Outside the Dream Syndicate: omaggio a Tony Conrad

di Lino Brunetti

Sei mesi fa, per la precisione il 9 aprile, all’età di 76 anni se ne andava Tony Conrad, dopo aver a lungo lottato con un cancro alla prostata che alla fine l’ha avuta vinta. Visto che il suo album più noto, Outside The Dream Syndicate, realizzato in tandem con i Faust, è tornato disponibile grazie alla ristampa della Superior Viaduct, ne ripercorriamo la storia. Buona lettura!

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Se un album viene registrato, stampato e pubblicato, ma virtualmente nessuno lo sente quando ciò accade, come può questo fare la storia?” Se lo chiedeva il grande giornalista americano David Fricke, nelle note di presentazione inserite nel booklet della ristampa per il trentennale dell’uscita di Outside The Dream Syndicate, per poi rispondersi subito dopo: “Per la purezza dell’intento, la forza assoluta dell’esecuzione ed il semplice fatto che è stato il Primo. La musica di questo disco è chiara, audace e forte. Fu il Primo, il suono di una nascita, l’inizio di ogni cosa”. Parole pesantissime per un disco che all’epoca venne stampato e circolò poco e male solo in Inghilterra, ottenne giusto uno sparuto numero di recensioni (generalmente poco benevole) e le cui vendite furono pari a zero. Ci sarebbero voluti anni perché se ne riconoscesse il valore e l’importanza e s’iniziasse a conoscere chi diavolo fosse questo sconosciuto violinista americano, finito ad Amburgo, in Germania, a registrare con un manipolo di hippie in una comune.

Sia pur sconosciuto ai più, in quel 1972 in cui avvengono le registrazioni, in realtà Conrad ha già avuto importanti frequentazioni e ha già avuto modo di procurarsi un posticino nella storia della musica. Nato a Concord, nel New Hampshire, il 7 marzo del 1940, Tony Conrad si è da poco laureato ad Harvard in matematica quando, dopo un soggiorno di studio a Copenaghen, si trasferisce a New York. Durante gli anni passati ad Harvard, aveva scoperto il lavoro di compositori d’avanguardia quali John Cage e Karlheinz Stockhausen e aveva iniziato degli studi sulla musica sperimentale presso il violinista Ronald Knudsen. Nel 1962, New York è in pieno fermento artistico: sono gli anni in cui si sta sviluppando il movimento Neo Dada, dalle cui idee prenderanno le mosse sia gli artisti del Fluxus che, più avanti, quantomeno in parte, anche quelli della Pop Art, entrambi i movimenti col proprio epicentro proprio nella metropoli americana. Non ci mette molto Conrad ad inserirsi negli ambienti artistici cittadini, nella scena avant-garde di Manhattan. In particolare, ritrova qui un tipo che aveva avuto modo di conoscere verso la fine degli anni ’50 a Berkeley, in California, un certo La Monte Young, il quale sta mettendo in piedi un gruppo di musicisti con i quali dar vita ad un’idea musicale che ha da tempo in mente. Attorno alla figura oggi mitica di Young – un passato nell’improvvisazione jazz e un fermo sostenitore dell’approccio alla composizione e alla performance proprio di stampo neo-dada – si vanno infatti raccogliendo una serie di personaggi che molto faranno parlare di sé: Marian Zazeela, moglie di Young e con un background nelle discipline artistiche, Angus MacLise, John Cale.

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The Theater of Eternal Music (anche conosciuto come the Dream Syndicate) in una performance in un loft privato New York, New York, 12 dicembre 1965. Da sinistra, Tony Conrad, La Monte Young, Marian Zazeela, John Cale. (Foto di Fred W. McDarrah/Getty Images)

Soffermiamoci un attimo su quest’ultimo, vista l’importanza che avrà in futuro, nonché nella nostra storia. Nato in Galles, nel ’40 come Conrad, Cale arriva a New York dopo una serie di studi sulla musica classica e un interesse crescente nei confronti della nuova musica d’avanguardia. Nonostante siano i primi anni ’60 e lui abbia vent’anni o poco più, è completamente a digiuno di qualsiasi cosa abbia a che fare con la musica pop e rock. A New York è proprio con La Monte Young – che lo sconvolge attraverso performance in cui i musicisti parlano al pianoforte o urlano verso una pianta fino a farla morire – e con Tony Conrad – col quale va a vivere in un appartamento nel Lower East Side, al 56 di Ludlow Street – che stringe amicizia. Dichiarerà Cale, nel libro dedicato ai Velvet da Victor Bockris e Gerard Malanga: “La Monte rappresentò probabilmente la parte migliore della mia preparazione e il mio primo contatto con la disciplina musicale. Insieme organizzammo The Dream Syndicate, un violino amplificato e la mia viola, anch’essa amplificata. L’idea del gruppo si basava sul sostenere note per una durata di due ore alla volta. Di solito La Monte teneva le note più basse, io tenevo le tre successive sulla mia viola, sua moglie Marian quella superiore e Tony Conrad teneva la nota più alta. Quella fu la mia prima esperienza in un gruppo, e che esperienza! Era tutto così diverso! […] Anche in India si usa il bordone, ma i musicisti indiani impiegano un sistema di accordature del tutto diverso e, sebbene ci provino a formulare un approccio scientifico, non hanno in realtà uno schema così preciso come quello che avevamo creato noi”.

