DON JUAN AND THE SAGUAROS
Don Juan And The Saguaros South Side Songs/Goodfellas
Il cantautore romano Juan Fragalà ha vissuto la sua adolescenza tra il Messico e gli Stati Uniti, luoghi di cui ha assorbito i suoni e dove non solo ha formato i suoi primi gusti musicali (principalmente Dylan e Johnny Cash), ma ha pure iniziato a maneggiare chitarra ed armonica. Rientrato in Europa, di certo il suo interesse per la musica non è scemato, anzi, si è allargato a generi come il blues, il country, il rockabilly. Nel 2011 pubblica un primo disco – a nome The Gamblin’ Hobo – con dentro ospiti come il bluesman americano Luke Winslow King, ma già l’anno dopo si muove per dare vita ad una nuova formazione che sia in grado di dare un taglio più movimentato e ruspante alle sue composizioni. Nascono così DON JUAN AND THE SAGUAROS – oltre a Fragalà, la band è formata da Andrea Pesaturo alla chitarra elettrica e al banjo, Adriano Cucinella al basso e Andrea Palmeri alla batteria – oggi all’esordio con un disco di genere, frizzante, fresco e pimpante. Non che Don Juan e i suoi compagni s’inventino chissà che di nuovo, ma il modo in cui approcciano la materia, scombinando leggermente le carte qui e là, e la bontà di una scrittura diretta e melodica, ci fa promuovere il loro disco senza esitazioni. Pesaturo è un ottimo chitarrista, capace di risultare tradizionale ma d’imprimere pure pennellate personali ed assai efficaci; la sezione ritmica è un treno inarrestabile nella sua adesione al classico boom-chicka-boom; il resto, come dicevamo, lo fa la qualità di canzoni che, anche grazie al contributo di altri musicisti come, tra gli altri, Antonio Sorgentone (piano), Flavio Pasquetto (pedal e lap steel), Mirko Dettori (fisarmonica) e Giorgio Tebaldi (trombone), conquistano con leggerezza. Il grosso dell’album viaggia sui binari di un country-rock pimpante e ritmato (Help Me Jesus, Help Me Lord, Highway Song #61, la cashiana Julio, con un gran lavoro di pedal steel), acceso da sfumature western swing (Pickin’!), dal tiro rockabilly (Lonely Child), con un occhio puntato all’old time music (Trombone) o punteggiato da un mirabolante piano da saloon (Love Makes You Blind). E se Saint Louis Blues è così classica da sfiorare il plagio, bello è il modo in cui Take Your Time parte folk, per poi impennarsi e perdersi tra fiati New Orleans; fantastico l’impasto elettrico di chitarre nel pezzo più rock in scaletta, Rolling Down; appiccicosa la melodia di One More Time, riuscite le ballate Another Love Song e Out Of Work, la seconda segnata dall’amore per Bob Dylan. Sono le diverse sfumature di una band dal sound tradizionale e limpido, immagino capace di fare faville anche dal vivo.
Lino Brunetti
Il disco, che esce il 10 aprile, lo potete ascoltare in anteprima streaming qui sotto:
In barba a qualsiasi trendy, all’hype del momento o a qualsiasi considerazione circa la (presunta) originalità di una proposta, alla fine i dischi su cui probabilmente si finisce col tornare con più frequenza sono quelli come questo nuovo REIGNING SOUND, il cui suono affonda senza mezzi termini e senza esitazione nel passato e nella tradizione. Del resto, Greg Cartwright, essendo passato in bands quali Oblivians, Parting Gifts, 68 Comeback, Deadly Snakes, Detroit Cobras e Compulsive Gamblers, non è certo un novellino e la materia la conosce bene. In questo nuovo Shattered va direttamente alla fonte, assemblando un disco dal caldo sapore vintage, in cui si mescolano echi stonesiani, soul r&b di marca Stax e Motown, rock’n’roll springsteen/dylaniani e qualche umore roots. Un brano come My My sarebbe piaciuto al compianto Willy DeVille; ballate intinte nel suono di un organo Hammond come la souleggiante Starting New, la pigra Once More, una Falling Rain in territorio Dylan o una If You Gotta Live speziata country, si alternano a più saltellanti pezzi r&b come North Cackalacky Girl o Baby It’s Too Late, in modo da garantire quella varietà di soluzioni necessaria al godimento di un disco. Rilassato e mai troppo concitato, ottimamente scritto ed arrangiato con gusto, Shattered è il classico album old fashioned in cui cercare riparo nei momenti di smarrimento da eccessi di ascolto. Un rifugio sicuro!
