LUMINANCE RATIO “Honey Ant Dreaming”

LUMINANCE RATIO
Honey Ant Dreaming
Alt.Vinyl

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Accantonata (momentaneamente?) la serie di 7” split che li ha visti affiancarsi a personaggi quali Steve Roden, Oren Ambarchi e Yannis Kyriakides, i Luminance Ratio tornano con il loro terzo album, pubblicato solo in vinile in una confezione bellissima dalla prestigiosa etichetta inglese Alt.Vinyl, a definitiva testimonianza che le nostre cose più sperimentali sono conosciute ed apprezzate anche all’estero. Honey Ant Dreaming vede il quartetto trarre ispirazione dal quasi omonimo dipinto effettuato dagli aborigeni Papunya nel 1971. Forse la loro cosa migliore di sempre, è un disco visionario e potentissimo, un autentico trip oscuro e luminoso allo stesso tempo, miscuglio di drones, elettronica, rumorismo, ritmi e chitarre. Apre il viaggio la psichedelia etno ritualista di Honey Ant Dreaming; I Am HE And She Is SHE But You Are The Only YOU è un drone maestoso ed abbagliante come un fiume in piena; Splinters Of Rain è più rarefatta e circospetta, mi fa venire in mente la profondità di un foresta pluviale, la sua vita brulicante, spezzata da bruitiste distorsioni a spezzare la quiete, a dar corpo ai pericoli nascosti; Passage D’Enfer ci porta tra scansioni industrial noise, con squarci free; Great White’s All Around mette un battito sordo a tenere assieme i layers sonori, le lamine perfettamente orchestrate con dronico moto ascensionale verso la luce più pura; infine Blood Vessels proietta un’elettronica afasica e singultante nel selvaggio tripudio percussivo finale. Tra le cose migliori sentite nel genere da un bel po’ di tempo a questa parte. Ottimo!

Lino Brunetti

ABOVE THE TREE & DRUM ENSEMBLE DU BEAT “Cave_Man”

ABOVE THE TREE & DRUM ENSEMBLE DU BEAT

Cave_Man

Bloody Sound FucktoryLocomotiv Records/Audioglobe

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Dopo aver diffuso la sua musica attraverso cassette, vinili e i formati più disparati, il mascherato chitarrista ABOVE THE TREE – al secolo Marco Bernacchia da Senigallia – torna con un album che prosegue ed aggiorna il discorso del precedente Wild. Mentre quello era stato realizzato con la collaborazione di E-Side, stavolta Bernacchia collabora col DRUM ENSEMBLE DU BEAT, ovverosia Enrico “Mao” Bocchini alle percussioni e Edoardo Grisogani agli electronics. Quella approntata dai tre è una musica ipnotica e dai marcati accenti ritualistici. La struttura dei loro pezzi è più o meno sempre la stessa: la chitarra elettrica disegna liquide ed effettate figure reiterative dalle poche e minime variazioni, a volte utilizzando anche la registrazione multitraccia; la voce, quando c’è , è usata come ulteriore strumento musicale; gli strumenti di Bocchini e Grisogani creano un adeguato e pulsante tappeto ritmico, capace di tenere ancorato al terreno il sound tutto. Quello che ne viene fuori è una sorta di trance music dove si intrecciano suggestioni etno, estatici deliri psichedelici, fantasmatici rituali persi nel tempo, sprazzi di visionaria ambient e un pizzico di pulsazione dance. Bellissima la rarefatta e desertica Down Wind Song, abbellita dal banjo essiccato di Glauco Salvo, e limpida materializzazione di un crudele sole a picco sulle nostre teste; in People From The Cave s’insinua subdolamente il sax di Roberto VillaBlack Spirits evoca invece le danze rituali degli indiani d’America, andando a ripescare delle registrazioni pubblicate su cassetta nel 1972 dalla Canyon Records (Kyowa: forty-nine & round dance songs); End Of Era, aperta dal suono delle chitarre in reverse, grazie agli archi apportati da Nicola Manzan, assume toni più platealmente cinematici e, in piccola parte, post-rock. Col suo mood stonato, oppiaceo, fumoso e dai confini poco definiti, Cave_Man è senza dubbio un ascolto affascinante, l’ennesima brillante variazione sul concetto di psichedelia in questi psichedelissimi anni.