Il Dream Syndicate – il sindacato del sogno, in omaggio al quale Steve Wynn darà il nome alla sua band – poi conosciuto anche come The Theatre Of Eternal Music, fu un’esperienza musicale di cui solo negli anni si riconoscerà l’estrema importanza, visto che fu d’ispirazione per un numero incalcolabile di musicisti a venire, e questo nonostante l’estrema riluttanza di Young a mettere su disco quanto realizzato (ancora oggi è scarsissima la discografia ufficiale, e il modo migliore per approcciarne il lavoro rimane provare a procurarsi l’album Inside The Dream Syndicate Volume 1: Day Of Niagara, pubblicato sempre da Table Of The Elements nel 2000). Attraverso la tecnica della “just intonation”, per sommi capi spiegata da Cale nella frase citata sopra – e che Wikipedia definisce quale: “sistema musicale di accordatura basato sulle successione naturale dei suoni armonici” – Young e compagni diedero in pratica il via a quello che verrà conosciuto come Minimalismo Americano (Terry Riley, Steve Reich, Philip Glass, tra i più noti esponenti), ponendosi come autentici anticipatori di tanta drone music e avanguardia a venire e, come vedremo tra poco, tramite i Velvet Underground, allungarono la loro ombra anche su una gran bella fetta di rock.

Ma torniamo alla cronaca dei fatti. Come si diceva sopra, Conrad e Cale abitano assieme. Al contrario di quest’ultimo, il primo è tutt’altro che insensibile al fascino della popular music: quando i due tornano a casa, Tony è infatti propenso a mettersi a sentire i dischi di Hank Williams, degli Everly Brothers, del rock’n’roll dell’epoca. Come ricordava Conrad stesso: “John iniziò ad interessarsi al rock’n’roll, sebbene gli venissero profondi dubbi relativamente al fatto che una persona potesse provare interesse sia per il rock che per la musica classica. Ma c’era qualcosa di profondamente liberatorio che gravitava attorno a tutta la faccenda del rock e, in un certo senso, il 56 di Ludlow Street finì per significare molto in termini di qualche sorta d’influenza musicale liberatoria”. Nel frattempo, David Gelber, loro vicino di casa e fratello del commediografo Jack Gelber, li esorta ad accompagnarlo a dei party “pieni di ragazze e frequentati da delle persone proprietarie di una casa discografica che stavano cercando gente con i capelli lunghi per formare un gruppo rock”.

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Ad una di queste feste, in effetti, Conrad e Cale conoscono Terry Phillips, un tizio impomatato legato alla Pickwick, una casa discografica specializzata in ristampe. Ecco come Conrad racconta, nel libro di Bokris e Malanga, quello che può ben definirsi un incontro epocale: “Il posto era stracolmo di dischi, dal pavimento fino al soffitto, e sul retro questa gente ripugnante e strana, vestita con abiti in poliestere, aveva una stanzetta, una specie di apertura nella parete, con un paio di registratori Ampex a nastro all’interno. Era successo che si erano ritrovati lì una sera con uno dei loro autori, erano impazziti e avevano registrato un paio di sue canzoni. Avevano deciso che volevano farle uscire su disco, ma avevano bisogno di un gruppo di copertura, perché le registrazioni erano state fatte dai dirigenti e da altri tipi assurdi e quindi non c’era alcun gruppo, era solo una prova di studio. La prima cosa che ci proposero fu di firmare contratti come autori per la durata di sette anni. Ci rendemmo conto, fatta una lettura minuziosa dei contratti, che in base a quelle clausole tutto il nostro lavoro artistico sarebbe stato in effetti proprietà della Lee Herridon Production, ovvero della casa madre della Pickwick, e quindi rifiutammo tutti di firmare. Andammo comunque ad ascoltare il disco. Si chiamava The Ostrich. Si erano ritrovati con questo ragazzo e avevano trascorso tutta la notte, secondo le loro stesse parole, facendosi di tutto. Anche se avevamo rifiutato di firmare i contratti, accettamo la proposta di suonare in qualche occasione per promuovere il disco. Il successivo fine settimana, vennero a prendere con un auto famigliare me, John Cale e Walter De Maria – un batterista nostro amico che tirammo dentro – e cominciammo a fare questi spettacoli nella zona di Lehigh Valley, nel tentativo di lanciare il disco. Il gruppo in realtà era composto da quattro persone, perché c’era anche il tipo che aveva scritto e registrato la canzone, Lou Reed. Aveva 22 anni”.

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Assunto dalla Pickwick come autore – per loro sfornava decine di canzoni al giorno a comando, nello stile che loro gli chiedevano – il giovane Lou Reed si ritrovò quindi ad entrare a far parte di questa bizzarra band, fatta di musicisti d’avanguardia. Vennero battezzati The Primitives e iniziarono a suonare in giro. Bizzarro il fatto che così lo stesso Reed presentò la sua The Ostrich a Conrad e gli altri: “Non vi preoccupate, è facile da suonare perché tutte le corde sono accordate sulla stessa nota”. In pratica quello che loro facevano con La Monte Young, quella che si dice un’autentica predestinazione! Le vendite del disco finiscono per fruttare la bellezza di 78 centesimi di royalties e presto The Primitives si sciolgono. Anche i rapporti con la Pickwick, che continua ad insistere perché firmino un contratto, va a ramengo, ma intanto si è saldato quello tra i vari musicisti, in particolare tra Reed, che prende il posto di Conrad nell’appartamento di Ludlow Street, e Cale, che subisce enormemente il fascino carismatico del nuovo amico. Nel frattempo la faccenda s’ingarbuglia un po’: Lou inizia a presentare agli altri alcune canzoni che aveva sempre tenuto per sé, una di queste è Heroin, che per gli altri è una vera botta; Conrad e De Maria mollano, sostituiti da un vecchio amico di Reed, Sterling Morrison, e da Angus MacLise, altro tizio del giro di La Monte Young; parte uno scambio artistico indissolubile tra i due principali protagonisti, Cale e Reed, col primo che continua il suo approfondimento sulla pop music e il secondo che scopre l’avanguardia (dirà poi che già in questi anni, ispirato dal lavoro di Young, aveva ideato il suo Metal Machine Music). Manca solo un nome per questa nuova band: dopo aver provato The Warlocks e The Falling Spikes, arriva in loro aiuto proprio il nostro Tony Conrad, il quale su un marciapiede della Bowery trova un libro abbandonato e lo porta nell’appartamento in Ludlow Street. Si tratta di un saggio sul sadomasochismo e sui comportamenti sessuali deviati, scritto dal giornalista Michael Leigh e intitolato The Velvet Underground. Visti i rapporti di tutti quanti con l’arte e il cinema underground, il nome viene ritenuto perfetto. Il resto, come si suol dire, è Storia.