E così eccoci qui anche quest’anno, proprio appena s’affaccia il 2014, impegnati nel solito giochetto dei migliori dischi usciti nei dodici mesi appena passati. Una rassegna – così come sottolineato nella propria dall’amico Zambo – che non può che essere che la risultante dei gusti e degli ascolti solo di chi scrive. Non rappresentativa quindi del Buscadero – quella la troverete sul numero di gennaio della rivista – e alla fine neppure di questo blog – auspico però, che almeno il buon Daniele Ghiro voglia dire la sua su questa pagina. Che anno è stato, musicalmente parlando, dunque, il 2013? Per quel che mi riguarda, molto buono direi. Non sono mancati i dischi belli e, anzi, il problema è stato il solito di questi tempi impazziti, ovvero il districarsi tra le mille uscite che invadono un mercato, magari asfittico dal punto di vista delle vendite, ma sicuramente vivace per numero e qualità delle uscite. E se è vero che manca il disco rappresentativo e che i capolavori veri latitano – ma è così facile poi riconoscere all’istante un disco che rimarrà nel tempo? – e che la musica del presente mai era sembrata così pesantemente rivolta ai vari passati della popular music, è anche vero che un appassionato curioso di muoversi fra i generi, di dischi in cui perdersi, nel 2013, ne ha potuti trovare molti.
I RITORNANTI
Parallelamente all’immenso mercato di ristampe e box retrospettivi – vera e propria gallina dalle uova d’oro per l’industria musicale nell’ultimo decennio, ne parleremo brevemente più avanti – il 2013 ha visto il ritorno discografico di un nutritissimo numero d’artisti e bands che, chi più chi meno, mancavano dalle scene da tempo innumerevole. Uno dei dischi più favoleggiati degli ultimi vent’anni, il terzo album dei My Bloody Valentine, ha finalmente visto la luce: MBV non ha deluso le apettative, proponendosi sia quale sunto della ventennale attività misteriosa della band di Kevin Shields, che come punto di ripartenza, nuovamente ardito ed originalissimo (gli ultimi tre, quattro pezzi). Altro gruppo di culto, i Mazzy Star, con Seasons Of Your Day, hanno ripreso il discorso interrotto diciassette anni fa, facendoci riprecipitare fra le loro ballate oppiacee, fatte di country, folk e psichedelia velvettiana. Gran disco! Che dire poi di The Argument dell’ex Hüsker Dü Grant Hart,se non che è un’opera coi controfiocchi? Hart, rispetto all’ex compagno Bob Mould, è sempre stato visto come il “Brutto Anatroccolo”, quello sfortunato, il junkie: il suo nuovo album è invece un disco ambizioso e creativo, colmo di bellissime canzoni, servite tramite un mix di raffinata ruvidezza, che come non mai ci mostra Hart autore vario e sopraffino. Mai stato un grande fan di David Bowie, eppure devo dire che il suo The Next Day l’ho apprezzato non poco. Probabilmente non lo metterei tra i miei dischi dell’anno, ma almeno tre/quattro delle sue canzoni svettano in una scaletta che comunque non ha cadute di tono. Uno su cui invece non ho mai avuto dubbi è Roy Harper: il suo nuovo album, parzialmente prodotto da Jonathan Wilson, è un gioiello, magari non per tutti, però dal fascino senza tempo e disco