Lino Brunetti

MOPE “Mope”

MOPE

Mope

Taxi Driver Records

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A Genova e dintorni le cose si stanno facendo sempre più interessanti vista la gran quantità di progetti e band che vivono (e suonano) il meteorologicamente disastrato territorio ligure. Nell’ambito dello stoner doom poi le cose vanno a meraviglia e tutti questi gruppi perpetuano una tradizione che ormai comincia ad avere radici solide e lontane nel tempo. Tra i nuovi adepti possiamo annoverare i MOPE che debuttano con l’omonimo lavoro (Taxi Driver Records) annoverando a dire il vero tra le proprie fila non proprio dei novellini e non solo barbuti doomster di navigata solidità, vale a dire Fabio Cuomo degli Eremite alla batteria e Stefano Parodi dei Vanessa Van Basten al basso, bensì anche le gentili donzelle Jessica Rassi (artista presso The Giant’s Lab) alla chitarra e Sara Twinn, sax, già con i Folagra. Proprio da quest’ultima si può partire per parlare di loro, perché il suo sassofono è la parte centrale e principale della loro musica. Sulle afose atmosfere create dalla base ritmica e dalla chitarra si staglia il gelido suono del sax, nitido e mai distorto, quasi a voler delineare una immaginaria ed inusuale linea vocale (i brani sono strumentali) perché spesso la sua delicata melodia si scontra (doverosamente) con la inquietante ostilità alle sue spalle. Proprio questa dicotomia rende affascinante il progetto, là dove la musica della band è sporca ed abrasiva il suono del sax va a controbilanciare armoniosamente ma con la giusta dose di sinistra profondità. Amate i Kilimanjaro Darkjazz Ensamble o i Bohren And Der Club Of Gore ma a volte ascoltandoli vorreste più volume, più chitarre e meno elettronica dal sapore jazz? I MOPE fanno per voi, si posizionano su quelle lunghezze d’onda perché hanno il jazz ma del resto anche la narcolettica potenza sonica degli Sleep. Tre lunghi pezzi per oltre mezz’ora di drone mefitici profumati dal sax, suoni ipnotici tesi e fumosi, proprio come quella bruma che sale dal terreno dopo un violento temporale nel torrido sole d’agosto.

Daniele Ghiro

KANDODO “K2O”

KANDODO

K2O

Thrill Jockey/Goodfellas

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Simon Price è membro dei The Heads. Come kandodo è autore di due album, di cui il secondo, k2o, fresco di stampa. Miscelando strati di chitarre e tastiere, field recordings e la batteria di Wayne Maskell (anche lui nei The Heads), dà vita a composizioni strumentali ultra psichedeliche, il cui culmine sta tutto nei 22 minuti di Swim Into The Sun, un mastodonte pieno di rifrazioni sonore e paesaggi liquidi che pare estrapolato da un disco di dei Neu particolarmente allucinati. Sta diventando un territorio fin troppo affollato ed inflazionato questo ormai, piuttosto manierista – e la Thrill Jockey ne ha diversi in catalogo di esperimenti del genere, quasi sempre dei side-project – ma è chiaro che gli appassionati del genere ci sguazzeranno alla grande qui dentro. Soprattutto il pezzo citato, che occupa l’intera side 2 del vinile, pur senza dir nulla di nuovo, piace non poco.

Lino Brunetti

BORIS “PRAPARAT”