Quella che stiamo seguendo noi, di storia, a questo punto però prende altri sentieri. Mentre continua a collaborare sporadicamente con La Monte Young, Conrad inizia a concentrare la sua attività artistica nel campo del cinema d’avanguardia. È del 1966 il suo primo film, “The Flicker”, pellicola di mezz’ora composta unicamente da fotogrammi completamente bianchi o completamente neri, alternati in modo da creare un destabilizzante effetto stroboscopico, accompagnati da una musica elettronico-rumorista e concepito seguendo principi matematici. Per lungo tempo sarà conosciuto molto più come filmmaker che come musicista – con opere quali “Coming Attractions” (1970), “Straight And Narrow” (1970), “Four Square” (1971), poi proiettate in luoghi quali il MOMA o il Whitney Museum di New York, il Louvre di Parigi e altre importanti istituzioni – e fino alla fine per lui l’immagine sarà intensa materia di studio e riflessione. Quando, nel 1972, arriva in Europa, lo fa al seguito di La Monte Young, per dargli una mano con la sua installazione da presentare alla quinta edizione di dOCUMENTA, una delle più importanti manifestazioni d’arte contemporanea europee, tutt’ora attiva. “Il progetto consisteva nell’accordare tra loro tre oscillatori; li tenni accordati con cura per tutta l’estate”.

Mentre fa questo, però, Conrad inizia anche un personale tour europeo, con l’intento di mostrare i suoi film in diversi contesti espositivi. Ed è ad Amburgo, col tramite dell’amico Klaus Feddermann, che conosce Uwe Nettelbeck. Un gran bel personaggio quest’ultimo. Con un passato di giornalista cinematografico e musicale, ben introdotto nell’industria discografica dell’epoca (alla Polydor) e un bel fiuto per gli affari, un paio d’anni prima ha di fatto contribuito a dare il via a quello che poi sarebbe stato riconosciuto universalmente come krautrock, rinchiudendo un manipolo di musicisti, più o meno flippati, in una vecchia scuola tra Amburgo e Brema (Wümme), trasformata in una sorta di comune, allestita con uno studio di registrazione con un ingegnere del suono geniale quale Kurt Graupner a loro disposizione 24 ore su 24, in cui non dovevano pensare a nulla se non a suonare e sperimentare.

Quel gruppo di musicisti sono i Faust, che nei tre anni passati a Wümme, realizzano dischi grandiosi quali il primo omonimo, So Far, The Faust Tapes. A parte i primi due dei Faust, passatigli da Feddermann, Conrad conosce poco del resto del rock tedesco dell’epoca – band quali Can, Amon Düül II, Kraftwerk – ma è consapevole che tra le maggiori influenze di queste formazioni c’è la musica dei Velvet Underground, che in qualche modo lui stesso ha contribuito a forgiare. Si è inoltre appassionato a quanto fatto da Cale nel periodo post-Velvet, in particolar modo alla sua produzione del primo disco degli Stooges. Nell’offerta fattagli da Nettelbeck di realizzare qualcosa coi suoi pupilli, Conrad vede una doppia possibilità: la prima è quella di poter finalmente mettere su nastro le idee messe a punto con Young e compagni ai tempi del Dream Syndicate, ma mai pubblicate ufficialmente per via del veto di La Monte (a questo, probabilmente, si deve anche la scelta di titolare l’album Outside The Dream Syndicate, creando una sorta di connessione e, allo stesso tempo, di orgoglioso distacco da quell’esperienza); la seconda, il suo desiderio di realizzare un disco d’avanguardia, da diffondere però nei circuiti della pop music, una cosa all’epoca mai tentata veramente prima. Da questo punto di vista, i Faust sono la band ideale. Come dimostrato dai due album pubblicati fino a quel momento, anche loro sono degli sperimentatori, degli iconoclasti assoluti, un’allucinato prodotto di laboratorio “capace d’infrangere tutte le regole importate dalla scena angloamericana” (Julian Cope in “Krautrocksampler”), musicisti abbastanza aperti mentalmente da essere in grado di assecondare i suoi intenti.

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Non tutto ovviamente andrà secondo i piani di Conrad – troppo anarchici i musicisti tedeschi per attenersi scrupolosamente alle regole della “just intonation” volute dall’americano – ma il risultato non può che definirsi grandioso, seminale. Registrato in soli tre giorni, con Conrad al violino, Jean-Hervé Peron al basso, Werner “Zappi” Diermaier alla batteria e (solo sulla seconda traccia) Rudolf Sosna al synth, Outside The Dream Syndicate è composto da due lunghi pezzi di quasi mezz’ora l’uno. From The Side Of Man And Womankind, sul primo lato, è quello che più risente delle indicazioni del violinista americano: “La mia idea era di mantenere una relazione armonica lungo tutta l’estensione del ritmo: volevo una nota di basso sulla mia nota tonica (sul violino) e il batterista “accordato” ad un ritmo corrispondente alla vibrazione di quel tono. Ciò che stavo facendo era una cosa che loro non avevano mai sentito prima e dovevo mostrarmi un po’ esigente rispetto a ciò che volevo”. Anziché una sola nota, Peron si prese la libertà di suonarne due e una piccola alterazione nell’equalizzazione del violino, modificò anch’essa l’intento di Conrad. Dal punto di vista dell’ascoltatore – rock in particolare – nulla che infici il risultato finale.