di quelli che non si trovano tutti i giorni. Devo ammetterlo, non ci avrei scommesso un euro circa la bontà del rientro discografico dei riformati Black Sabbath: invece 13 è davvero niente male! I riff, le atmosfere, in parte anche la voce di Ozzy, sono quelli dei primi lavori; nessuna vera novità, però una scrittura ben più che dignitosa, al servizio di un sound che ha fatto epoca ed è ormai leggendario. Come diceva qualcuno, nessuno fa i Black Sabbath meglio dei Black Sabbath stessi! Potremmo aggiungere, nessuno fa gli Stooges come gli Stooges: il loro Ready To Die non è un capolavoro, però è l’ennesimo sputacchio punk che ha permesso ad Iggy e compagni di tornare a sculettare selvaggiamente sui palchi di mezzo mondo e questo ci basta. Mi aspettavo grandi cose invece dai rinnovati Crime & The City Solution e così è stato: American Twilight è un ottimo album di rock vetriolitico e di blues allucinato, in cui il contributo prezioso di Mr. Woven Hand si sente e accresce il feeling gotico emanato da questi solchi. La palma di ritorno più inaspettato e bizzarro è però quello di Dot Wiggin, un tempo nelle famigerate Shaggs, la “peggior band della Storia del Rock”. Garage rock intinto di irresistibile freschezza naif, che ha fatto felice i cultori di questa favolosa leggenda underground. Che altro rimane da citare in questa sezione? Il fascinoso libro/CD delle Throwing Muses, Purgatory/Paradise e, alla voce mezze delusioni, lo sciapo, nuovo EP dei Pixies ed il dignitoso, ma lontano dai vecchi fasti, Defend Yourself dei Sebadoh.
SINGER SONGWRITERS
Poche esitazioni, il 2013, sul versante cantautorale, ha dato non poche soddisfazioni. Eletto da più parti (a ragione) disco dell’anno, Push The Sky Away è uno dei migliori Nick Cave degli ultimi tempi. Un disco di ballate straordinarie, intense, toccanti; soprattutto un disco che ci mostra un Cave ancora in movimento, ancora desideroso di cercare strade nuove, fortunatamente lontano dal manierismo che iniziava a far capolino in alcuni dei suoi più recenti lavori. Altro nome capace di mettere d’accordo pubblici anche diversi fra loro, il già citato precedentemente Jonathan Wilson. Vecchio? Prolisso? Può darsi, però anche incredibilmente creativo ed evocativo, il suo Fanfare è un vero tuffo in un verbo rock d’altri tempi, ancora affascinante oggi, grazie soprattutto a grandi canzoni, un suono strabiliante e arrangiamenti sofisticati, serviti inoltre da una band che sa decisamente il fatto suo. Mathew Houck aka Phosphorescent se n’è uscito con quello che è forse il suo miglior lavoro, Muchacho, ottima sintesi di tradizione e modernità, quindi con un occhio al classico ed uno al pubblico independente. Altro grandissimo lavoro è Dream River di Bill Callahan: l’uomo un tempo conosciuto come Smog, è tornato con un disco asciutto ma caldo, fatto di vivide ballate segnate dalla sua inconfondibile personalità e da un’autorevolezza qui al meglio della sua forma. Niente male anche il nuovo Kurt Vile, Wakin On A Pretty Daze, disco fluviale sempre in bilico tra scrittura classica e retaggio indie. Forse giusto solo un po’ monocorde, ma da sentire. Ancora