, solo vendendo quelle copie promozionali.
Era un sistema pieno di buchi, regolato dall’inefficienza, ma un sacco di gente sopravviveva grazie ad esso. Proprietari di negozi di dischi, compratori, impiegati, agenti pubblicitari, designers, proprietari di locali, rappresentanti delle etichette, A&R, produttori, studi di registrazione, pubblicisti, avvocati, giornalisti, direttori di programmi, distributori, tour managers, booking agents, band managers, e tutti i servizi accessori che richiedevano: servizi bancari, spedizioni, stampaggio, fotografia, agenzie di viaggio, limousine, guardaroba, spacciatori, prostitute. A causa di questo grosso carico l’industria aveva bisogno di sostenersi. Ogni aspetto dell’industria era cucito sartorialmente su misura per soddisfare questo bisogno.
Il più significativo esempio di questa manifattura sartoriale era un trucco contabile chiamato indennizzo dei costi. I costi che comportava la realizzazione di un disco non erano coperti dalla casa discografica, tranne nelle fasi iniziali. Quei costi erano indennizzati o detratti dalle entrate che le bands avrebbero ottenuto in termini di royalties. Lo stesso vale per tutte quelle copie promozionali, i posters, i promotori radiofonici e gli uomini delle bustarelle, produttori, pubblicitari, il supporto durante i tour, le immagini 8×10 su carta patinata, le spedizioni, le merci – in pratica qualsiasi cosa possa essere associata a una specifica band o a un disco era alla fine pagata dalla band, non dall’etichetta.
Quando si è passati dal vinile al CD quale formato predominante, le etichette hanno potuto vendere il CD come un modo di ascoltare musica più conveniente, compatto e privo di problemi. I margini di profitto sono esplosi e la quantità di denaro in gioco è diventata stupefacente. Il costo al dettaglio di un CD si era dimezzato eppure era due volte più alto di quello di un LP ma le spese di manifattura, spedizione e magazzino erano una minuscola parte. Le etichette hanno anche utilizzato l’eredità del vinile come strumento per incrementare i propri profitti addebitando alle band la realizzazione di confezioni uniche, per via del fatto che il contenitore del CD era stato appositamente progettato per essere sempre identico. O addebitando preventivamente l’eventuale rottura di CD ad un tasso tale da far pensare che qualcuno avesse assalito il magazzino armato di un’ascia.
Alle fine i gruppi che operavano all’interno di questo sistema guadagnavano molto poco dalle vendite dei dischi, a meno che non fossero delle assolute celebrità. Spesso un certo numero di bands ha trascorso l’intera carriera con la stessa etichetta e non ha mai accumulato abbastanza indennizzi da guadagnare alcunché. Le etichette facevano il loro profitto unitario su ogni singolo disco venduto. E potevano ammortizzare il costo di ogni disco invenduto. Tutte le altre persone venivano pagate usando i soldi che altrimenti sarebbero spettati alla band come royalties. Ovviamente, tutte le altre persone venivano pagate bene. La ragione è che se l’etichetta ti sta pagando con i soldi di qualcun’altro, non si preoccupa di quanto elevato sia l’importo dell’addebito.
Durante gli anni ’90 c’è stata una specie di braccio di ferro per stabilire chi avrebbe stipulato l’affare più grosso. Cioè, l’affare con la maggior quantità di denaro spesa sulle spalle della band. In un contesto particolarmente insensibile l’alternativa era tra il dare il denaro alla band come royalty, che avrebbe poi portato quella somma fuori dal sistema per investirlo in cose come case e alimentari e istruzione. Oppure usarlo per pagare altri operatori all’interno dell’industria, aumentando l’influenza e il prestigio della persona che operava l’investimento. Come se il vostro principale invece di pagarvi lo stipendio, desse quel denaro ai suoi amici e ai soci in affari, evocando il vostro nome nel momento in cui lo fa. Visto che il suo costo netto sarebbe identico e che i suoi amici e soci potrebbero rendergli il favore, perché dovrebbe lasciare che quel denaro finisca nelle vostre mani? Era un sistema che garantiva lo spreco ricompensando gli spendaccioni più dissoluti in un sistema specificamente progettato per sperperare il denaro delle bands.
foto di Lino Brunetti
Esistevano anche delle bands al di fuori di questo spettro. Le formazioni operaie del tipo di cui io ho sempre fatto parte, e per quelle bands è sempre stato tutto più piccolo e semplice. La promozione funzionava essenzialmente attraverso dei volantini attaccati ad un palo, qualche occasionale citazione nelle radio di college e nelle fanzines. Se avevi un concerto in un locale che non faceva pubblicità, allora dovevi affrontare la seria prospettiva di suonare di fronte ad una sala vuota. I mezzi di comunicazione locali non prendevano le bands sul serio fino al momento in cui non se ne parlava a livello nazionale così potevi scordarti una qualsiasi copertura stampa. E il circuito delle radio commerciali era precluso dal sistema guidato dalle bustarelle dei promotori e dei direttori di programmi.
L’esposizione internazionale era estremamente costosa. Affinché un tuo disco giungesse oltreoceano dovevi convincere un distributore ad esportarlo. Ed era piuttosto difficile senza mezzi attraverso i quali qualcuno potesse ascoltare il disco e decidere di comprarlo. Così si finiva con lo spedire copie promozionali oltreoceano a costi altissimi, senza alcuna certezza che venissero effettivamente ascoltate.
L’unica eccezione fu il brillante DJ della BBC John Peel. Ascoltava religiosamente ogni disco ricevuto per posta, dedicando diverse ore ogni giorno a questo compito. Gli ho mandato una copia del mio primo album in assoluto e non solo l’ha fatto sentire in trasmissione, ma mi ha inviato una cartolina con un suo personale ricordo di Chicago, di quando da bambino aveva fatto visita ad una zia a Evanston, il sobborgo dove tenevo la mia cassetta della posta. Ho fatto tesoro di quella nota come prima indicazione che John Peel fosse un grand’uomo.
Queste band indipendenti dovevano essere piene di risorse. Dovevano costruirsi una propria infrastruttura di locali indipendenti in cui suonare, promoters, fanzines e DJ. Avevano canali esclusivi di promozione, inclusi i prodromi della cultura di internet che prevale oggi – cioè spedizione di bollettini informativi e notiziari. Queste bands indipendenti hanno perfino fondato etichette proprie. Alcune erano collettive e quelle che non lo erano, erano disposte ad operare sulla base di una condivisione dei profitti che incoraggiava l’efficienza, piuttosto che un sistema basato su un patronato dell’ammortamento che incoraggiava l’indulgenza.
E’ dove mi sono fatto i denti, in quella scena indipendente piena di punks e strambi rumoristi e travestiti e compositori sperimentali e farneticanti poeti da strada. Bisogna ringraziare il punk rock per tutto questo. E’ dove la maggior parte di noi ha imparato che era possibile realizzare i propri dischi, dirigere i propri affari e mantenere il controllo della propria carriera. Se un branco di brufolosi sniffatori di colla ce l’ha fatta, ragionavamo, allora può farlo chiunque.
Il numero di dischi realizzati in questo modo è incredibile. Migliaia di piccole pubblicazioni trovarono la strada nei negozi specializzati a conduzione familiare, che cominciarono a formare un mercato per la distribuzione indipendente. Era l’inizio di un’alternativa al paradigma delle etichette. E’ stato un processo pieno d’impacci e piuttosto lento, ma è presto diventato più efficiente di un approccio lampo con le grosse etichette, la cui risposta ad ogni problema era aumentare la quantità di denaro spesa direttamente dalla tasche della band.
Era l’inizio di quella che chiameremo la rete paritaria. Nella meta degli anni ’90 c’erano etichette indipendenti e distributori capaci di muovere milioni di dollari di dischi e CD. E c’era una sana e sotterranea economia fatta da bands capaci di realizzare ragionevoli guadagni grazie alla maggiore efficienza del metodo indipendente. La mia band, per esempio, aveva un ritorno pari al 50% del profitto netto su ogni titolo pubblicato tramite la nostra etichetta. Ho elaborato questi valori e ne è risultata una royalty per ogni pezzo venduto superiore a quella incassata da Michael Jackson, Bruce Springsteen, Prince, Madonna o di qualsiasi altra superstar. E noi eravamo solo una tra le migliaia di bands.
Questo è il sistema com’era allora. Questo è quanto abbiamo perso quando internet ha reso tutto disponibile ovunque gratuitamente. E non vi sbagliate, l’abbiamo perduto. C’è ancora un circuito di etichette indipendenti ma è un segmento molto piccolo rispetto a com’era prima. Le etichette che sopravvivono, lo fanno proponendo musiche di nicchia ad un pubblico selezionato. E poiché si sono temprate nell’arte dell’efficienza, la loro costituzione gli consente di ridimensionare ogni cosa in modo da soddisfare l’esigua domanda.
Avrete certamente notato che nella mia analisi della scena musicale di massa e dell’industria dell’era pre-internet ho menzionato poco sia il pubblico che le bands. Queste due estremità dello spettro erano infatti poco considerate del resto degli affari. Ci si aspettava che i fans ascoltassero la radio e comprassero i dischi e che le band li facessero e andassero in tour per promuoverli. E queste erano le uniche preoccupazioni che riguardassero entrambe. Ma il pubblico era la fonte di tutto il denaro e le bands la sorgente di tutta la musica.