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From The Side Of Womankind è un estenuante mantra, “monocorde, epico, austero e tossico” (sempre Julian Cope). Basso e batteria tengono costantemente lo stesso passo monotono e ripetitivo, concedendosi giusto un colpo sul piatto di tanto in tanto. Il violino di Conrad mantiene imperterrito la stessa note, creando un bordone fantasmatico. È musica che a sua volta richiede all’ascoltatore di accordarsi ad essa, sfidando la noia, la stasi, la mancanza di alcun movimento, per penetrare nella più autentica purezza del suono, nella sua dimensione spirituale. Oggi, che siamo stati abituati a sentire di tutto, farebbe forse meno effetto, ma in ambito rock, all’epoca, era musica assolutamente rivoluzionaria questa, la radicale dissoluzione di quello che poteva essere considerato un brano rock. Più orientata alla collaborazione la traccia sul lato B, From The Side Of The Machine, con i synth rumoristi di Sosna ad appaiarsi al violino, in un pezzo ben più ondivago, meno costretto in precise gabbie armoniche, bensì lasciato fluire liberamente attraverso un processo improvvisativo che suona come l’estatico specchiarsi fra loro degli strumenti. Il solito Cope scrive nel suo saggio: “Come la sua enorme foto grigia e bianca in copertina, Conrad è un fantasma nel suo stesso disco. Il suo violino incombe come uno spettro su tutto l’album senza mai fare una piega. Molto, molto più minimalista dello stesso John Cale, ecco un musicista in missione dall’aldilà”. Il disco viene pubblicato in Inghilterra dalla Caroline, sussidiaria della Virgin, nel 1973, al prezzo di 1,49 sterline.

Come abbiamo detto non vende nulla e come Conrad stesso, diventa anch’esso un fantasma, sparendo nel nulla per un ventennio buono. Alle orecchie a cui arriva, però, lascia il segno, s’inocula come un virus, come un germe sottocutaneo che agisce in profondità; fornirà la base da cui partire a musicisti come Glenn Branca e Rhys Chatham e successivamente a formazioni come i Sonic Youth, a certo post-rock e alle molte band intente a sperimentare sul corpo esanime del rock e sulle sue interazioni con la musica avant-garde. Nel 1976 Conrad ottiene una cattedra presso il Department of Media Study dell’università di Buffalo, dove insegnerà fino alla sua scomparsa. Non si avranno sue notizie fino al 1993, l’anno in cui la Table Of The Elements ristampa per la prima volta il disco coi Faust (lo rifarà una seconda volta, appaiandogli un secondo CD, nel 2002). È lo spunto per un ritorno sulle scene: dopo oltre vent’anni, nell’aprile del 1994, Conrad ritrova i Faust per l’esecuzione live del loro album alla Knitting Factory di New York; il 1995 vede il suo vero e proprio ritorno discografico con l’ottimo Slapping Pythagoras (il suo vero esordio in proprio, registrato da Steve Albini e con dentro musicisti quali Jim O’Rourke, David Grubbs, Kevin Drumm) e da lì in poi seguono una serie di pubblicazioni di vecchio e nuovo materiale (particolarmente consigliato Early Minimalism Volume One) e nuove collaborazioni con musicisti come Charlemagne Palestine, Genesis P. Orridge, John Miller. Il lavoro di un uomo che era sempre stato in ombra, ingiustamente dimenticato o al più considerato una nota a margine di storie più celebrate, finalmente trovava giustizia.

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Oggi Tony Conrad non è più fra noi, ma per fortuna ci rimane la sua musica, a partire proprio da Outside The Dream Syndicate, finalmente ristampato e rimasterizzato, partendo dagli originali master tapes, dall’etichetta Superior Viaduct (sia in CD che in vinile), con nuove note a cura di Jim O’Rourke e Branden W. Joseph. Non è il caso di essere tristi: a noi Conrad piace immaginarlo lassù da qualche parte, definitivamente accordato con l’intero universo, ormai oltre tutto e tutti.

 

FABRIZIO TESTA “Bestiario”

FABRIZIO TESTA
Bestiario
Autoprodotto

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Con Bestiario, FABRIZIO TESTA conclude la sua trilogia di album iniziata nel 2013 con Mastice e proseguita l’anno seguente con Morire (del primo avevamo scritto qui, del secondo nel Backstreets cartaceo sul Buscadero). Una trilogia intensa, fatta d’espressionismo terso e poetico, che non dispiacerebbe veder riunita in una sola confezione, magari dalla più ampia diffusione rispetto a questi CD autoprodotti. Come il suo titolo fa intuire, Bestiario si concentra sul rapporto tra il nostro mondo e quello animale, con passaggi lirici fra l’ironico ed il disturbante, in cui viene evocato in un continuo intrecciarsi di temi e suggestioni, sempre tutt’altro che banali, sia lo sfruttamento da noi perpetrato nei confronti del mondo animale, con le bestie spesso viste solo come vera e propria carne da macello, che alcune sostanziali similitudini, non ultimo il destino comune, fra noi e loro. Il disco, aperto e chiuso dalla lettura di due poesie lette da Gianni Mimmo (La Bestia Morente di Ivano Ferrari e Io Spero Che Un Giorno di Francesco Toma), si sviluppa attraverso quattro canzoni e due interludi strumentali per sole percussioni, il primo ad opera di Ingar Zach, il secondo di Stefano Giust. L’unico pezzo cantato da Testa – autore di testi e musiche ed impegnato a piano e synth – è Bestiario, in cui la sua riconoscibilissima voce baritonale si stende sulle pennellate di violoncello di Simona Colonna. Macello si pone al confine tra blues astratto e virulenza punk, soprattutto grazie alla viscerale ed allucinata interpretazione vocale di Federico Ciappini, presente più avanti anche nella più elegiaca e drammatica narrazione avant di San Lorenzo. In tutto l’album, fortemente incentrato sulle percussioni, furoreggia dietro ai tamburi un grande Francesco Cusa che, con l’aiuto del contrabbasso di Fabio Sacconi ed il pigiare i tasti bianchi e neri di Testa, in Purosangue dà vita ad una partitura fortemente jazzata, su cui Gianmarco Busetto ha modo di srotolare la sua stranita narrazione in bilico tra declamazione didattica d’altri tempi e urlo animale non trattenuto. Un disco che ancora una volta, sia pur con il solito minutaggio ristretto, neppure venti minuti, conferma la lucidità poetica ed il talento multiforme di Fabrizio Testa. Per qualsiasi ulteriore info, questo è il sito di riferimento.