più interessanti mi son sembrati due dischi usciti (forse) sul finire del 2012, ma di cui tutti hanno finito col parlarne nel 2013: Big Inner di Matthew E. White ci ha rivelato tutto il talento di un cantautore con molto da dire e decisamente originale, protagonista tra l’altro di un paio dei più bei momenti live vissuti quest’anno dal sottoscritto; le ballate tormentate di John Murry e del suo The Graceless Age sono uno dei passaggi obbligati di quest’annata, straordinarie per intensità, scrittura e sincerità, la classica situazione in cui la vita vera pare prendere forma sul pentagramma. Ben due i dischi di Mark Lanegan usciti nel 2013, ma mentre il Black Pudding fatto in coppia con Duke Garwood è un disco crudo, disossato e denso di nudo pathos, meno convincente è parso Imitations, secondo disco di covers della sua carriera, purtroppo del tutto privo della potenza di I’ll Take Care Of You e, in più d’un passaggio, piuttosto di maniera e un po’ bolso, quasi come quel jazz da salotto che viene ancora scambiato per musica. Nella migliore delle ipotesi, abbastanza inutile. Il nome è quello di una band, Willard Grant Conspiracy, ma si sa che è quasi interamente sempre stata faccenda del solo Robert Fisher: l’ultimo Ghost Republic è un disco scarno e forse per pochi, però è anche uno di quelli che, se opportunamente sintonizzati su malinconiche frequenze, capace di elargire magia pura. Tutti lo conoscevano quale uno dei più visionari ed originali registi degli ultimi trent’anni: da un po’ di tempo a questa parte, pare però sia diventata l’attività di musicista quella principale per David Lynch. The Big Dream è il suo secondo lavoro, un disco di blues mesmerico e sognante, ovviamente profondamente lynchiano nelle sue conturbanti movenze. Per quello che riguarda le voci femminili, è stata probabilmente Lisa Germano quella che ha allestito il disco più particolare dell’annata, No Elephants, album in cui il suo cantautorato intimo si palesa attraversa un suono minimale e un pizzico di intrigante lateralità. Altro nome che ha avuto un certo eco nel 2013 è stato quello di Julia Holter: il suo Loud City Song se ne sta in bilico tra carnalità e sonorità eteree, tra scampoli di reminiscenze 4AD, pop, qualche inserto cameristico ed un pizzico d’elettronica. Un nome che, per certi versi, potrebbe esserle affiancato è quello di Zola Jesus, il cui passato sperimentale ed underground si riverbera oggi nelle reinterpretazioni ben più pop e “classiche” di Versions. Ma sono altri i dischi da ricordare veramente: il definitivo ritorno a standard altissimi di Josephine Foster con I’m A Dreamer, la brillantezza di Personal Record di Eleanor Friedberger, l’intensa maturità della Laura Marling di Once I Was An Eagle, lo sfavillio di Pushin’ Against The Stonedi Valerie June, le ruvidezze di Shannon Wright in In Film Sound, nonché quelle di Scout Niblett in It’s Up To Emma o, per contro, la dolcezza folk-pop delle esordienti Lily And Madeleine.
(PS devo sentire ancora in modo appropriato il nuovo Billy Bragg, di cui ho letto un gran bene; mentre da ciò che ho orecchiato, John Grant non fa proprio per me).