BORIS

Praparat

Daymare Recordings

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Premessa: ascolto i Boris da tanto tempo, mi sono sempre piaciuti, come tanti altri gruppi, ma poi sono stato fulminato da un loro concerto, che mi ha preso per i capelli in un vortice senza fine al quale non ho opposto resistenza e dal quale sono stato catturato. Dal quel giorno per me i giapponesi sono diventati una band superiore. Sarà il fascino del Sol Levante, sarà una pizza mangiata fianco a fianco al Magnolia qualche anno fa, sarà un carisma che cola a secchi dalle loro figure, ma rimane il fatto che quando ascolto la loro musica entro in una dimensione parallela. La dimensione Boris. Che fino a qualche tempo fa era fatta di grezzi riff metallici, molto rumore e tanto altro, ma che negli ultimi anni ha conosciuto sterzate verso la psichedelia, il post rock, lo shoegaze ed anche il pop. Di conseguenza, all’uscita di un loro nuovo album, non sai mai cosa aspettarti dagli eclettici giapponesi e Praparat, uscito un po’ in sordina, si discosta nettamente dal loro precedente Attention Please, (in verità uscito in contemporanea con il più robusto Heavy Rocks II, con il quale Praparat ha più cose in comune). Però, al solito, non tutto è così facile da spiegare, perché la partenza viene per esempio affidata a December e sembra di aver messo su un disco dei Mogwai, tanto rarefatti e delicati sono i tocchi della chitarra. Ancora mi stò chiedendo cosa aspettarmi che la pesantezza tipicamente melvinsiana di Elegy irrompe negli speakers: riff scuro dai contorni sfumati, la voce di Takeshi che pare rubata ad un manga, dolce e sensuale, completamente fuori contesto, ma talmente centrata che l’accelerazione tremenda del finale mi coglie clamorosamente di sorpresa. Monologue, così come Mirano, sono post rock puro, con spruzzate melodiche intriganti dettate dalla chitarra solista mentre le campane a festa su un ritmo lentissimo e cadenzato creano l’effetto straniante e fuori dalle regole che caratterizza Method Of Error. I Boris attraversano i generi musicali e li infilzano a sangue di traverso, raccogliendone gocce e pezzi triturati per poi ricurcirli insieme: a volte sclerano e si immettono nella velocità supersonica della brevissima Perforated Line, altre si imbattono nella pianola stonata e mortuaria di un tristissimo circo (Castle In The Air). Ma poi ci sono anche le fiamme dell’inferno e sono quelle che lasciano di più il segno: Canvas è l’apocalisse infernale dal tremebondo attacco chitarristico, duro urticante, quasi immobile eppur squassante. Bataille Soure è un durissimo mid tempo dai tetri riff, grancassa spaccatimpani, frequenze basse e voci che sembrano provenire dall’oltretomba, un incubo semi industriale dei peggiori. Prendere o lasciare: tra questo brano e l’iniziale December apparentemente c’è un’abisso, ma i giapponesi hanno il dono del tocco divino e ogni singola nota, pur sembrando distante anni luce da quella precedente, viene richiamata all’ordine e condotta sotto lo stesso tetto, vale a dire quello di un grande gruppo che ancora non ha finito di sperimentare. Sperimentazione che ancora li rende ostici ai più, ma una volta trovata la chiave per entrare nel loro mondo vi troverete circondati da un caleidoscopio musicale che vi farà girare la testa.

Daniele Ghiro

FABRIZIO TESTA “Mastice”

FABRIZIO TESTA

Mastice

Autoprodotto

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Cosa fare quando ci si trova di fronte ad un’opera spiazzante e molto intensa, tirata in sole cento copie numerate ed inserita in una confezione hand made (realizzata da Elisa Alberghi)? Custodirla gelosamente come un piccolo esoterico segreto o renderne conto nel miglior modo possibile, in modo da condividerla con quanti riusciranno poi ad agguantarla o sentirla? Fabrizio Testa si è fatto conoscere tramite il dark-folk oscuro de Il Lungo Addio e tramite i dischi pubblicati attraverso la sua Tarzan Records, fino ad oggi sempre molto interessanti. Oggi esordisce con questo particolarissimo Mastice, album difficilmente classificabile, in bilico tra racconto e poesia espressionista, avanguardia e canzone d’autore sui generis. Come se si trattasse di un’opera unitaria a più voci, Fabrizio ha chiamato qui a collaborare molti amici musicisti, in larga parte ciascuno intento a donare la propria espressività attoriale alle sette tracce in scaletta. Troviamo così Roberto Bertacchini e le sue declamazioni da teatro dell’assurdo, in una Alce E Martello in cui rifulge pure il sax di Gianni Mimmo, Alessandro Camilletti recitante sul drone spaziale di Marco Pierantoni (amico girovago di Testa, a cui tutto il disco è dedicato) e sui detriti quasi industrial di Cesenautico, Luca Barachetti dar vita all’inquietante Le Terme, un brano in cui la nebulosa e sospesa parte strumentale, concorre non poco a creare una decadente e fantasmatica atmosfera a là “Shining”, Cesare Malfatti affrontare il canto in una notturna e plumbea Senza Orfanità, Alessio Gastaldello far perdere le propria urla tra i suoni di gabbiani, le interferenze e i suoni in reverse di Mastice. Testa che, oltre a scrivere tutti i testi, suona chitarra, tapes, synth, field recording, oggetti e record player, si tiene per sé il momento più musicale di tutto l’album, la crooneristica e tutt’altro che serena Crudo, graziata dal suggestivo pianoforte di Miro Snejdr e con al suo interno la voce e alcune frasi, come sempre pregnanti, di Pasolini. Un disco complesso e chiaramente di non facile ascolto, probabilmente non per tutti. Allo stesso tempo, delirantemente affascinante. Per info: fabritesta@tiscali.it