Attraverso internet, che più di ogni altra cosa offre libero accesso alle cose, illimitate quantità di musica sono disponibili gratuitamente. Le grosse compagnie discografiche non sono riuscite a capire come fare denaro dalla distribuzione in rete così l’hanno del tutto ignorata, lasciando che gli hackers e gli ascoltatori generassero un nuovo scenario attraverso il downloading. Chi preferisce la convenienza del CD sull’LP di conseguenza apprezzerà ancora di più il downloading. E’ possibile scaricare musica, ascoltarla in streaming o da YouTube oppure i tuoi amici o conoscenti possono inviarti dei file compressi. In un batter d’occhi la musica si è trasformata dall’essere rara, costosa e disponibile attraverso supporti fisici venduti in specifici negozi all’essere ubiqua e gratuita in tutto il mondo. Che evoluzione fantastica.
foto di Lino Brunetti
C’è un sacco d’ombra gettata dalle persone dell’industria discografica riguardo quanto sia terribile la libera condivisione della musica, quanto sia l’equivalente di un furto, ecc… Sono tutte stronzate e ce ne occuperemo tra un minuto. Ma per un minuto vorrei che consideraste l’esperienza musicale dal punto di vista dell’appassionato post-internet. Musica difficile da trovare è ora alla portata di tutti. Musica che soddisfa i miei gusti personali, per quanto strampalati possano essere, è ora disponibile con pochi click oppure inviando una richiesta ad una casella di posta. Al momento è disponibile quanta più musica abbia mai immaginato. Curata da altri appassionati, pronti a convertirmi alla roba buona, persone, che come me, desiderano che anche gli altri possano ascoltare la miglior musica di sempre.
Questa distribuzione musicale gestita dal pubblico stesso ha altri benefici. Musica ormai dimenticata da tempo sta avendo una seconda vita. E i gruppi la cui musica era in netto anticipo sui tempi ha ora la possibilità di raggiungere un pubblico di nicchia che la vecchia distribuzione massificata non è riuscita a trovargli, visto che ogni entusiasta ne attira altri e alla fine questa musica dimenticata riceve quanto dovuto. Esiste un bellissimo documentario a riguardo, il caso della band di Detroit Death, il cui unico album è stato pubblicato in un’edizione marginale nel 1975, credo, e scomparso fino a quando una copia non è stata digitalizzata e resa pubblica su internet. Gradualmente la band ha trovato un pubblico, la musica è stata amorevolmente ristampata, e la band è risorta, con tanto di concerti di fronte a platee esaurite. E tali bands hanno oggi la possibilità di quella carriera che il vecchio star-system gli ha negato. Ci sono centinaia di storie come questa e ci sono etichette specializzate che non fanno altro che pubblicare classici perduti nel momento stesso in cui riaffiorano.
A questo punto consideriamo le attuali condizioni dal punto di vista di una band, le condizioni a cui una band si trova di fronte. In contrasto con quanto accadeva un tempo, gli impianti di registrazione e la tecnologia si sono semplificati e sono diventati disponibili all’istante. I computer escono con pre-caricati dei programmi che consentono la registrazione di un demo decente e i negozi di strumenti vendono microfoni e altre attrezzature a prezzi irrisori che precedentemente erano disponibili solo ad una qualità elevata presso arcani e specialistici fornitori. Fondamentalmente ogni band oggi dispone delle risorse per effettuare delle registrazioni.
E possono anche fare altre cose con quelle registrazioni. Possono postarle in rete su un’innumerevole quantità di siti: Bandcamp, YouTube, SoundCloud, il loro sito web. Possono creare dei collegamenti sui forum in rete, Reddit, Instagram, Twitter e anche nei commenti della loro musica. “LOL”, “fa schifo”, “molto meglio”, “a morte il falso metallo”, “LOL”. Invece di spendere una fortuna in chiamate internazionali per trovare qualcuno in ogni territorio disposto ad ascoltare la loro musica, ogni band del pianeta ha libero, immediato accesso al mondo sotto i suoi polpastrelli.
Non credo di esagerare sottolineando l’importanza di un tale sviluppo. Precedentemente, il paradigma dall’alto verso il basso consentiva all’industria locale di dettare legge riguardo a quale musica potesse essere resa disponibile in mercati remoti o isolati, mercati isolati per posizione geografica o linguaggio. Era inconcepibile che una piccola band indipendente potesse operare penetrazione di mercato in, diciamo, Grecia o Turchia, Giappone o Cina, Sud America, Africa o nei Balcani. A chi si sarebbe potuto chiedere di commercializzare la propria musica? Come si sarebbe potuto conoscere qualcuno in grado di farlo? E come si sarebbero potute giustificare le complicazioni relative agli affari o alla valuta che sarebbero sorte con l’invio di quattro o cinque copie di un disco in quei paesi?
Oggi quei luoghi sono serviti quanto New York o Londra. I fans sono in grado di trovare una musica che a loro piace e sviluppare relazioni direttamente con i gruppi. É del tutto possibile – sono sicuro accada ogni giorno – che un ragazzino che abita in uno di questi posti decentrati possa scoprire una sua nuova band preferita, mandi un messaggio alla band, che il cantante di quella band legge e a cui risponde personalmente dal suo cellulare dall’altra parte del mondo. Quanto è meglio così? Ve lo svelerò, è infinitamente meglio che avere un rapporto con una band limitato alla lettura delle note di retrocopertina dei dischi. Se una cosa così fosse stata possibile quando ero adolescente, sono certo che sarei diventato un bel fastidio per i Ramones.
Un paio d’anni fa la mia band ha messo insieme un tour nell’Europa dell’Est. Abbiamo suonato in tutte le principali nazioni: Repubblica Ceca, Polonia, Croazia, Slovenia, Macedonia, Bulgaria, fino ad arrivare ad Istanbul in Turchia. É stata un’esperienza magica, suonare di fronte ad un pubblico relativamente estraneo alla routine delle bands in tour, da cui siamo stati accolti come amici. Abbiamo suonato in locali pieni e delle stesse dimensioni del resto d’Europa. Le stesse dimensioni che troveremmo se suonassimo qui in Australia. E il pubblico aveva una certa familiarità con la nostra musica. Con l’unica differenza che in quei luoghi non abbiamo letteralmente mai venduto un solo disco. Praticamente il 100% della nostra esposizione mediatica era avvenuta tramite mezzi informali su internet o attraverso il passaparola.
Nel corso di quel viaggio abbiamo stabilito contatti con promotori locali e organizzatori di eventi artistici e il pubblico ha maturato una passione per la nostra musica e da allora abbiamo cominciato a vendere qualche disco anche in quelle zone. Il nostro tour successivo è stato più facile grazie a quelle conoscenze e torneremo di nuovo a Istanbul la prossima primavera, utilizzando i contatti sbocciati durante quel primo viaggio d’esplorazione. Mi aspetto di trascorrere momenti meravigliosi.
In breve, internet ha reso molto più facile amministrare tutti gli affari correlati all’essere in una band ed ha incrementato l’efficienza. Tutto dal programmare le prove attraverso calendari on-line, fino alla raccolta di fondi per la realizzazione di un disco è di una tale inedita semplicità per cui le bands dell’era pre-internet avrebbero sbavato. Il vecchio sistema è stato costruito dall’industria per servire quei musicisti che stavano all’interno dell’industria. Il nuovo sistema dove la musica è condivisa in maniera informale e le bands hanno un rapporto diretto con i propri fans, è stato costruito dalle band e dai fans alla stessa maniera del vecchio underground. Salta tutti i livelli intermedi.
foto di Lino Brunetti
I gruppi hanno il controllo diretto della propria esposizione mediatica. Non c’è più bisogno di pagare qualcuno che paga qualcun altro per suonare i tuoi dischi alla radio, ottenendo come risultato una menzogna. Non è più necessario spendere dei soldi perché qualcuno possa sentire la tua band. Accade spontaneamente.
C’è un ulteriore e più sottile mutamento innescato da tutto questo. Dal momento in cui le persone non sono più obbligate ad ascoltare solo quanto figura nelle playlist delle radio o non hanno più alcun limite imposto dal solo materiale che i rivenditori hanno in stock, sono diventati molto più indulgenti riguardo i propri gusti. I miei amici ascoltano normalmente delle esotiche playlist che hanno ideato da soli, piene di scelte controintuitive e contrastanti che sono comunque unicamente le loro.
Il responsabile del nostro ufficio ha un impianto stereo nel suo studio ed è tanto probabile che lui stia suonando il nuovo singolo della band hardcore Leather o l’electro drone di Tim Hecker quanto un oscuro soul di Cincinnati o disco music da supermercato o improvvisati scarabocchi di chitarra, sia che essi provengano da una nuova pubblicazione di Oren Ambarchi sia che abbiano 30 anni e provengano da incisioni Takoma. La gente può ora ascoltare solo la musica che li manda in estasi, sempre.