Lino Brunetti

FIRE! “(without noticing)”

FIRE!

(without noticing)

Rune Grammofon/Goodfellas

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I FIRE! sono Mats Gustafsson (sax tenore e baritono, organo, Fender Rhodes, electronics), Johan Berthling (basso, piano) e Andreas Werliin (batteria). Il nuovo album (without noticing), i cui titoli dei brani sono ispirati dalle lettere che Bill Callahan ha scritto a Emma Bowlcut (le ha di recente pubblicate la Drag City), è aperto e chiuso da fibrillanti slabbrature noise che farebbero pensare ad un disco decisamente più ostico di quello che alla fine è. Certo, non di pop o di musica per tutti stiamo parlando, ma il pubblico che segue le faccende dell’avant-rock, qui dentro potrebbe davvero trovarsi a proprio agio. Il ritmo dettato dal basso pulsante in Would I Whip subito ci spedisce in scenari (free) jazz-rock; più circospetta e meditativa Your Silhouette On Each, pezzo notturno che potrebbe far pensare a degli Om datisi al jazz. In At Least On Your Door, il rullio ritmico fornito da Werliin, non certo un batterista che si limita a tenere il tempo, fa il paio col basso ipnotico di Berthling, mentre Gustafsson ha modo di furoreggiare vertiginosamente col suo sax. Meno jazz e più avant Tonight. More. Much More., attraversata da strati d’organo e con un feeling cinematico, mentre più in linea coi dettami free la seguente, memorabile Molting Slowly, quantomeno nella prima parte, visto che nella seconda prende il sopravvento una più marcata identità ambient-doom, in sottofondo fin dalle prime battute, per via della fangosa partitura di basso. Un gran disco, terrigno e carnale!

Lino Brunetti

ELLIOTT SHARP “Haptikon”

ELLIOTT SHARP

Haptikon

Long Song Records

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Non credo ci sia bisogno di dilungarsi troppo su chi sia ELLIOTT SHARP. Dalla fine degli anni ’70 ad oggi, il suo nome sarà apparso in un centinaio di dischi almeno, a volte intestati a lui, a volte ad ensemble quali i Carbon, i Terraplane o l’Orchestra Carbon, oppure in qualcuna delle sue numerosissime collaborazioni, in formazioni a due, in quartetto, o in gruppi maggiormente compositi. Multistrumentista e grande sperimentatore Elliott Sharp, sempre in bilico tra avanguardia, jazz, blues, rock e qualsiasi altro tipo di musica sia riuscito ad attirare la sua inesauribile curiosità. Con Hapticon si presenta da solo, essenzialmente nelle vesti di funambolico chitarrista, ma impegnato pure al basso, agli electronics, ai campionamenti e al drum programming. Il suono è quello di una band, fortemente materico e tattile, come in qualche modo il titolo allude. Lunghe jam chitarristiche, mai sotto i sette minuti, in alcuni frangenti anche più dilatate, che esplorano i suoni della sei corde muovendosi fra mondi diversi, facendoli alla fine risultare liminari. E se quindi in Umami pare sia il blues acustico a voler prendere il sopravvento, nell’allucinata Phosphenes sembra Hendrix reincarnatosi nel Robert Fripp più furioso, in Sigil Walking ci fa perdere in scenari avant privi di confine, in Messier 55 ingloba risvolti etno, giusto quell’attimo prima di concedere un’oasi di maggior meditatezza tramite i paesaggi desertici dell’evocativa Finger Of Speech. Da sentire!

Lino Brunetti

DIECI ANNI DOPO: RADIOHEAD “Hail To The Thief”

Mentre Thom Yorke è in questi giorni in giro con gli Atoms For Peace, ecco cosa scrivevamo, dieci anni fa, dell’allora nuovo album dei Radiohead.