BANDS
E’ sempre difficile essere categorici, ma la mia Palma di disco dell’anno se la beccano i Primal Scream di More Light, creativi e potenti come non gli capitava da tempo, calati nei nostri tempi tramite testi ultra politicizzati e musicalmente vari ed esaltanti. Un capolavoro! Politicizzati lo sono sempre stati anche gli svedesi The Knife, di ritorno quest’anno con un mastodontico triplo LP di elettronica livida, oscura ed ostica, che solo labili tracce del loro passato pop continua a mantenere. Disco coraggiosissimo, così come a suo modo coraggioso era il loro spettacolo “live”, di cui potete leggere le mie tutt’altro che entusiastiche impressioni qui sul blog. Livido, oscuro ed ostico sono ottimi aggettivi per un altro album amatissimo dell’anno appena trascorso, il visionario The Terror dei Flaming Lips, recentemente ancora nei negozi anche con l’EP Peace Sword, ennesima dimostrazione dell’inarrestabile stato di grazia della formazione americana. Stato di grazia che continuano ad avere anche i Low con The Invisible Way: è il loro disco più sereno, più arioso, in larga parte costruito sul pianoforte, un disco che non smette di perpetrare l’incanto tipico di buona parte della loro produzione. Non sono gli unici veterani ad aver fatto vedere belle cose: non male, anche se a mio parere inferiore alle loro ultime uscite, Change Becomes Us dei Wire, Re-Mit dei Fall, Fade degli Yo La Tengo, Vanishing Point dei Mudhoney e, soprattutto, Tres Cabrones firmato da dei Melvins in grandissima forma. Uno dei dischi più discussi è stato l’ultimo Arcade Fire, Reflektor: chi lo ha valutato quale capolavoro, ha dovuto scontrarsi con quanti l’hanno visto quale ciofeca inenarrabile. Io mi metto nel mezzo, nel senso che lo considero un album discreto, con qualche buona canzone, un paio ottime e un bel po’ di roba di grana un po’ grossa. Ammetto anche, però, di non avergli ancora dedicato la giusta attenzione, prendete quindi queste considerazioni per quello che sono, impressioni più che altro. Grande credito presso la critica hanno avuto pure AM degli Arctic Monkeys e Trouble Will Find Me dei National, due band che apprezzo ma per cui non stravedo. Non sono invece rimasto deluso dall’evoluzione e dai cambiamenti in casa Midlake: è vero, in Antiphon il prog è pericolosamente protagonista, ma l’insieme mi piace parecchio e, anzi, penso sia questo il miglior lavoro della band americana. Bello ed ambizioso anche l’ultimo Okkervil River, The Silver Gymnasium, così come da sentire è anche il disco di cover dei loro cugini Shearwater, Fellow Travellers. Come sempre di grande livello il ritorno dei Califone con Stitches, mentre il poco invidiabile primato di schifezza dell’anno se lo beccano senza esitazione i Pearl Jam: il loro Lightning Bolt non si può proprio sentire! Come sempre, grandi soddisfazioni arrivano dalle bands dedite alla psichedelia: dagli immensi Arbouretum di Coming Out Of The Fog ai Black Angels di Indigo Meadows, dalle molte incarnazioni di Ty Segall (Fuzz in testa) ai soliti ma sempre esaltanti Wooden Shijps, passando poi per Grim Tower, Dead Meadow e White Hills fra le tante cose sentite. Tra i gruppi più o meno nuovi, da non dimenticare New Moon dei The Men, i debutti delle Savages, dei Rose Windows e degli Strypes, l’ottimo General Dome di Buke And Gase, Threace dei CAVE e il folle Make Memories dei Foot Village. Tra le cose, diciamo così, più sperimentali o comunque meno rock, l’immenso Colin Stetson di New History Warfare Vol.3 – To See More Light, le doppietta Fire!/Fire! Orchestra, (without noticing)/Exit!, All My Relations di Black Pus, i Boards Of Canada di Tomorrow’s Harvest, i Wolf Eyes di No Answer: Lower Floor, i Matmos di The Marriage Of True Minds e i Fuck Buttons di Slow Focus.
ITALIANI
Nessun italiano in questa classifica? Eccoli qui! Per il sottoscritto il titolo italiano dell’anno è Aspettando I Barbari dei Massimo Volume, intenso, scuro e potente. Bellissimo come sempre il nuovo Cesare Basile (con un disco omonimo), così come anche Quintale dei Bachi Da Pietra, sorta di svolta “rock” per il duo. Ambiziosissimo, monumentale, straordinario, il nuovo Baustelle, Fantasma. Tra le altre cose da recuperare assolutamente, lo splendido esordio dei Blue Willa, il recente album di Saluti Da Saturno, Post Krieg di Simona Gretchen, Withoutdei There Will Be Blood, il nuovo Sparkle In Greye Hazy Lights di Be My Delay.