Lino Brunetti

Novità Thrill Jockey d’aprile: JOHN PARISH, BARN OWL, ZOMES, LIFE COACH

Ogni mese la chicagoana Thrill Jockey (distribuita in Italia da Goodfellas) pubblica quattro album. Vediamo, in breve, quali sono i quattro di aprile. Partiamo da JOHN PARISH, il grande songwriter, chitarrista e produttore (celeberrimo il suo sodalizio con PJ Harvey e note le sue frequentazioni italiane), che, in Screenplay, raccoglie alcuni episodi tratti dalle colonne sonore da lui scritte per film quali “Nowhere Man”, “Sister”, “Plein Sud” e “Little Black Spiders”, opere di registi quali Ursula Meier o Patrice Toye. In bilico tra reminiscenze morriconiane, scampoli di lounge music, chitarre a là John Barry e momenti capaci con sapidi tocchi di creare un’atmosfera, le diciannove tracce qui contenute sono godibilissime anche senza il supporto delle immagini. Ottimo! Questa la formazione che porterà in giro il disco dal vivo: JOHN PARISH – chitarre, tastiere, vocals, JEAN-MARC BUTTY – batteria, MARTA COLLICA – tastiere, vocals, GIORGIA POLI – basso, vocals, JEREMY HOGG – chitarra, lap steel.
John Parish

Interamente strumentale è anche la musica composta dai BARN OWL, il duo formato da Jon Porras ed Evan Caminiti. V segna un deciso scarto rispetto alle prove precedenti, lasciandosi alle spalle i drones chitarristici avant-folk e le derive rock psichedeliche, in favore di una musica più elettronica, tra dub e stratificazioni ambient. Non che non abbiano un loro fascino queste sonorità, ma il genere è davvero inflazionatissimo e noi, probabilmente, preferivamo i capitoli precedenti.

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Sono un duo anche gli ZOMES, un tempo progetto personale del solo Asa Osborne (chitarrista dei Lungfish), oggi ampliatosi con l’innesto della vocalist Hanna degli Skull Defekts. In Time Was, il primo costruisce fraseggi e drones con l’organo, ipnotici, fluttuanti, magmatici, la seconda vi canta sopra delle melodie di volta in volta austere o sognanti, evocative e misteriose. Sotto, una drum machines tiene il ritmo metronomicamente, accentuando la minimale ripetitività del tutto. E’ chiaro quanto anche qui non ci sia nulla d’inedito, ma le varie canzoni non lasciano indifferenti e non è niente male lasciarsi cullare da queste oppiacee bolle velvettiane e dark. Da sentire.

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Arriviamo così ai LIFE COACH, nuovo progetto di Phil Manley dei Trans Am che, alla sua nuova band, ha dato il nome del suo album solista di un paio d’anni fa. A dargli manforte in questa sortita, il batterista Jon Theodore ed il chitarrista Isaiah Mitchell. Alphawaves, disco quasi interamente strumentale, si apre con un drone di tanpura (Sunrise), prosegue con i sette turbinanti minuti della title-track, un affondo kraut-rock degno dei Neu, con batteria motorik e uno stilizzatissimo solo di chitarra, si cheta tra le rilassate trame di Limitless Possibilities, sprofonda tra le sospensioni psichedeliche della bellissima Into The Unknown, torna a farsi terreno tra i riff e la voce in falsetto di Fireball, funambolico hard-rock anni settanta, vibra chitarristicamente con la breve Life Experience, diventa moderatamente tamarro con l’hard-prog di Mind’s Eye, finendo poi col chiudere il cerchio con gli otto pulsanti ed oceanici minuti di Ohm, ennesimo drone che si ricollega in qualche modo all’inizio dell’album. Gran bel dischetto questo dei Life Coach; Phil Manley non ha ancora smesso di darci ottima musica.