RADIOHEAD

Hail To The Thief

Emi

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Chi si aspettava – magari al seguito delle parole di Jonny Greenwood, chitarrista della band che, interrogato circa la direzione presa dal nuovo album, aveva parlato di canzoni da tre minuti con una più forte presenza delle chitarre – che i Radiohead con Hail To The Thief effettuassero un passo indietro, magari tornando alle origini, forse rimarrà deluso. Il fatto è che Thom Yorke e compagni sono una band la cui portata artistica, la cui serietà d’intenti e il cui encomiabile percorso musicale, sono tali da rendere un’opzione di questo genere semplicemente impensabile. Del resto, dopo aver dato alle stampe con The Bends uno dei capolavori del britpop, che senso avrebbe avuto continuare a muoversi per quei lidi? Il viaggio intrapreso dapprima con OK Computer, poi attraverso due dischi realmente epocali come Kid A e Amnesiac, è approdato in territori, quantomeno in ambito “mainstream”, realmente inesplorati, da un lato effettuando un’operazione di sintesi stupefacente e nel contempo spostando in avanti il limite di ciò che abitualmente passa attraverso radio, MTV e affini, proponendo quindi in ambiti commerciali una musica flirtante con forme di avant rock e elettronica radicale. Messo come è ormai consuetudine anzitempo in Internet (in una versione però non definitiva e, alcuni sostengono, con il beneplacido della band stessa), Hail To The Thief (splendido titolo che riprende lo slogan tormentone degli avversari di Bush in campagna elettorale) è quindi il nuovo capitolo di una storia avvincente e creativa che, diciamolo subito, non delude. Prodotto da Nigel Godrich, meno estremo e maggiormente comunicativo rispetto ai diretti predecessori, è un disco che comunque non rinuncia alla sperimentazione e al rimescolare elementi diversi all’interno delle sue canzoni, cercando un suono che sia al tempo stesso più diretto ma non scontato, valido supporto alle liriche stilizzate e impressioniste del leader. Apre il disco 2 + 2 = 5, elaborato brano dall’intro pacato che nel seguito scoppia in una sfaccettata deflagrazione elettrica. Sit Down. Stand Up. è un ipnotico delirio in crescendo che ha il suo apice nel finale, dove batteria e ritmo elettronico si fondono in un tutt’uno. E’ seguita dalla ballata notturna Sail To The Moon e dalle espansività in salsa digitale della splendida Backdrifts. Per contro Go To Sleep ha il piglio del folk-rock psichedelico ed è sorretta dalla chitarra acustica; viene bissata dall’epica rock di Where I End And You Begin che invece precede l’antro oscuro in cui vive la pianistica, plumbea mestizia di We Suck Young Blood. The Gloaming è uno dei momenti più sperimentali dell’album, vista la parentela col glitch e con il rumorismo elettronico, appropriato scenario per la melodia paranoica di Yorke. There There, il singolo, messa subito dopo, col suo forte impatto elettrico e con dei toni maggiormente distesi, finisce con l’essere quasi catartica. I Will, altro lento emotivamente intenso, si gioca le sue carte su un raddoppio vocale, A Punchup At A Wedding è un alieno R’& B’, Myxomatosis un bad trip elettro-futurista, Scatterbrain una dolce ballata malinconica. Chiude l’album A Wolf At The Door, un’evanescente talking-blues dall’andamento cadenzato. Disco come sempre non facile e bisognoso di diversi ascolti, Hail To The Thief è album completamente calato nella contemporaneità, sia a livello sonoro, col suo alternare organico e digitale, che a livello lirico, immerso com’è in quest’epoca di guerre e sbando senza direzioni. I Radiohead si confermano cantori dei nostri tempi confusi e lo fanno con un album la cui reale portata ci verrà data solo dal passare del tempo.

Lino Brunetti

MELVINS LITE @ Bloom, Mezzago 1 maggio 2013

Foto © Lino Brunetti

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Non è certo la prima volta che i Melvins passano dal nostro paese ma, ogni volta, è una sorta di festa a cui è doveroso presenziare. E così abbiamo fatto anche stavolta, recandoci allo storico Bloom di Mezzago per farci sventagliare le orecchie dalle staffilate soniche della band che, proprio in questi giorni, torna nei negozi con un divertente disco di covers, Everybody Loves Sausages. La serata non è sold out ma, comunque, la presenza e la partecipazione del pubblico non manca di certo. Ad aprire le danze ci pensano i Big Business, power trio di Seattle, molto amico di Buzzo e soci. Il loro stoner sludge iper compresso e potentissimo è quanto di meglio per introdurre la serata; Jared Warren e compagni, per circa una quarantina di minuti, assalgono il pubblico con le loro canzoni schiacciasassi e tiratissime, dalle sonorità selvagge e fangose. Un bell’inizio, niente da dire! Sono passate da poco le 23 e 30, quando sul palco arrivano i Melvins, come nel loro recente Freak Puke, in formazione Lite, ovvero a tre, con King Buzzo a voce e chitarra, Trevor Dunn a contrabbasso e cori e Dale Crover alla batteria e ai cori. La presenza del contrabbasso rende abbastanza particolare le sonorità del trio, aggressive e tonitruanti ma, allo stesso tempo, non prive di una certa raffinatezza, che sposta l’asse sonoro verso territori a tratti quasi avant. E’ un po’ quello che era successo proprio nel Freak Puke sopra citato che, guarda caso, viene eseguito quasi per intero. Trevor Dunn è un istrione, un musicista versatile che dai Mr. Bungle ai lavori con John Zorn, ha dimostrato di saper suonare di tutto; in questa serata martoria il suo strumento con l’archetto e con le dita, ne tira fuori suoni di tutti i tipi, gigioneggia con gli sguardi e gioca facendo la seconda voce. Naturalmente è ben assistito da quella macchina da ritmo che è Dale Crover, un picchiatore di pelli che non conosce riposo (e che ancora di più si sentirà in dovere di non mostrare cedimenti quando, nell’ultimo quarto d’ora di show, verrà raggiunto da Coady Willis dei Big Business alla seconda batteria, per un tripudio tribale d’assalto). Buzz Osborne, invece, assomiglia sempre più ad un personaggio burtoniano, con la sua inconfondibile chioma a fungo mossa dall’aria di un ventilatore, il suo camicione nero e con la sua aria sempre un po’ allucinata. Alla voce e alla chitarra ci dà però ancora dentro di brutto e, specie quando sfilano classici come Hooch, Set Me Straight o Shevil, il Bloom si trasforma in una bolgia dal pogo scatenato. Non tutto il concerto è stato così, come dicevamo, con anche momenti meno d’impatto e più orientati al loro versante “sperimentale”. Ciò non toglie che alla fine dell’ora e mezza di show, le orecchie ronzassero non poco e che i sorrisi sulle facce della gente testimoniassero l’ottimo stato di salute della band. Insomma, grandi come sempre.