RISTAMPE
Se possibile, escono ancora più ristampe e cofanetti retrospettivi che dischi nuovi. Questa sezione potrebbe pertanto essere la più lunga di tutte. Voglio però limitarmi a citarne solo due, perché sono state quelle per me più importanti e significative dell’annata. Non potrebbero essere più diverse l’una dall’altra e questa è un’altra cosa che mi stuzzica non poco. Inanzitutto il box in sei CD sulle session di Fisherman’s Blues dei Waterboys: Fisherman’s Box è uno scrigno colmo di tesori, un oggetto a cui tornare e ritornare più e più volte, con tanta di quella musica immensa dentro che quasi non ci si crede. A lui affianco la ristampa (rigorosamente in vinile) di ½ Gentlemen/Not Beasts degli Half Japanese, uno dei dischi più rumorosi, grezzi, folli, infantili, per molti versi agghiacciante dell’intera storia del rock. Per farla breve, un capolavoro!
Qui sotto i miei venti dischi dell’anno, in rigoroso ordine alfabetico. E’ tutto, buon 2014!
I GIUDA son una band romana nata sulle ceneri dei punk Taxi, che tanto ha fatto parlare di sé col loro primo disco, Racey Roller, non solo finito sulle pagine di Mojo, vera rarità per un gruppo italiano, ma che ha pure collezionato pareri entusiastici da personaggi quali Kim Fowley, Robin Wills dei Barracudas e Phil King di Lush e Jesus & Mary Chain, tra gli altri. Ed evidentemente anche da parte del buon vecchio Billy Childish, visto che Let’s Do It Again esce nientemeno che su Damaged Goods, l’etichetta del vecchio leone inglese. Beh, non si può negare che se siete in cerca di un misto di rock’n’roll, punk, glam e pub rock stradaiolo, il tutto infarcito di melodia, cori da stadio da cantare a squarciagola, riffoni ed assoli di chitarra, pianoforti saltellanti e tanto ritmo, i dieci brani di questo nuovo album dei Giuda, siano la fermata che fa per voi. Niente che non si sia sentito migliaia e migliaia di volte, con anche quel pizzico di tamarragine proletaria, sacrosanta ed obbligatoria, visto il contesto, ma, nel genere, fatto assai bene.
Un po’ come abbiamo fatto per il Primavera Sound, vi raccontiamo qui l’edizione 2013 del bellissimo festival End Of The Road – si tiene nel Dorset, in Inghilterra, ogni anno alla fine di agosto – attraverso una galleria di immagini, rimandandovi ad un più completo report che apparirà sul prossimo Buscadero. Per il momento, buona visione quindi.
Dopo aver assistito al Primavera Sound di Barcellona, quest’anno chiuderemo idealmente la stagione dei festival partecipando anche all’End Of The Road, da cui vi faremo avere impressioni, foto ed un completo report. Qui sotto trovate il programma completo, più una serie di link attraverso i quali potrete acquistare gli ultimi biglietti disponibili (nel caso vogliate chiudere le vostre vacanze con un bel festival nel sud dell’Inghilterra), ascoltare dei mixtapes con gli artisti in cartellone, avere tutte le informazioni al riguardo. L’End Of The Road 2013 si terrà dal 30 agosto al 1 settembre nei Larmer Tree Gardens, nel North Dorset.