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Lino Brunetti

DIECI ANNI DOPO: ONEIDA “Each One, Teach One”

Dieci anni esatti fa, sul Buscadero numero 243 del febbraio 2003, nasceva Backstreets ed iniziava la mia collaborazione con la storica rivista di musica italiana. Al di fuori della rubrica, veniva pubblicata, su quel primo numero che vedeva la mia firma, questa recensione di “Each One, Teach One” degli Oneida, che qui paro paro vi ripropongo. E’ il primo capitolo di un viaggio indietro nel tempo che mensilmente vi proporremo. Buona lettura!

ONEIDA

Each One Teach One 

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E’ sempre stata una prerogativa della stampa musicale quella di creare ad hoc qualche trend, di vedere scene laddove non ce n’è, di creare dal nulla etichette contenitore per facilitarsi la vita (ah, il famigerato post-rock!). Da quando gli Strokes hanno fatto il botto, i riflettori sono tornati a puntarsi su New York ed ora, pare che tutto ad un tratto in città sia un fiorire di gruppi, tutti raggruppati in un unico calderone, responsabili di una non meglio definita rinascita rockista. Che poi tra le varie bands i contatti, sia diretti che musicali, siano meno che inesistenti non conta; la scena di New York c’è ed è un bel toccasana per le nostre orecchie disabituate alle chitarre. Ironia a parte, negli ultimi mesi si è molto parlato, oltreché degli Strokes, dei vari Interpol, Moldy Peaches etc. (bands mediamente più che valide) quando il vero fermento, verrebbe quasi da dire la scena, a New York c’era veramente ed in una zona ben precisa della città, ossia Brooklyn. Accomunati dalla frequentazione dello stesso ambiente, underground all’ennesima potenza, i gruppi a cui mi riferisco sono responsabili di alcuni dei CD più interessanti usciti l’anno scorso. Un microcosmo di concerti effettuati fuori dai soliti canali ma, piuttosto, privilegiante garage, capannoni, parcheggi, luoghi abbandonati ed un approccio alla materia musicale trasversale, senza regole, con una freschezza sì inedita. Qualche nome ? I Liars ad esempio, il cui disco d’esordio ha riportato in auge una forma di post-punk ampiamente rivitalizzato o gli Yeah Yeah Yeahs (tralaltro visti dal vivo anche in Italia mesi fa in apertura al concerto di Jon Spencer) la cui wave garagista, per ora, si è concretizzata solo in un comunque interessante mini CD. Ampia premessa per arrivare a parlarvi degli Oneida, che di tutto questo presunto movimento sono dei veterani, visto che Each One Teach One è il loro quinto album. Pubblicato in origine come doppio mix in edizione limitata da una minuscola etichetta indipendente, l’album è stato ristampato dalla Jagjaguwar in doppio CD (al prezzo di uno), anche se la sua durata è inferiore all’ora. Mediamente la musica degli Oneida è descrivibile come una sorta di garage psichedelico, ma talmente mutante è la loro proposta che tentare di irreggimentarla in un genere è impresa da insani di mente. Il primo dei due CD contiene solo due pezzi, da un quarto d’ora circa l’uno, ed è senz’altro il più ostico; il secondo contiene invece sette brani maggiormente strutturati in una più “classica” forma canzone (è probabilmente per questo che si è preferito mantenere i due cd separati). Il disco si apre con Sheets of Easter, un ipnotico riff da stoner rock ripetuto per un quarto d’ora, con un tappeto di chitarre e organo acidi che vanno a formare un delirio sonoro, dove la componente retrò dello stoner si va’ a sfaldare lambendo i Velvet di Sister Ray. Antibiotics parte furiosa con le chitarre e le tastiere che si intrecciano a formare ghirigori epilettici, ma è nel finale che la nemesi ha il suo svolgersi; i ritmi scompaiono, gli strumenti si autodissolvono in una nuvola di white noise e dal nulla appaiono le voci come sopravvissuti di uno scenario post atomico. Il secondo CD è aperto dalla title-track, un pezzo d’assalto dove garage e new-wave sono un tutt’uno. In People of the North c’è spazio per un ritmo elettronico e per un riff d’organo che lotta con la dissonanza delle chitarre e l’insistere del synth. Synth che la fa da padrone in Number Nine, pezzo molto vicino alla moderna visione che gruppi come Trans Am o El Guapo hanno dato del rock elettronico dei primi anni ottanta. Di proprio gli Oneida ci aggiungono un massimalismo sonoro che non dà scampo. Discorso analogo si può fare per Sneak into the Woods, mentre Rugaru si regge sul tribalismo delle percussioni, sulle quali si distendono suoni slabbrati ed una melodia dal sapore malinconico, il cui contrasto dona al brano un senso di minaccia malato. Black Chamber, col suo sottile ritmo in levare, è perfetta per una discoteca del terzo millennio e No Label la segue a ruota virando in una forma di dub mutante. Gli Oneida, con Each One Teach One, sono riusciti nell’incredibile intento di centrifugare generi e suggestioni anche diversissimi tra loro, risultando personali e dando vita ad un’operazione di sintesi come di rado accade. Un disco non sempre di facile fruizione ma con cui, statene certi, si dovrà fare i conti in futuro parlando del rinnovarsi del rock’n’roll.