Lino Brunetti

Foto © Lino Brunetti

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JENNY HVAL “Innocence Is Kinky”

JENNY HVAL

Innocence Is Kinky

Rune Grammofon/Goodfellas

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Non capita tutti i giorni d’imbattersi nel disco di una ragazza che si apre con la dichiarazione di essere davanti al computer eccitata a guardare gente che scopa. Non che sia questo il merito di quest’album ma, certamente, un po’ di curiosità la mette. JENNY HVAL è una giovane cantautrice ed artista norvegese, al secondo album, dopo un passato con i Rockettothesky. Il suo impegno nell’arte contemporanea è facilmente riscontrabile anche nel suo fare musica. Con la produzione di John Parish, ed accompagnata da un quintetto di multistrumentisti, in Innocence Is Kinky dà vita ad una bella selezione di numeri avant-pop, in continua altalenanza tra le dissonaze rock, quasi a là Throwing Muses, di I Called, gli spigoli della title-track, l’elettronica bjorkiana di Renée Falconetti Of Orléans, le trasfigurazioni avant blues di I Got No Strings, le narrazioni poetiche in salsa noise di Oslo Oedipus o Give Me That Sound e la visionarietà degna di un’allucinata PJ Harvey di Is There Anything On Me That Doesn’t Speak?, Amphibious Androgynous e The Seer. Attorniata da chitarre, archi, samples e ritmi, al centro di tutto c’è la sua voce, capace di svettante lirismo, così come di ridursi ad un sussurro. Disco decisamente affascinante ed indubbiamente da sentire.

Lino Brunetti

Novità Thrill Jockey d’aprile: JOHN PARISH, BARN OWL, ZOMES, LIFE COACH

Ogni mese la chicagoana Thrill Jockey (distribuita in Italia da Goodfellas) pubblica quattro album. Vediamo, in breve, quali sono i quattro di aprile. Partiamo da JOHN PARISH, il grande songwriter, chitarrista e produttore (celeberrimo il suo sodalizio con PJ Harvey e note le sue frequentazioni italiane), che, in Screenplay, raccoglie alcuni episodi tratti dalle colonne sonore da lui scritte per film quali “Nowhere Man”, “Sister”, “Plein Sud” e “Little Black Spiders”, opere di registi quali Ursula Meier o Patrice Toye. In bilico tra reminiscenze morriconiane, scampoli di lounge music, chitarre a là John Barry e momenti capaci con sapidi tocchi di creare un’atmosfera, le diciannove tracce qui contenute sono godibilissime anche senza il supporto delle immagini. Ottimo! Questa la formazione che porterà in giro il disco dal vivo: JOHN PARISH – chitarre, tastiere, vocals, JEAN-MARC BUTTY – batteria, MARTA COLLICA – tastiere, vocals, GIORGIA POLI – basso, vocals, JEREMY HOGG – chitarra, lap steel.
John Parish

Interamente strumentale è anche la musica composta dai BARN OWL, il duo formato da Jon Porras ed Evan Caminiti. V segna un deciso scarto rispetto alle prove precedenti, lasciandosi alle spalle i drones chitarristici avant-folk e le derive rock psichedeliche, in favore di una musica più elettronica, tra dub e stratificazioni ambient. Non che non abbiano un loro fascino queste sonorità, ma il genere è davvero inflazionatissimo e noi, probabilmente, preferivamo i capitoli precedenti.

Barn-Owl-V

Sono un duo anche gli ZOMES, un tempo progetto personale del solo Asa Osborne (chitarrista dei Lungfish), oggi ampliatosi con l’innesto della vocalist Hanna degli Skull Defekts. In Time Was, il primo costruisce fraseggi e drones con l’organo, ipnotici, fluttuanti, magmatici, la seconda vi canta sopra delle melodie di volta in volta austere o sognanti, evocative e misteriose. Sotto, una drum machines tiene il ritmo metronomicamente, accentuando la minimale ripetitività del tutto. E’ chiaro quanto anche qui non ci sia nulla d’inedito, ma le varie canzoni non lasciano indifferenti e non è niente male lasciarsi cullare da queste oppiacee bolle velvettiane e dark. Da sentire.

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Arriviamo così ai LIFE COACH, nuovo progetto di Phil Manley dei Trans Am che, alla sua nuova band, ha dato il nome del suo album solista di un paio d’anni fa. A dargli manforte in questa sortita, il batterista Jon Theodore ed il chitarrista Isaiah Mitchell. Alphawaves, disco quasi interamente strumentale, si apre con un drone di tanpura (Sunrise), prosegue con i sette turbinanti minuti della title-track, un affondo kraut-rock degno dei Neu, con batteria motorik e uno stilizzatissimo solo di chitarra, si cheta tra le rilassate trame di Limitless Possibilities, sprofonda tra le sospensioni psichedeliche della bellissima Into The Unknown, torna a farsi terreno tra i riff e la voce in falsetto di Fireball, funambolico hard-rock anni settanta, vibra chitarristicamente con la breve Life Experience, diventa moderatamente tamarro con l’hard-prog di Mind’s Eye, finendo poi col chiudere il cerchio con gli otto pulsanti ed oceanici minuti di Ohm, ennesimo drone che si ricollega in qualche modo all’inizio dell’album. Gran bel dischetto questo dei Life Coach; Phil Manley non ha ancora smesso di darci ottima musica.