Per tutti gli appassionati di musica, quello col Primavera Sound di Barcellona, è un appuntamento annuale assolutamente da non perdere. Annunciato con lo slogan Best Festival Ever, il Primavera di quest’anno è stato un grandissimo successo sia di pubblico (oltre 170000 le presenze nei tre giorni a pagamento), che in termini di proposta musicale. Veramente tante le cose da ricordare: da un Nick Cave in forma smagliante ad un magico Mulatu Astatke, dall’atmosfera emozionante creata dai Dead Can Dance, all’intensità di gruppi come Neurosis o Swans, per arrivare alla grandezza di giovani songwriters come Matthew E. White o Phosphorescent o al divertimento assicurato da bands quali Goat, Metz o Thee Oh Sees. Un vero e proprio report sulla manifestazione, apparirà sul numero di luglio/agosto del Buscadero; qui, sarà essenzialmente attraverso una galleria fotografica che proveremo a raccontarvi i nostri giorni nella città catalana. Iniziando a contare fin da adesso i giorni che mancano al prossimo Primavera, di cui è già stato annunciato il primo nome: Neutral Milk Hotel! Appuntamento a Barcellona quindi, 29, 30 e 31 maggio 2014!!!!
Parc del Forum
Parc del Forum
Parc del Forum
Parc del Forum
The Bots
Guards
The Vaccines
The Breeders
Wild Nothing
Woods
Savages
Savages
Blue Willa
Blue Willa
Girl portrait
Metz
Parc del Forum
Do Make Say Think
Bob Mould (before the show)
Hot Snakes
Fucked Up
Dead Skeletons
Animal Collective
Animal Collective
Ethan Johns
Mulatu Astatke
Mulatu Astatke
Daniel Johnston
Daniel Johnston
Om
Matthew E. White
Jesus & Mary Chain
Jesus & Mary Chain
Neurosis
Neurosis
Swans
Swans
Goat
Goat
Mount Eerie
Julia Chirka & Lauren Ashley Eriksson (Mount Eerie) – portrait
Del nuovo album di Matthew Houck aka Phosphorescent, Muchacho, abbiamo già detto tutto il bene possibile sul Buscadero, tramite recensione ed intervista. Ci torniamo su ora, giusto per segnalarvi la sua performance negli studi della sempre ottima KEXP Radio di Seattle. Enjoy!
Superstar internazionale, a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 col nome di Terence Trent D’Arby, all’età di 33 anni SANANDA MAITREYA dice basta. Basta coi compromessi che l’industria musicale vuole imporgli, basta con le pressioni che gli arrivano dal successo e coi tentativi di censurargli le sue idee. E’ il 1995 quando cambia, musicalmente e legalmente, nome ed inizia la sua nuova carriera musicale e, di conseguenza, la sua nuova vita. Oggi Sananda vive a Milano con moglie e due figli e, in tutti questi anni, ha continuato a comporre, suonare e pubblicare musica in quella totale libertà tanto cercata. Non farò finta di conoscere tutto quello che ha fatto nella sua carriera, perché non sarebbe vero, però, quello che posso dirvi, è che Return To Zooathalon, suo nono album in studio, il diciottesimo se contiamo anche i live, è un disco per molti versi sorprendente. Opera mastodontica (22 brani per oltre 75 minuti di musica) e sorta di concept dedicato allo Zooathalon (la parata degli archetipi psicologici che si relazionano al progresso della mente umana attraverso la “ruota del tempo”, nientemeno), questo nuovo album è una girandola di canzoni dove rock, blues , pop e soul si fondono in un melange black, dove l’inconfondibile voce di Sananda ha modo di rifulgere. Interamente scritto, prodotto e suonato da Maitreya stesso – che dà prova di essere un polistrumentista coi controfiocchi, il disco è tutt’altro che minimale – Return To Zooathalon colpisce inoltre per la verve dinamica di cui sono intrisi la maggior parte degli episodi: dal soul psichedelico di DFM (Don’t Follow Me) alla propulsione melodica di Save Me, dalla doppietta intitolata Stagger Lee (funky nella prima parte, come dei Beatles virati black nella seconda) alla solarità a là Garland Jeffreys di Albuquerque, passando per ballate pulsanti come Ornella Or Nothing o Where Do Teardrops Fall?, davvero non si conoscono pause. Belli i numerosi pezzi rock in scaletta (Tequila Mockingbird, She’s Not Right, la title-track, ad esempio), così come quelli dove si mischiano un po’ le carte (l’insolita Mr. Grüberschnickel, l’eterea e notturna Walkaway). Forse fin troppo lungo e dispersivo, comunque un piacevole sentire. Per info qui.