Ci sono comunità attive online per ogni tipo di musica e i suoi sottogeneri. Che ascoltiate il reggae di Dusty’s Deep Cut, l’elettronica minimale, il pop sinfonico, il Texas blues, il noise giapponese, l’elettronica dura, la musica per bambini, le musiche di natale, Raymond Scott o Burl Ives, esiste una comunità in rete dove potete entrare in contatto con altri entusiasti del genere e indulgere nella più minuziosa specificità dei vostri gusti.
Queste comunità di rete sono ormai una parte vitale della scena e dibattiti come questo ed altri ancora sono contemplati quotidianamente. Probabilmente ho maturato inconsciamente alcune delle posizioni contenute in queste mie osservazioni nel corso di discussioni che ho avuto in rete e mi fa piacere confessare questo plagio ora, in modo da incoraggiarvi a lasciarvi coinvolgere in questi forum dove hanno luogo tutte le conversazioni più interessanti riguardo alla musica.
Immaginate una enorme sala piena di feticci dove sia racchiusa qualsiasi cosa vi faccia immaginare il sesso attivo o quello passivo, perché comunque spesso i vostri gusti possono cambiare, non importa di quale attrezzatura o protezione abbiate bisogno, potete spalancare le porte e avere tutto lì su un comodo materasso a qualsiasi ora del giorno. Questo è quello che è diventato internet per gli appassionati di musica. In più candidi posti a sedere riservati alla sezione applausi.
Come risultato i fans mostrano una passione più profonda per la musica. Desiderano trascorrere più tempo a vederla suonare dal vivo. Desiderano acquistare più frivolezze e smaniano per stabilire una relazione personale con coloro che fanno musica. Di conseguenza i prezzi dei concerti sono lievitati. E i tavoli del merchandising sono universalmente oberati di lavoro. Da noi, concerti che costavano 5 o 6 dollari ora ne costano 20 o 30. Oggi l’inflazione dei biglietti è più pronunciata, con concerti in piccoli locali che arrivano agli 80 dollari. Di conseguenza gli incassi dei concerti sono aumentati esponenzialmente per i gruppi. La mia band ha perlopiù suonato negli stessi posti per gran parte della sua esistenza, oltre i 20 anni per ora. Si potrebbe dire che abbiamo già in qualche modo saturato tutto il nostro pubblico, non importa per quanto tempo andremo avanti ancora. Alcuni di questi concerti in locali ormai noti stanno ora offrendo un incremento nettamente superiore a quello di 10 o 15 anni fa. Alcuni locali in cui guadagnavamo 400 o 500 dollari adesso ci rendono 4000 o 5000 dollari.
La facilità d’accesso, l’interesse raddoppiato e l’aumento degli introiti hanno creato una nuova partnership e nuove possibilità tra gli individui, bands e artisti del video, chi realizza film on line, coreografi e altro genere di personaggi pubblici. Le collaborazioni avvengono in tempo reale o dislocate su internet, dove le parti non si incontrano neppure. Ho un caro amico che l’anno scorso si è ritrovato con del tempo libero e ha formato un paio di gruppi nuovi. Una di queste band era formata esclusivamente da persone che conosceva solo in rete e tutta la loro musica è stata realizzata attraverso collaborazioni accadute in rete. Quella musica è il mero risultato dell’interconnettività di internet.
Tutto questo, tutte queste caratteristiche, tutte queste opportunità sono scaturite e rese possibili dalla condivisione in rete della musica. Se non direttamente, come nel caso di dover creare un pubblico per la band Death e nel caso della mia band di doverlo trovare nei Balcani e oltre, allora indirettamente cambiando le aspettative degli ascoltatori e dei musicisti.
Questo spiega il mio entusiasmo per i cambiamenti occorsi alla scena musicale, ma che dire riguardo il mio ottimismo? Vorrei sottolineare un luogo comune che riguarda l’esposizione in rete della musica. Oggi lo si sente sempre più spesso citato dalle parti in gioco, questo è il luogo comune: “Dobbiamo capire come fare in modo che la distribuzione via internet sia funzionale per tutti”. Utilizzo dei gesti delle dita per indicare la mia distanza da questa citazione. Ho un amico, Tim Midgett, che usa tre dita per indicare una dose esagerata di ironia. In questo caso ne servirebbero almeno due.
Non sono d’accordo con questo luogo comune piuttosto innocuo. É innocuo e insulso e comincia ad aleggiare non appena qualcuno domanda: “Com’è la scena musicale contemporanea?”. Inoltre mantiene viva la speranza che al momento il summenzionato stato degli affari, che si presume tragico, possa essere migliorato. Per “tutti”. La parola tutti è importante per le persone che usano quella frase. Nella loro mente il sistema di distribuzione fisico funzionava per tutti. Il nuovo non funziona. Non ancora almeno, non ancora. Non fino al momento in cui “capiamo”. Sono sicuro che ci annoieremo presto provando a capire (serie di gesti)
Non sono d’accordo che il vecchio sistema sia migliore. E non credo che questa frase abbia alcun fondamento: “Dobbiamo capire come far funzionare per tutti questa distribuzione digitale”. Sono contrariato perché nella banalità dell’assunto sono nascosti taciti presupposti: la struttura di un sistema speculativo con cui ho lottato una vita intera. In quella frase scontata “Dobbiamo capire come farlo funzionare per tutti”, si nasconde lo scheletro di un mostro.
Cominciamo dall’inizio “Dobbiamo capire”: il soggetto della frase, la prima persona plurale, suona inclusivo ma il contesto demolisce questo presupposto. Chi avrebbe le potenzialità per rendere operativo un nuovo modello di distribuzione? Chi siederebbe al tavolo nel caso dovessimo discuterne la pianificazione? Chi analizzerebbe i termini della comprensione che si suppone dovremmo ottenere? L’industria e i consumatori? I consumatori sarebbe una risposta probabile, ma i consumatori hanno mai avuto alcuna possibilità di voto riguardo a come la loro musica dovrebbe essere compressa o etichettata o protetta da copia o resa volatile? Qualcuno ne ha mai avuto l’opportunità? Il consumatore ha avuto la capacità di scegliere se la Apple dovesse o meno piazzare un disco degli U2 nella sua libreria di iTunes? Naturalmente no. Queste cose sono state fatte e abbiamo dovuto confrontarci con esse come fatto acquisito. I consumatori che si ribellano o si lamentano delle cose – “rifiuto del mercato” – non è la stessa cosa che essere coinvolti nella decisione di fare una determinata azione. Chiaramente il “noi” della frase non include gli ascoltatori. Penso che ogni tentativo di organizzare la scena musicale che non tenga conto degli ascoltatori sia destinato all’insuccesso.
Che ne dite dei gruppi allora? Pensate che le bands debbano prendere posto al tavole del “noi”, mentre si confrontano i nostri bisogni di comprensione? Naturalmente no. Se chiedete ad una band cosa vuole – lo so perché sono in una band e ho a che fare con altre bands ogni giorno – è solo la possibilità che la propria musica abbia un’esposizione e la possibilità di venir retribuita dal proprio pubblico. Penso che l’attuale modus-operandi soddisfi in pieno la prima di queste condizioni e la seconda almeno in pari misura al vecchio modello delle etichette discografiche.
Allora chi sarebbe questo “noi”? Le parti amministrative della vecchia industria discografica, ecco chi. Le etichette a sistema verticale che detengono i diritti di molta musica. Loro vogliono capire. Vogliono stabilire l’agenda. E vogliono armeggiare a livello strutturale. Le bands, il pubblico, chi fa la musica e chi la compra – sono palesemente fuori discussione.
foto di Lino Brunetti
Che dire della parola “dobbiamo”, noi “dobbiamo” capire? Dobbiamo significa in effetti “vogliamo”, una preferenza. Questi avanzi dell’industria discografica sono chiaramente insoddisfatti di come internet, le bands e il pubblico possano fare del tutto a meno di loro. Così preferirebbero cambiare le cose in modo da ristabilire la loro importanza. Lo si può notare nell’ondata di contratti a 360 gradi che si stanno offrendo ultimamente, secondo cui ogni cosa fatta dalla band, dalla musica alle magliette fino agli account di Twitter, sono proprietà della casa discografica. In cambio l’etichetta offre una somma iniziale. Credo che questo sistema sia destinato al fallimento per via dell’esistenza di siti come Kickstarter, che si è dimostrato più efficace ed efficiente nel raccogliere fondi direttamente dal pubblico che vuole sostenere la musica.
Vogliamo parlare anche del verbo infinito “capire”? Dobbiamo “capire”. Si suppone che dovremmo sapere come attaccare un’impresa di distribuzione globale molto tempo dopo che internet ha autofinanziato una maniera efficiente ed indolore per fare esattamente la stessa cosa. C’è una ragione perché il rubinetto dell’acqua non è cambiato radicalmente nel corso degli anni. Il tempo e l’esperienza hanno dimostrato che il modo migliore e più semplice per regolare l’acqua calda è la rotazione di una manopola. Risolto il problema, non esistono altri problemi da risolvere riguardo il rubinetto dell’acqua. Non credo di essere il solo ad essere costantemente infastidito dal frequente mancato allineamento dei rubinetti nei bagni pubblici. Provate ad immaginare se l’ascolto della musica fosse altrettanto frustrante.