Lino Brunetti

BEST OF THE YEAR 2012 – Lino Brunetti

Come è tipico di ogni fine anno, è giunto il momento dei bilanci. E dunque, come è stato questo 2012 in musica? Partiamo da una considerazione generale: ormai da tempo è impossibile identificare, non dico un album, ma anche solo uno stile, che possa essere rappresentativo dell’anno appena trascorso. Le tendenze musicali, che sono comunque propense a ripetersi ciclicamente, sono da tempo esplose in miriadi di rivoli che, lungi dal potersi (se non in sporadici casi) definire nuovi, hanno perso pure la loro capacità di caratterizzare un’epoca. Se un lascito ci rimarrà di questi anni di download selvaggio e strapotere della Rete, sarà quello di un azzeramento dell’asse temporale, non più verticale bensì orizzontale, dove passato, presente e futuro convivono allegramente assieme in una bolla dove non c’è più nessuna vera differenziazione. Lo si evince dall’enorme numero di ristampe, deluxe edition, cofanetti celebrativi, ma pure dalle musiche contenute nei dischi dei cosidetti artisti “nuovi”, talmente nuovi che a volte suonano esattamente come i loro omologhi di quarant’anni fa. In questo scenario, le cose migliori nel 2012 sono arrivate in larga parte proprio dai grandi vecchi o comunque da artisti sulle scene ormai da parecchio tempo. Bob Dylan è tornato con un disco stupendo, Tempest, celebrato (giustamente) ovunque. Non gli è stato da meno Neil Young che, assieme ai Crazy Horse, ha assestato due zampate delle sue, prima con le riletture di Americana, poi con le cavalcate elettriche di Psychedelic Pill. Dopo due ciofeche quali Magic Working On A DreamBruce Springsteen se ne è uscito finalmente con un disco vitale, intenso, potente sotto tutti i punti di vista. Magari imperfetto, di sicuro non un capolavoro, Wrecking Ball è comunque un album di grandissimo livello, che ha riposizionato il Boss ai livelli che gli competono. Rimanendo sui classici, bellissimo il nuovo Dr. John (Logged Down), splendido il Life Is People di Bill Fay, di gran classe il Leonard Cohen di Old Ideas (un disco che comunque io non ho amato pazzamente come altri hanno fatto), mentre solo discreto è stato il Banga di Patti Smith. Per la serie “e chi se l’aspettava?”, credeteci o no, è ottimo invece il nuovo ZZ TopLa Futura, band a cui la produzione di Rick Rubin ha fatto un gran bene. Ma non solo i “grandi vecchi” ci sono stati, anche se sempre tra i veterani  si è dovuto andare a cercare le cose migliori. Partiamo da quello che è senza dubbio il mio disco dell’anno, The Seer degli Swans, un triplo LP magnetico, ottundente, potentissimo e visionario. Poi, in ordine sparso, il sorprendente ritorno sulle scene dei Godspeed You! Black Emperor (‘Hallelujah! Don’t Bend! Ascend!), i Giant Sand sempre più Giant di Tucson, i loro fratelli Calexico con Algiers, i Dirty Three di Towards The Low Sun, gli Spiritualized di Sweet Heart Sweet Light, i Sigur Ros di Valtari, i Lambchop di