Ogni mese la chicagoana Thrill Jockey (distribuita in Italia da Goodfellas) pubblica quattro album. Vediamo, in breve, quali sono i quattro di aprile. Partiamo da JOHN PARISH, il grande songwriter, chitarrista e produttore (celeberrimo il suo sodalizio con PJ Harvey e note le sue frequentazioni italiane), che, in Screenplay, raccoglie alcuni episodi tratti dalle colonne sonore da lui scritte per film quali “Nowhere Man”, “Sister”, “Plein Sud” e “Little Black Spiders”, opere di registi quali Ursula Meier o Patrice Toye. In bilico tra reminiscenze morriconiane, scampoli di lounge music, chitarre a là John Barry e momenti capaci con sapidi tocchi di creare un’atmosfera, le diciannove tracce qui contenute sono godibilissime anche senza il supporto delle immagini. Ottimo! Questa la formazione che porterà in giro il disco dal vivo: JOHN PARISH – chitarre, tastiere, vocals, JEAN-MARC BUTTY – batteria, MARTA COLLICA – tastiere, vocals, GIORGIA POLI – basso, vocals, JEREMY HOGG – chitarra, lap steel.
Interamente strumentale è anche la musica composta dai BARN OWL, il duo formato da Jon Porras ed Evan Caminiti. V segna un deciso scarto rispetto alle prove precedenti, lasciandosi alle spalle i drones chitarristici avant-folk e le derive rock psichedeliche, in favore di una musica più elettronica, tra dub e stratificazioni ambient. Non che non abbiano un loro fascino queste sonorità, ma il genere è davvero inflazionatissimo e noi, probabilmente, preferivamo i capitoli precedenti.
Sono un duo anche gli ZOMES, un tempo progetto personale del solo Asa Osborne (chitarrista dei Lungfish), oggi ampliatosi con l’innesto della vocalist Hanna degli Skull Defekts. In Time Was, il primo costruisce fraseggi e drones con l’organo, ipnotici, fluttuanti, magmatici, la seconda vi canta sopra delle melodie di volta in volta austere o sognanti, evocative e misteriose. Sotto, una drum machines tiene il ritmo metronomicamente, accentuando la minimale ripetitività del tutto. E’ chiaro quanto anche qui non ci sia nulla d’inedito, ma le varie canzoni non lasciano indifferenti e non è niente male lasciarsi cullare da queste oppiacee bolle velvettiane e dark. Da sentire.
Arriviamo così ai LIFE COACH, nuovo progetto di Phil Manley dei Trans Am che, alla sua nuova band, ha dato il nome del suo album solista di un paio d’anni fa. A dargli manforte in questa sortita, il batterista Jon Theodore ed il chitarrista Isaiah Mitchell. Alphawaves, disco quasi interamente strumentale,si apre con un drone di tanpura (Sunrise), prosegue con i sette turbinanti minuti della title-track, un affondo kraut-rock degno dei Neu, con batteria motorik e uno stilizzatissimo solo di chitarra, si cheta tra le rilassate trame di Limitless Possibilities, sprofonda tra le sospensioni psichedeliche della bellissima Into The Unknown, torna a farsi terreno tra i riff e la voce in falsetto di Fireball, funambolico hard-rock anni settanta, vibra chitarristicamente con la breve Life Experience, diventa moderatamente tamarro con l’hard-prog di Mind’s Eye, finendo poi col chiudere il cerchio con gli otto pulsanti ed oceanici minuti di Ohm, ennesimo drone che si ricollega in qualche modo all’inizio dell’album. Gran bel dischetto questo dei Life Coach; Phil Manley non ha ancora smesso di darci ottima musica.