La parte successiva della frase: “far” funzionare la distribuzione. Questo implica che si abbia il controllo della distribuzione, che si abbia la possibilità di fargli fare determinate cose e non altre. Internet prova che questa è una fallace illusione. Una volta che abbiamo rilasciato della musica, essa è al di fuori del nostro controllo. Uso il termine “rilasciare” perché è parte del gergo comune. Ma penso sia la parola perfetta. Ancora più appropriata, se si pensa a cosa accade quando si rilasciano altre cose, diciamo un uccello o un peto. Quando li si rilascia essi sono liberi nel mondo e il mondo reagirà alla loro presenza o li utilizzerà come meglio conviene. Il peto farà arricciare il naso fino al momento in cui non svanisce. L’uccello potrebbe volare all’esterno e cacare su qualche parabrezza; qualche contadino potrebbe perfino sparargli. E’ stato rilasciato così non abbiamo più alcun controllo su di lui. Non si può far tornare il peto, per quanto lo si desideri. Non è possibile proteggere l’uccello.
Distribuzione è una parola problematica. Il suo significato primario implica scarsità e stanziamento di prodotti fisici. Li si può inventariare, li si potrebbe tassare, sdoganare e si potrebbe cercare qualcuno che li imballi. Nessuna di queste azioni è valida per i files digitali. Se fosse possibile ricondurre i files digitali allo stretto controllo delle case discografiche (è possibile, non preoccupatevi), quale sarebbe il loro incentivo per rimanere onesti nel calcolo? Nel modello di distribuzione fisica era possibile inventariare i titoli in magazzino con una verifica e compararli con i documenti di consegna dell’impianto di stampaggio dei dischi, e sapere con un buon grado di accuratezza quante copie erano state vendute. Come si può pensare di inventariare dei files digitali? Contare quanti ne sono rimasti sullo scaffale?
Quella è una parola problematica. Ma il termine più problematico della frase è “funzionare”: dobbiamo capire come farla “funzionare”. Funzionare è un termine impossibile applicato a questo contesto. A seconda di chi lo utilizza, può avere significati contraddittori. Per un’etichetta il sistema funziona se genera un profitto per ogni riproduzione, accesso controllato alla musica per consentire alle compagnie pubblicitarie di arrivare al pubblico e quindi generare ulteriori profitti, e permettere l’applicazione di un marketing di spinta per le promozioni. Per l’ascoltatore “funzionare” significherebbe invece libero accesso, possibilità di trovare musica specifica o di nicchia, assenza di limiti alla riproduzione, mancanza di disturbi, facilità d’uso, libertà dallo spionaggio, costi minimi o del tutto assenti, possibilità di utilizzo su diversi apparecchi, assenza del marketing di spinta e della pubblicità. Per una band il termine significherebbe scovare un pubblico e non avere barriere che ne ostacolino il coinvolgimento, e nessun limite alla quantità di materiale reso disponibile. Si può osservare chiaramente in che termini tutto questo sia problematico. Per un sistema è letteralmente impossibile soddisfare contemporaneamente tutte queste esigenze quando sono in contraddizione tra loro.
E gli approcci ibridi finora tentati sono goffi e offensivi. Recentemente ho provato ad ascoltare in streaming un podcast su un sito con una licenza ufficiale. Quando i miei gatti hanno cominciato a litigare mi sono assentato per un momento, costretto a separarli e poi nutrirli e infine calmarli. Quando sono tornato al computer, ho provato a ri-suonare gli ultimi minuti del podcast che mi ero perso ma mi è comparso un messaggio che specificava che a causa di accordi sul copyright, il player non era autorizzato a tornare indietro col podcast. Mi è sembrato inimmaginabile che chi aveva postato il podcast volesse che quella opzione fosse disabilitata. E il sito assicurava che non avrei più avuto problemi con il loro prodotto.
La conclusione della frase, “per tutti” è altrettanto problematica. Non penso sia necessario o perlomeno preferibile coinvolgere chiunque nella definizione dell’esperienza con la musica o più in generale del rapporto tra una band e il suo pubblico. Accettiamo di norma che i negozi di dischi, che erano il volto benevolo dell’industria e il recipiente per tutto il supporto promozionale descritto in precedenza, non si stanno adeguando allo sviluppo dell’era digitale. Il fattore d’attrazione dei negozi di dischi adesso risiede nel mercato dei dischi di seconda mano, qualcosa che l’industria discografica considerava come spazzatura. E trattando materiale specifico e di nicchia che è troppo marginale per l’attenzione delle corporazioni, non sono chiaramente parte del “tutti” citato nella frase.
Così non c’è alcuna ragione di insistere affinché altre agenzie ed uffici ormai obsoleti di un’era estinta siano traghettati nella nuova. L’industria musicale si è ridotta. Nell’opera di restringimento ha perso il baricentro, lasciando che le bands e il pubblico consolidassero la propria relazione dalle proprie posizioni estreme. Lo considero un processo salutare e al tempo stesso eccitante. Se abbiamo imparato qualcosa nel corso degli ultimi 30 anni, è che, abbandonati ai propri mezzi, le bands e il proprio pubblico possono intendersi a meraviglia: le bands sono riuscite a capire come esporre la propria musica ad un pubblico e il pubblico capirà come ricompensarle.
Internet ha facilitato l’instaurarsi di un rapporto tra gruppi e pubblico, che è il più diretto, efficiente e compatto di sempre. E non rimpiango la perdita di tutti quegli uffici dediti all’inefficienza che sono scomparsi nell’attuarsi del processo. Suppongo che della gente sia senza lavoro. Ma la stessa cosa è successa quando l’automobile ha sostituito il cavallo, e tutti i fabbri hanno dovuto adattarsi, trascorrendo il loro tempo facendo cancelli da giardino anziché ferri di cavallo.
Stamattina in aereo mentre rileggevo queste note mi sono accorto di aver impiegato troppo tempo facendo una conta delle proteste e non voglio concludere senza ribadire quanto terribile sia l’attuale ambiente musicale. Vedo sempre più gruppi e ascolto sempre più musica come mai mi era capitato prima nella vita. Ci sono più concerti, più canzoni disponibili di quante ce ne siamo mai state, le bands sono trattate con maggior rispetto, e hanno maggiore controllo sulle loro carriere e il loro destino. Le vedo andare avanti come una costellazione di imprese alcune grandi, alcune piccole – piccole perlopiù ma con una risposta più immediata da parte del pubblico e un’accresciuta opportunità di successo. Sinceramente è eccitante.
Ho parlato scandalosamente a lungo, ma non ho ancora menzionato il dibattito sulla proprietà intellettuale. Proverò a sviscerarlo brevemente ora. Vorrei lasciare spazio alle domande dopo aver concluso, e nonostante ciò sto escludendo un sacco di cose – l’editoria, furti di crediti, campionamento, uso equo, l’ispirazione – sospetto che ci sarà una sana discussione al termine e penso sia necessaria e doverosa.
Da parte mia, credo che il vero concetto di proprietà intellettuale esclusiva in relazione alla musica incisa sia giunto ad un naturale termine, o qualcosa che assomiglia molto ad una fine. La tecnologia ha trasformato in primario il bisogno di estendere alla musica il significato della parola “rilasciare”, valida nel caso di un uccello o di un peto. Non è più possibile mantenere il controllo sul materiale digitale e non credo sia di pubblica utilità tentare di farlo.
Sarebbe di grande utilità pubblica, lasciare che la materia creativa venga consegnata alla pubblica proprietà. La legge sul copyright è stata modificata in maniera tanto estesa nel corso dei passati decenni che attualmente non viene praticamente mai applicata, creando situazioni assurde ogni volta che i diritti di copyright vengono impugnati. Esiste un’enorme quantità di materiale che non è di pubblico dominio, benché i detentori dei diritti, gli autori e i creatori siano morti o scomparsi dal mondo degli affari. E questo materiale, da un punto di vista legale ora rimosso dalla nostra cultura – nessuno può copiarlo o ripubblicarlo perché ancora soggetto a copyright.
Altre situazioni assurde abbondano: tecnicamente l’uso innocuo della musica come sottofondo a video fatti in casa o a progetti realizzati da studenti costituisce una violazione e ostacoli ufficiali sono stati istituiti per prevenirla. Se volete un video del ricevimento del vostro matrimonio – il primo ballo di vostro padre con la sposa – è vietato a meno che non sia silenzioso. Se vostra figlia piccola balla in maniera stravagante una canzone di Prince non pensate nemmeno di mettere il filmato su YouTube in modo che i nonni possano guardarlo altrimenti un nano color porpora con le chiappe al vento vi farà un’ingiunzione. Ho per caso offeso il piccino? Fanculo. La sua musica è veleno.
La musica pervade l’ambiente come un elemento atmosferico, come il vento, e per via di questa capacità non dovrebbe essere soggetta a controllo e ricompensa. Certo, non fino al momento in cui i detentori dei diritti mi concederanno di prendermi una rivincita a riguardo. Pensate che le mie capacità di ascoltatore valgano qualcosa, OK allora, anch’io. Suona una canzone di Phil Collins mentre faccio la spesa? Pagatemi 20 dollari. Def Leppard? Facciamo 100 dollari. Miley Cyrus? Non stampano banconote di valore alto abbastanza”.