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Lino Brunetti

MARCO CAPPELLI’S ITALIAN SURF ACADEMY “The American Dream”

MARCO CAPPELLI’S ITALIAN SURF ACADEMY

The American Dream

Mode Records

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Girava da un bel po’, questo disco, per casa mia – è uscito nel luglio 2012 – e mi scuso sia con voi lettori che con gli stessi autori se solo oggi arrivo a parlarvene. Lo faccio oggi per due ben distinti motivi: il primo perché, ovviamente, è un ottimo lavoro e merita in pieno di essere conosciuto ed ascoltato da più gente possibile, il secondo, intendendo questa recensione come una forma di omaggio nei confronti del maestro Armando Trovajoli, recentemente scomparso, la cui Sesso Matto figura tra le tracce coverizzate in The American Dream. Ma procediamo con ordine. MARCO CAPPELLI, napoletano ma ormai da tempo residente a New York, è un chitarrista assai versatile, capace di stare in bilico tra gli avventurosi sentieri dell’avanguardia e dell’improvvisazione, così come in quelli della musica contemporanea, senza però dimenticare la ricerca sulle radici del folk e del blues e qualche sconfinamento in direzione del pop e del rock più ricercato. Con una cospicua ed eterogenea discografia alle spalle (su etichette quali Mode e Tzadik), molteplici collaborazioni con musicisti come Marc Ribot, Elliot Sharp, Butch Morris e Kato Hideki (giusto per dirne qualcuno) e l’importante esperienza dell’Ensemble Dissonanzen, Cappelli, qui, si unisce al noto batterista Francesco Cusa (Feet Of Mud, Skrunch, Switters, fra i suoi moti progetti) ed al bassista Luca Lo Bianco (anche lui con all’attivo moltissimi lavori) e dà vita all’ITALIAN SURF ACADEMY. La genesi di questo progetto e di questo disco nasce da una serie di conversazioni avute con Marc Ribot, il quale sosteneva che, volendo capire l’essenza della chitarra elettrica, bisognava necessariamente ascoltare la surf music. The American Dream non è però necessariamente solo un disco di surf music, bensì ingloba quel linguaggio in un discorso ben più ampio, sia musicalmente che culturalmente. Inanzitutto è un sentito omaggio all’opera di compositori come il citato Trovajoli, come Bacalov, Umiliani, Morricone, Ortolani, Rustichelli, le cui colonne sonore hanno segnato ben più che un’epoca. Ma è inoltre una testimonianza d’affetto nei confronti di un’America mitica, quella che veniva fuori dai suoni elaborati da un manipolo di grandi compositori italiani che proprio alla surf music americana guardavano per orchestrare le loro musiche destinate a film quali Django, 5 Bambole per la luna d’Agosto, Il Buono, il Brutto e il Cattivo, 6 Donne per l’assassino. I tre, con la collaborazione della brava cantante Gaia Mattiuzzi in un paio di tracce, danno vita ad un inestricabile mescolarsi di surf e tendenze avant, lounge music dai risvolti jazz, scampoli di temi da spy story (in Secret Agent Man di Steve Barri e P.F. Sloan, l’unica cover non italiana), risvegliando, in maniera assai creativa e brillante, tutto quell’immaginario così ben raccontato nel “Mondo Exotica” di Francesco Adinolfi e ben esemplificato dall’immagine posta in copertina. La chitarra di Cappelli si dimostra eclettica e capace di muoversi fra mille sfumature, così come è a dir poco ottima la base ritmica fornita da Cusa e Lo Bianco. Chi ama gruppi come Sacri Cuori, Guano Padano e Calibro 35, non potrà che innamorarsi anche di questo disco.

Lino Brunetti

HOW MUCH WOOD WOULD A WOODCHUCK CHUCK IF A WOODCHUCK COULD CHUCK WOOD? “HMWWAWCIAWCCW?”

HMWWAWCIAWCCW?

HMWWAWCIAWCCW?

Boring MachinesAvant!

Pic by Tanya Mar

Pic by Tanya Mar

Non che corressero il rischio, ma con un nome quale HOW MUCH WOOD WOULD A WOODCHUCK CHUCK IF A WOODCHUCK COULD CHUCK WOOD?, i tre torinesi (Gher, Coccolo e Iside) che si nascondono dietro questa sigla, ho idea che possano scordarsi la possibilità di diventare delle star. Sono partito scherzando, ma è invece serissimo questo progetto che, dopo una manciata di CDr ed uno split coi Father Murphy, arriva oggi all’esordio con questo omonimo album, pubblicato solo in vinile. Poca luce e molta oscurità nelle sei tracce che lo compongono: For Nobody inizia con un plumbeo arpeggio di chitarra in primo piano, mentre sotto di esso una voce mormora chissà cosa ed in lontananza si odono malefiche folate noise. Joy And Rebellion, che ha il passo catatonico degli Earth più malati, ci aggiunge giusto un rintoccare percussivo mortuario, mentre Save Us punta più sulla distorsione ma, nonostante il titolo, non c’è nulla di liberatorio in essa. Davvero ottima la lunga In Aria, che apre la side B: un arpeggio che pare estrapolato da un vecchissimo disco dei Cure, ma come suonato dai Sunn O))), la voce narrante filtrata, agghiaccianti brusii noise dalle retrovie, un pezzo davvero magistrale. Leggermente più convenzionale le ultime due tracce: Oh Dark scopiazza spudoratamente il Michael Gira cantautorale più dark, The Rock, con la voce che borbotta disturbante, ha delle chitarre quasi epiche, a modo loro sulla scia dei Godspeed You! Black Emperor. Un bel disco, per gli amanti delle cose più underground.

 Lino Brunetti

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