Nati a Palermo agli inizi degli anni ’90, riappaiono come dal nulla i KALI YUGA, formazione dalle ruvide sonorità tra stoner ed hardcore che chi seguiva le vicende del rock italiano nei nineties forse ricorderà. Proprio alla fine di quel decennio decidevano di sciogliersi, dopo aver dato alle stampe un CD per Vacation House, The Underwater Snake Is Waiting, un 7” in tandem con i One Dimensional Man, ed aver lasciato un segno indelebile nella memoria di chi li aveva visti dal vivo grazie alle loro infuocate esibizioni live. Un paio d’anni fa, uno special radiofonico dedicatogli dal musicista/produttore Marco Monterosso e la presentazione del libro “Palermo al tempo del vinile” li riportava letteralmente in vita. Agli storici Bizio Rizzo (voce e chitarra), Giancarlo Pirrone (chitarra) e Fabrizio Vittorietti (bassista della band nel triennio ‘97/’99), si aggiunge oggi il nuovo batterista Alessandro Guccione e, dopo aver dato alle stampe il ghost album Stoned Without The Sun, tornano nei negozi con un vero e proprio nuovo disco, KY, disponibile solo in vinile 12” o in digitale. Ed è davvero un bel sentire, nessun dubbio in proposito. Contenente otto canzoni inedite scritte lungo l’arco di vent’anni, l’album si riallaccia alle ultime fasi di carriera prima dello scioglimento, ma pure segna una decisa ripartenza con nuove prospettive e nuove energie messe in campo. Rispetto al passato, i Kali Yuga di oggi sono decisamente più melodici e “pop”, meno ottundenti e più propensi ad offrire una più ampia gamma di sensazioni sonore. Non che il loro sound non rimanga ruvido e colmo di riff ed affondi chitarristici distorti ma, complice pure l’espressività vocale di Rizzo, molti dei pezzi trovano il loro quid nella brillantezza delle melodie. A completare il quadro, ci pensano poi le canzoni, classiche nel loro aderire sostanzialmente a stilemi anni ’90, ma sempre personali e, quel che più conta, ottimamente scritte. 9:04 (Here She Comes) pare un mix loureediano/bowiano in salsa Dinosaur Jr; B Love S prende le forme di una ballata tardo grunge dalle ampie striature psichedeliche; The World Outside sta in bilico tra i riff di chitarra di Pirrone e la sostanza melodica delle parte vocale; lo stesso si può dire di Where I Used To Go, la cui ariosità melodica, vagamente velata di dolce malinconia, fa pensare alle pagine migliori dei Nada Surf. Picchiano senza requie Idols e Drunk’n’Sad, la prima tramite un fulgido hard-rock’n’roll stradaiolo, la seconda tornando a frequentare i lidi stoner, sia pur più QOTSA che Kyuss. So Are You, con la sua melodia strascicata, non poco ricorda gli Strokes del primo album, mentre la conclusione è affidata alla lunga e visionaria Siren (Fuck Like A Motorpsycho), oscillante tra martellanti attacchi al fulmicotone e più lisergici ed ossessivi passaggi (la band norvegese citata nel titolo è ben più che un indizio). Un ottimo rientro in pista, che contiamo di festeggiare ulteriormente cercando di intercettarli in concerto al più presto.
Tra le bands italiane apparse sulla scena negli ultimi anni, i romani BSBE – ovvero i Bud Spencer Blues Explosion, nome che ovviamente gioca con quello del gruppo di Jon Spencer, riadattandolo ad uno scenario nostrano – sono indubbiamente tra quelle che maggiormente hanno trovato i favori del pubblico, diventandone subito dei beniamini. Merito d’infuocatissime esibizioni live e di un suono che parte dal blues per inglobare sonorità più dure e selvagge, in canzoni di forte impatto. Il nuovo disco, BSBE3, prodotto da Giacomo Fiorenza (Offlaga Disco Pax, Moltheni, Giardini di Mirò), vede il due formato da Adriano Viterbini (voce, chitarra) e Cesare Petulicchio (batteria, percussioni) impegnato nel tentativo di mettere su nastro proprio tutta l’energia delle loro esibizioni live. Overdubs ridotti al lumicino, nessun ospite, registrato in studio come se si fossero trovati sulle assi di un palco. Questo approccio diretto e viscerale lo si sente in maniera massiccia, anche se poi non impedisce alle varie canzoni di esprimersi attraverso sfumature ed angolazioni diverse. Come sempre cantate in italiano – ed immagino non sia affatto facile adattare la nostra lingua a musiche del genere – le loro canzoni esprimono un ampio spettro d’influenze e rimandi, ma sono poi capaci di cristallizzarsi in un sound ormai riconoscibile quale loro. Ovviamente, il ricordo di altri famosi duo degli ultimi anni è praticamente ineludibile: in No Soul qualcosa dei Black Keys di mezzo è facile sentirlo, mentre un pezzo quadrato e dalle sfrigolanti parti chitarristiche come Camion, con tanto di break indianeggiante, pare uscita dalla penna di Jack White. Molto bella Miracoli, un pezzo che potrebbe piacere ai fan dei QOTSA; quasi affondato nella psichedelia lo slow blues di gusto doorsiano Croce; palesemente hendrixiana, di certo una presenza importante nella loro musica, la mirabolante Rubik. Ma un po’ tutto il disco martella con riff blues incessanti (Mama, poi ripresa come ballata alla fine, Inferno Personale), boogie fiammeggianti tra ZZ Top e stoner (Hey Man), attraverso un funambolismo chitarristico che, nei suoi momenti più eccessivi, sfiora la pirotecnia di Tom Morello (Duel). Insomma, un buon disco di conferma, e se le ultime cose dei Black Keys vi hanno lasciato con l’amaro in bocca, pur evidenziate tutte le differenze, magari proprio i BSBE sapranno trovare il modo di consolarvi.
Da anni, ad ogni appuntamento discografico, i Brian Jonestown Massacre di Anton Newcombe non fanno altro che rimescolare le carte, offrendo ad ogni tornata discografica una nuova faccia della loro visione psichedelica a 360°. Revelation, loro quattordicesimo album, interamente concepito e registrato nel loro studio di Berlino, non fa eccezione. Stavolta si presentano come quintetto, con Newcombe affiancato da un vecchio membro della formazione quale Ricky Maymi, nonché da Constantine Karlis, Ryan Van Kriedt e Joachim Alhund. Proprio quest’ultimo figura alla voce nel pezzo, cantato in svedese, che apre le danze, la ritmata Vad Hände Med Dem?. Rispetto ai due dischi precedenti, in quest’ultimo, sia la forte componente groovata, che certi arrangiamenti elettronici, si sono molto ridimensionati. Ne rimane qualcosa nell’ipnosi di pezzi come Duck And Cover, Memorymix, Xibalba, quasi una sorta di personale rivisitazione di certe sonorità kraut-rock, riadattate però con mood pigro e piacevolmente stonato. A questo gruppo di canzoni si potrebbe aggiungere anche Food For Clouds, in bilico tra sentori lounge ed una vaga memoria Clash. Più in linea con quello che ci si aspetterebbe da loro comunemente il resto della scaletta: pezzi come Goodbye (Butterfly) e, soprattutto, What You Isn’t paiono uscire dal canzoniere di dei Rolling Stones in salsa oppiacea psichedelica; Unknown è uno psych-folk elettroacustico che piacerà ai fan di Barrett; Memory Camp, days, weeks and moths e Nightbird si palesano quali ballate lisergiche; Second Sighting ha una leggerezza folk pastorale; Fist Full Of Bees si muove pigra ed assonnata tra fondali fiatistici ed un’atmosfera ovattata. Nell’insieme, i Brian Jonestown Massacre si confermano maestri in questo tipo di musica, anche se c’è da dire che rispetto ad altre volte, queste nuove canzoni faticano a lasciare veramente il segno e a farsi ricordare. Un buon disco ma non memorabile insomma, anche se, ovviamente, nulla che possa intaccare il loro culto assoluto.
Ad un anno dall’uscita del non troppo convincente Extendes Plays, che racchiude gli EP Coared e Sans, eccoci qua a parlare del nuovo omonimo disco dalla band londinese Cheatahs. Londinesi si fa per dire, visto che il cantante e leader Nathan Hewitt è nato cresciuto in Canada, a cui si aggiungono l’inglese James Wignallm alla chitarra, il bassistacaliforniano Dean Reid e il batteristaMarc Rue, originario di Dresda in Germania. Shoegaze, noise, grunge sono queste le chiavi per collocare questa band che affonda le proprie radici musicali nel più classico alternative rock anni 90. I quattro ragazzi tirano fuori un lavoro sicuramente di piacevole ascolto, che purtroppo però non si discosta minimamente da ciò che già dieci anni fa sarebbe stato considerato datato. Se l’intro rumoristico fa presagire un noise rock etereo, sono le seguenti Geographic e Northern Explosure a mettere le cose in chiaro e a definire il sound che dominerà gran parte dell’album: sezione ritmica potente e intrecci chitarristici figli del più indemoniato J. Mascis. Con Mission Creep le cose cambiano, il noise- pop viene sostituito da una litania neo-psichedelica che suona molto vicina agli australiani Tame Impala, a cui fa seguito l’accattivante Get Tight, che potrebbe tranquillamente rientrare nel variegato repertorio del capolavoro degli Smashing Pumpkins, Mellon Collie And The Infinite Sadness. Le sferragliate chitarristiche e gli intermezzi noise di The Swan creano invece un ponte tra i grandissimi Husker Du e i Sonic Youth di Daydream Nation. IV e Fall sono dei chiari omaggi ai My Bloody Valentine: la prima è contraddistinta da un apertura shoegaze che pian piano muta in un chitarrismo aggressivo figlio dei già citati Dinosaur Jr., per concludersi con una coda rumoristica molto simile all’intro iniziale di I, mentre Fall crea paesaggi cupi e sognanti figli tanto dei My Bloody Valentine di Loveless quanto dei Ride. Se Cut The Grass risulta come banale incursione nello shoegaze più datato, Kenworth parte subito con uno sfrenato noise che muta inesorabilmente in un finale tanto distorto quanto psichedelico (sembra di ascoltare The Sprawl dei Sonic Youth), senza dubbio il pezzo più riuscito dell’album. La più solare Loon Calls non aggiunge molto, se non fa rimarcare quali siano i gusti musicali di Nathan Hewitt and co. Come già detto prima, un disco piacevole che sicuramente non mette in difficoltà l’ ascoltatore, ma niente che non si sia già ascoltato. Indubbiamente spunti interessanti ci sono, ma dipende molto dalle vostre aspettative valutare se bastano a giustificare un album che nel 2014 può solo risultare innocuo.
Stanno attraversando un momento particolare gli Afterhours alla metà degli anni novanta. Dopo un pugno di album cantati in inglese, che mai li hanno fatti realmente uscire dall’underground, tentano coraggiosamente il passaggio all’italiano, utilizzando in maniera intelligente la tecnica del cut up, e miscelando in maniera sfavillante una musica che sia connubio di melodia e rumore chitarristico; l’esperimento paga e Germi diventa un autentico snodo nella loro carriera e, in qualche modo, anche per il rock italiano. Nel 1997, Manuel Agnelli, Xabier Iriondo e Giorgio Prette – all’epoca il nucleo della formazione – sono pronti a dargli un seguito, ma il fallimento della Vox Pop, l’etichetta presso cui erano accasati, li lascia nella scomoda situazione di doversi trovare una nuova label. A credere in loro arriverà la Mescal. Hai Paura Del Buio? si riconnette non poco alle atmosfere di Germi, ma in maniera ancora più sostanziale affresca una forma rock capace di essere ruvida e distorta, spigolosa, e nello stesso tempo incredibilmente melodica, pop per certi versi. La metà degli anni novanta stanno vedendo un fiorire notevole di gruppi italiani che stanno facendo uscire l’indie-rock italico dagli scantinati – pensiamo al successo dei CSI, dei Marlene Kuntz, dei La Crus o dei Massimo Volume – ma è probabilmente proprio Hai Paura Del Buio? il disco simbolo di questa emersione, tanto da meritarsi l’appellativo di miglior disco indipendente degli ultimi 20 anni. Anche perché, ed è questa la cosa importante, la qualità dell’album è tale da giocarsela non tanto entro gli asfittici confini del nostro stivale ma, quantomeno in linea teorica, con le più grandi bands del grunge e del post-grunge dell’epoca. Avevamo finalmente i nostri Nirvana o, come suggerì qualcuno (forse lo stesso Agnelli), i nostri Smashing Pumpkins (il paragone fu con Mellon Collie!). Mix di ballate conturbanti, di attacchi punk al fulmicotone e di altri pezzi non meglio definibili univocamente, Hai Paura Del Buio? viene oggi ripubblicato in un edizione speciale, anche in occasione di un tour di undici date che, lungo il mese di marzo, attraverserà l’Italia ed in cui l’intero album verrà riproposto integralmente. Al CD originale, opportunamente rimasterizzato, viene aggiunto un secondo CD in cui tutto il disco è stato rivisto risuonato con la collaborazione di ospiti importanti. E se alcune versioni rimangono sostanzialmente fedeli o quasi agli originali – la sempre bellissima Male Di Miele con gli Afghan Whigs; Pelle, con un quasi irriconoscibile Mark Lanegan alla voce ed un bel solo di piano a chiuderla; la potentissima Dea col Teatro Degli Orrori; una solo leggermente più alleggerita Voglio Una Pelle Splendida con Samuel Romano; le punkettose Sui Giovani d’Oggi Ci Scatarro Su coi Ministri e Veleno con Nic Cester – altre riletture si discostano abbastanza. Penso ad esempio alla canzone che dà il titolo all’album, prima solo un grumo di rumore, oggi una sorta di delirio impro-jazz con Damo Suzuki alla voce; alla 1.9.9.6. rivista in chiave folk-rock da Edoardo Bennato, che aggiunge anche qualche riga di testo; alla Elymania molto ritmica, tra il sexy e l’allucinato, approntata coi Luminal; alla Senza Finestra pianistica e stilizzata di Joan As Police Woman; alla notevole Simbiosi con Le Luci Della Centrale Elettrica alla voce e Der Mauer ad aggiungerci fiati funerei; all’Eugenio Finardi che vira in pezzo cantautorale Lasciami Leccare l’Adrenalina; all’intensità asciutta dei Bachi Da Pietra, tra i migliori in scaletta, in Punto G; alla visionarietà di John Parish in Terrorswing e dei Fuzz Orchestra con Vincenzo Vasi in Questo Pazzo Pazzo Mondo Di Tasse; all’intimismo folk di Piers Faccini in Come Vorrei; all’eleganza pop dei Marta Sui Tubi in Musicista Contabile o di Rachele Bastreghi in Mi Trovo Nuovo. Rimane da citare giusto Rapace coi Negramaro (con un a me indigesto cantato super enfatico) e due bonus track: l’ottima Televisione, pezzo in origine non presente sull’album bensì su un singolo, in cui compaiono Cristina Donà e The Friendly Ghost Of Robert Wyatt e una seconda Male Di Miele,con un Piero Pelù gigione quanto mai. In pratica all’album originale – su cui mi sono soffermato poco, dando per scontato che lo conosciate – è stato aggiunto un vero e proprio disco tributo allo stesso. E se il primo si merita sempre e comunque il massimo dei voti, per il secondo, riuscito ma non a quei stratosferici livelli, tre stelle e mezza dovrebbero bastare. Ad ogni modo, il giusto tributo ad uno dei dischi più importanti del nostro rock. E ci si rivede sotto il palco!
Lino Brunetti
L’album uscirà in tre formati: doppio CD (CD cover più la versione rimasterizzata dell’album originale); l’album in digitale con, in esclusiva per iTunes, il branoVoglio Una Pelle Splendida feat. Daniele Silvestri; box edizione deluxe in tiratura numerata e limitata (1000 copie) contenente due doppi vinili da 180 gr. più il doppio CD (stesso contenuto su entrambi i formati). Qui sotto le date del tour:
E così eccoci qui anche quest’anno, proprio appena s’affaccia il 2014, impegnati nel solito giochetto dei migliori dischi usciti nei dodici mesi appena passati. Una rassegna – così come sottolineato nella propria dall’amico Zambo – che non può che essere che la risultante dei gusti e degli ascolti solo di chi scrive. Non rappresentativa quindi del Buscadero – quella la troverete sul numero di gennaio della rivista – e alla fine neppure di questo blog – auspico però, che almeno il buon Daniele Ghiro voglia dire la sua su questa pagina. Che anno è stato, musicalmente parlando, dunque, il 2013? Per quel che mi riguarda, molto buono direi. Non sono mancati i dischi belli e, anzi, il problema è stato il solito di questi tempi impazziti, ovvero il districarsi tra le mille uscite che invadono un mercato, magari asfittico dal punto di vista delle vendite, ma sicuramente vivace per numero e qualità delle uscite. E se è vero che manca il disco rappresentativo e che i capolavori veri latitano – ma è così facile poi riconoscere all’istante un disco che rimarrà nel tempo? – e che la musica del presente mai era sembrata così pesantemente rivolta ai vari passati della popular music, è anche vero che un appassionato curioso di muoversi fra i generi, di dischi in cui perdersi, nel 2013, ne ha potuti trovare molti.
I RITORNANTI
Parallelamente all’immenso mercato di ristampe e box retrospettivi – vera e propria gallina dalle uova d’oro per l’industria musicale nell’ultimo decennio, ne parleremo brevemente più avanti – il 2013 ha visto il ritorno discografico di un nutritissimo numero d’artisti e bands che, chi più chi meno, mancavano dalle scene da tempo innumerevole. Uno dei dischi più favoleggiati degli ultimi vent’anni, il terzo album dei My Bloody Valentine, ha finalmente visto la luce: MBV non ha deluso le apettative, proponendosi sia quale sunto della ventennale attività misteriosa della band di Kevin Shields, che come punto di ripartenza, nuovamente ardito ed originalissimo (gli ultimi tre, quattro pezzi). Altro gruppo di culto, i Mazzy Star, con Seasons Of Your Day, hanno ripreso il discorso interrotto diciassette anni fa, facendoci riprecipitare fra le loro ballate oppiacee, fatte di country, folk e psichedelia velvettiana. Gran disco! Che dire poi di The Argument dell’ex Hüsker Dü Grant Hart,se non che è un’opera coi controfiocchi? Hart, rispetto all’ex compagno Bob Mould, è sempre stato visto come il “Brutto Anatroccolo”, quello sfortunato, il junkie: il suo nuovo album è invece un disco ambizioso e creativo, colmo di bellissime canzoni, servite tramite un mix di raffinata ruvidezza, che come non mai ci mostra Hart autore vario e sopraffino. Mai stato un grande fan di David Bowie, eppure devo dire che il suo The Next Day l’ho apprezzato non poco. Probabilmente non lo metterei tra i miei dischi dell’anno, ma almeno tre/quattro delle sue canzoni svettano in una scaletta che comunque non ha cadute di tono. Uno su cui invece non ho mai avuto dubbi è Roy Harper: il suo nuovo album, parzialmente prodotto da Jonathan Wilson, è un gioiello, magari non per tutti, però dal fascino senza tempo e disco di quelli che non si trovano tutti i giorni. Devo ammetterlo, non ci avrei scommesso un euro circa la bontà del rientro discografico dei riformati Black Sabbath: invece 13 è davvero niente male! I riff, le atmosfere, in parte anche la voce di Ozzy, sono quelli dei primi lavori; nessuna vera novità, però una scrittura ben più che dignitosa, al servizio di un sound che ha fatto epoca ed è ormai leggendario. Come diceva qualcuno, nessuno fa i Black Sabbath meglio dei Black Sabbath stessi! Potremmo aggiungere, nessuno fa gli Stooges come gli Stooges: il loro Ready To Die non è un capolavoro, però è l’ennesimo sputacchio punk che ha permesso ad Iggy e compagni di tornare a sculettare selvaggiamente sui palchi di mezzo mondo e questo ci basta. Mi aspettavo grandi cose invece dai rinnovati Crime & The City Solution e così è stato: American Twilight è un ottimo album di rock vetriolitico e di blues allucinato, in cui il contributo prezioso di Mr. Woven Hand si sente e accresce il feeling gotico emanato da questi solchi. La palma di ritorno più inaspettato e bizzarro è però quello di Dot Wiggin, un tempo nelle famigerate Shaggs, la “peggior band della Storia del Rock”. Garage rock intinto di irresistibile freschezza naif, che ha fatto felice i cultori di questa favolosa leggenda underground. Che altro rimane da citare in questa sezione? Il fascinoso libro/CD delle Throwing Muses, Purgatory/Paradise e, alla voce mezze delusioni, lo sciapo, nuovo EP dei Pixies ed il dignitoso, ma lontano dai vecchi fasti, Defend Yourself dei Sebadoh.
SINGER SONGWRITERS
Poche esitazioni, il 2013, sul versante cantautorale, ha dato non poche soddisfazioni. Eletto da più parti (a ragione) disco dell’anno, Push The Sky Away è uno dei migliori Nick Cave degli ultimi tempi. Un disco di ballate straordinarie, intense, toccanti; soprattutto un disco che ci mostra un Cave ancora in movimento, ancora desideroso di cercare strade nuove, fortunatamente lontano dal manierismo che iniziava a far capolino in alcuni dei suoi più recenti lavori. Altro nome capace di mettere d’accordo pubblici anche diversi fra loro, il già citato precedentemente Jonathan Wilson. Vecchio? Prolisso? Può darsi, però anche incredibilmente creativo ed evocativo, il suo Fanfare è un vero tuffo in un verbo rock d’altri tempi, ancora affascinante oggi, grazie soprattutto a grandi canzoni, un suono strabiliante e arrangiamenti sofisticati, serviti inoltre da una band che sa decisamente il fatto suo. Mathew Houck aka Phosphorescent se n’è uscito con quello che è forse il suo miglior lavoro, Muchacho, ottima sintesi di tradizione e modernità, quindi con un occhio al classico ed uno al pubblico independente. Altro grandissimo lavoro è Dream River di Bill Callahan: l’uomo un tempo conosciuto come Smog, è tornato con un disco asciutto ma caldo, fatto di vivide ballate segnate dalla sua inconfondibile personalità e da un’autorevolezza qui al meglio della sua forma. Niente male anche il nuovo Kurt Vile, Wakin On A Pretty Daze, disco fluviale sempre in bilico tra scrittura classica e retaggio indie. Forse giusto solo un po’ monocorde, ma da sentire. Ancora più interessanti mi son sembrati due dischi usciti (forse) sul finire del 2012, ma di cui tutti hanno finito col parlarne nel 2013: Big Inner di Matthew E. White ci ha rivelato tutto il talento di un cantautore con molto da dire e decisamente originale, protagonista tra l’altro di un paio dei più bei momenti live vissuti quest’anno dal sottoscritto; le ballate tormentate di John Murry e del suo The Graceless Age sono uno dei passaggi obbligati di quest’annata, straordinarie per intensità, scrittura e sincerità, la classica situazione in cui la vita vera pare prendere forma sul pentagramma. Ben due i dischi di Mark Lanegan usciti nel 2013, ma mentre il Black Pudding fatto in coppia con Duke Garwood è un disco crudo, disossato e denso di nudo pathos, meno convincente è parso Imitations, secondo disco di covers della sua carriera, purtroppo del tutto privo della potenza di I’ll Take Care Of You e, in più d’un passaggio, piuttosto di maniera e un po’ bolso, quasi come quel jazz da salotto che viene ancora scambiato per musica. Nella migliore delle ipotesi, abbastanza inutile. Il nome è quello di una band, Willard Grant Conspiracy, ma si sa che è quasi interamente sempre stata faccenda del solo Robert Fisher: l’ultimo Ghost Republic è un disco scarno e forse per pochi, però è anche uno di quelli che, se opportunamente sintonizzati su malinconiche frequenze, capace di elargire magia pura. Tutti lo conoscevano quale uno dei più visionari ed originali registi degli ultimi trent’anni: da un po’ di tempo a questa parte, pare però sia diventata l’attività di musicista quella principale per David Lynch. The Big Dream è il suo secondo lavoro, un disco di blues mesmerico e sognante, ovviamente profondamente lynchiano nelle sue conturbanti movenze. Per quello che riguarda le voci femminili, è stata probabilmente Lisa Germano quella che ha allestito il disco più particolare dell’annata, No Elephants, album in cui il suo cantautorato intimo si palesa attraversa un suono minimale e un pizzico di intrigante lateralità. Altro nome che ha avuto un certo eco nel 2013 è stato quello di Julia Holter: il suo Loud City Song se ne sta in bilico tra carnalità e sonorità eteree, tra scampoli di reminiscenze 4AD, pop, qualche inserto cameristico ed un pizzico d’elettronica. Un nome che, per certi versi, potrebbe esserle affiancato è quello di Zola Jesus, il cui passato sperimentale ed underground si riverbera oggi nelle reinterpretazioni ben più pop e “classiche” di Versions. Ma sono altri i dischi da ricordare veramente: il definitivo ritorno a standard altissimi di Josephine Foster con I’m A Dreamer, la brillantezza di Personal Record di Eleanor Friedberger, l’intensa maturità della Laura Marling di Once I Was An Eagle, lo sfavillio di Pushin’ Against The Stonedi Valerie June, le ruvidezze di Shannon Wright in In Film Sound, nonché quelle di Scout Niblett in It’s Up To Emma o, per contro, la dolcezza folk-pop delle esordienti Lily And Madeleine.
(PS devo sentire ancora in modo appropriato il nuovo Billy Bragg, di cui ho letto un gran bene; mentre da ciò che ho orecchiato, John Grant non fa proprio per me).
BANDS
E’ sempre difficile essere categorici, ma la mia Palma di disco dell’anno se la beccano i Primal Scream di More Light, creativi e potenti come non gli capitava da tempo, calati nei nostri tempi tramite testi ultra politicizzati e musicalmente vari ed esaltanti. Un capolavoro! Politicizzati lo sono sempre stati anche gli svedesi The Knife, di ritorno quest’anno con un mastodontico triplo LP di elettronica livida, oscura ed ostica, che solo labili tracce del loro passato pop continua a mantenere. Disco coraggiosissimo, così come a suo modo coraggioso era il loro spettacolo “live”, di cui potete leggere le mie tutt’altro che entusiastiche impressioni qui sul blog. Livido, oscuro ed ostico sono ottimi aggettivi per un altro album amatissimo dell’anno appena trascorso, il visionario The Terror dei Flaming Lips, recentemente ancora nei negozi anche con l’EP Peace Sword, ennesima dimostrazione dell’inarrestabile stato di grazia della formazione americana. Stato di grazia che continuano ad avere anche i Low con The Invisible Way: è il loro disco più sereno, più arioso, in larga parte costruito sul pianoforte, un disco che non smette di perpetrare l’incanto tipico di buona parte della loro produzione. Non sono gli unici veterani ad aver fatto vedere belle cose: non male, anche se a mio parere inferiore alle loro ultime uscite, Change Becomes Us dei Wire, Re-Mit dei Fall, Fade degli Yo La Tengo, Vanishing Point dei Mudhoney e, soprattutto, Tres Cabrones firmato da dei Melvins in grandissima forma. Uno dei dischi più discussi è stato l’ultimo Arcade Fire, Reflektor: chi lo ha valutato quale capolavoro, ha dovuto scontrarsi con quanti l’hanno visto quale ciofeca inenarrabile. Io mi metto nel mezzo, nel senso che lo considero un album discreto, con qualche buona canzone, un paio ottime e un bel po’ di roba di grana un po’ grossa. Ammetto anche, però, di non avergli ancora dedicato la giusta attenzione, prendete quindi queste considerazioni per quello che sono, impressioni più che altro. Grande credito presso la critica hanno avuto pure AM degli Arctic Monkeys e Trouble Will Find Me dei National, due band che apprezzo ma per cui non stravedo. Non sono invece rimasto deluso dall’evoluzione e dai cambiamenti in casa Midlake: è vero, in Antiphon il prog è pericolosamente protagonista, ma l’insieme mi piace parecchio e, anzi, penso sia questo il miglior lavoro della band americana. Bello ed ambizioso anche l’ultimo Okkervil River, The Silver Gymnasium, così come da sentire è anche il disco di cover dei loro cugini Shearwater, Fellow Travellers. Come sempre di grande livello il ritorno dei Califone con Stitches, mentre il poco invidiabile primato di schifezza dell’anno se lo beccano senza esitazione i Pearl Jam: il loro Lightning Bolt non si può proprio sentire! Come sempre, grandi soddisfazioni arrivano dalle bands dedite alla psichedelia: dagli immensi Arbouretum di Coming Out Of The Fog ai Black Angels di Indigo Meadows, dalle molte incarnazioni di Ty Segall (Fuzz in testa) ai soliti ma sempre esaltanti Wooden Shijps, passando poi per Grim Tower, Dead Meadow e White Hills fra le tante cose sentite. Tra i gruppi più o meno nuovi, da non dimenticare New Moon dei The Men, i debutti delle Savages, dei Rose Windows e degli Strypes, l’ottimo General Dome di Buke And Gase, Threace dei CAVE e il folle Make Memories dei Foot Village. Tra le cose, diciamo così, più sperimentali o comunque meno rock, l’immenso Colin Stetson di New History Warfare Vol.3 – To See More Light, le doppietta Fire!/Fire! Orchestra, (without noticing)/Exit!, All My Relations di Black Pus, i Boards Of Canada di Tomorrow’s Harvest, i Wolf Eyes di No Answer: Lower Floor, i Matmos di The Marriage Of True Minds e i Fuck Buttons di Slow Focus.
ITALIANI
Nessun italiano in questa classifica? Eccoli qui! Per il sottoscritto il titolo italiano dell’anno è Aspettando I Barbari dei Massimo Volume, intenso, scuro e potente. Bellissimo come sempre il nuovo Cesare Basile (con un disco omonimo), così come anche Quintale dei Bachi Da Pietra, sorta di svolta “rock” per il duo. Ambiziosissimo, monumentale, straordinario, il nuovo Baustelle, Fantasma. Tra le altre cose da recuperare assolutamente, lo splendido esordio dei Blue Willa, il recente album di Saluti Da Saturno, Post Krieg di Simona Gretchen, Withoutdei There Will Be Blood, il nuovo Sparkle In Greye Hazy Lights di Be My Delay.
RISTAMPE
Se possibile, escono ancora più ristampe e cofanetti retrospettivi che dischi nuovi. Questa sezione potrebbe pertanto essere la più lunga di tutte. Voglio però limitarmi a citarne solo due, perché sono state quelle per me più importanti e significative dell’annata. Non potrebbero essere più diverse l’una dall’altra e questa è un’altra cosa che mi stuzzica non poco. Inanzitutto il box in sei CD sulle session di Fisherman’s Blues dei Waterboys: Fisherman’s Box è uno scrigno colmo di tesori, un oggetto a cui tornare e ritornare più e più volte, con tanta di quella musica immensa dentro che quasi non ci si crede. A lui affianco la ristampa (rigorosamente in vinile) di ½ Gentlemen/Not Beasts degli Half Japanese, uno dei dischi più rumorosi, grezzi, folli, infantili, per molti versi agghiacciante dell’intera storia del rock. Per farla breve, un capolavoro!
Qui sotto i miei venti dischi dell’anno, in rigoroso ordine alfabetico. E’ tutto, buon 2014!
Torniamo a scavare negli archivi: era il novembre del 2003 quando, abbastanza impietosamente, stroncavo uno dei dischi del momento, di una delle band più chiacchierate del tempo. Visto quello che hanno fatto dopo, probabilmente avevo ragione.
THE STROKES
Room On Fire
RCA
E alla fine eccolo qui, questo nuovo album degli Strokes, anticipato da tonnellate di parole, fiumi d’inchiostro e quintalate di carta. Questi ragazzi newyorkesi sono senza dubbio l’hype del momento, i novelli messia del verbo rock’n’roll, i suoi salvatori, i cavalieri della sua nuova ed eterna giovinezza. Tutte cazzate! Si tratta di una solenne montatura mediatica e, in definitiva, l’impressione che la band da di sé è quella di un enorme, colossale bluff. La recensione potrebbe finire qui, ma andiamo, non siamo così cinici da stroncare l’album più atteso dell’anno senza argomentare le nostre ragioni. Di questo album ne leggerete di tutti i colori: dalla più impietosa stroncatura, a spropositati innalzamenti del gruppo verso l’Olimpo del Rock. C’è chi ci vedrà una patetica rilettura, poppizata tra l’altro, della New York dei Television e di Lou Reed, e chi invece rimarcherà la loro abilità nel costruire melodie killer e una propensione nel tessere trame strumentali semplici, ma proprio per questo così vicine allo spirito del miglior rock. Proviamo ad azzerare tutti i discorsi e ad analizzare la faccenda con calma. Partiamo dal loro album d’esordio, Is This It?. Un disco che non è affatto difficile considerare a suo modo importante e per certi versi addirittura necessario. Necessario nel senso che, probabilmente al di là dei suoi meriti, su cui ritorneremo, è stato il disco – e di tanto in tanto ci vuole – che ha rilanciato, parlo soprattutto a livello mediatico/commerciale, tutta una serie di sonorità che col tempo erano diventate fin troppo minoritarie. Se sia cosa importante o meno lo lascio decidere a voi, ma il fatto che gruppi come White Stripes o Kings Of Leon non siano appannaggio dei soliti quattro gatti, lo si deve forse un po’ al trend partito con gli Strokes. Strokes che, forse, sono stati un gruppo montatura fin da subito: zero gavetta e subito diventati priorità della major di turno. Il loro primo disco però, ha rappresentato realmente una bella boccata d’aria fresca, un buon esordio che proponeva un discreto campionario di archetipi rock, gratificati da una leggiadra naiveté che era il tratto caratteristico del loro suono, fatto di chitarre acide ma non troppo selvagge e oculatamente calato nei settanta newyorchesi in modo da risvegliare passioni mai sopite in un generale senso di deja vu musicale. Non certo un capolavoro ma abbastanza da far drizzare le orecchie. Questo però andava bene allora; ora sono passati due anni, le cronache ci hanno detto di una band dalla resa live immatura e raffazzonata e l’importanza che si è dato al loro ritorno ha travalicato l’impatto che nella realtà questi striminziti trentatré minuti di musica possono avere. Room On Fire ci mostra una band ferma esattamente a dove l’avevamo lasciata, ma ora le aspettative nei loro confronti sono decisamente cambiate e le canzoni del disco non riescono da sole a dimostrare il valore del gruppo ma, anzi, ne evidenziano tutte le mancanze. Non si è naturalmente perso il loro appeal melodico (ed infatti è facile prevedere che venderà un botto), ma ora suona solo furbo e poco coraggioso. What Ever Happened?, Reptilia o il singolo 12:51, puntano tutto sulla propria immediatezza ruffiana e il resto dell’album le segue di conseguenza. Il risultato è che al secondo ascolto ti sembra di averlo già sentito mille volte. Dal punto di vista del songwriting, sembrano essere incapaci di andare oltre uno standard ben definito: riffettino di chitarra, batteria essenziale in tempo medio e voce roca in primo piano. Non c’è un pezzo che vada fuori da questi binari, un canovaccio che viene rispettato con minime variazioni. Non una ballata, non un picco compositivo. Prendiamo ad esempio The End Has No End: ad un certo punto sembra che possa esserci un’evoluzione, che una certa rabbia si faccia avanti e che il pezzo possa aprirsi e prendere il volo, quando improvvisamente rientra nel solco del solito pop-rock venato di wave slavatina. Molte volte ci si trova di fronte a veri e propri remake del primo album (The Way It Is ad esempio) privi di qualsiasi fantasia. Ai miei occhi, ora che ho sentito il disco, persino il licenziamento di un produttore importante ed affermato come Nigel Godrich, in favore del più rassicurante Gordon Raphael, assume contorni inquietanti. Una gran delusione insomma. Fossero stati dei pinco palla qualsiasi, una maggiore indulgenza ci sarebbe anche stata, abbastanza forse da risicare una sufficienza, ma qui stiamo parlando della più celebrata rock band del momento e solo di una cosa potete star certi: il rock è vivo e vegeto, ma è di casa da ben altre parti.