Mr Mil Mark Stewart di The Politics Of Envy, i redivivi Spain di The Soul Of Spain, i Mission Of Burma di Unsound, gli Om  di Advaitic Songs, Dirty Projectors di Swing Lo Magellan. Deludente il ritorno dei PiL, decisamente buoni quelli di Jon Spencer Blues ExplosionLiars, EarthBeach House (sia pur meno efficace degli album precedenti), Six Organs Of AdmittanceAnimal CollectiveNeurosis, UnsaneThe Chrome CranksThee Oh SeesGuided By Voices (ben tre dischi!), Woven HandGrizzly BearPontiak (memorabile il loro Echo Ono, e non solo perché hanno avuto la bontà di mettere una mia foto sulla copertina della versione in vinile), la doppietta Clear Moon/Ocean Roar dei Mount Eerie, il Moon Duo di Circles, i Tu Fawning di A Monument, i Peaking Lights di Lucifer. Dagli artisti solisti non moltissimi dischi da ricordare a mio parere: di sicuro lo è quello di Hugo Race & Fatalists (We Never Had Control), tra le cose migliori dell’annata, anche superiore al Blues Funeral della Mark Lanegan Band (comunque bello), ma lo sono pure la doppietta di Chris Robinson Brotherhood, i due dischi di Andrew Bird (soprattutto Break It Yourself), l’esordio del leader dei Castanets come Raymond Byron & The White Freighter (Little Death Shaker) ed il The Broken Man di Matt Elliot. Ancora meglio ha fatto il gentil sesso: per una Cat Power a fasi alterne (Sun, solo parzialmente riuscito), ci sono state una Fiona Apple in odor di capolavoro (The Idler Wheel…), una grandissima Ani Di Franco (Which Side Are You On?), la sorprendente Gemma Ray (Island Fire), le sorelline svedesi First Aid Kit (The Lion’s Roar), la Beth Orton di Sugaring Season. Tra le nuove band, la palma di rivelazione dell’anno se la beccano i grandissimi Goat di World Music, seguiti a ruota dai The Men di Open Up Your Heart, dai Big Deal di Lights Out, dagli Islet di Illuminated People, dai Fenster di Bonesdagli Allah-Las e dalla Family Band di Grace & Lies. Tra le cose più sperimentali, vetta incontrastata allo Scott Walker di Bish Bosch, un disco per nulla facile ma di una intensità rarissima. In campo improvvisativo, grandi cose sono arrivate dagli svizzeri Tetras (Pareidolia il titolo del loro album). Altri dischi da non dimenticare, Effigy dei Pelt, msg rcvd dei Neptune, Fragments Of The Marble Plan degli AufgehobenWe Will Always Be di Windy & Carl. E l’Italia? Certo, anche l’Italia ci ha dato grandi cose. Gli Afterhours hanno pubblicato uno dei loro dischi più belli di sempre, Padania. Potente e visionaria l’opera in due parti degli Ufomammut, così come Il Mondo Nuovo de Il Teatro Degli Orrori. E poi: Sacri Cuori (Rosario), King Of The Opera (Nothing Outstanding), Father Murphy (Anyway, Your Children Will Deny It), Paolo Saporiti (L’ultimo Ricatto), Ronin (Fenice), Mattia Coletti (The Land), manZoni (Cucina Povera), Xabier Iriondo (Irrintzi), Sparkle In Grey (Mexico), Guano Padano (2), Calibro 35. E chissà quante altre cose mi son perso o avrò dimenticato! Qui sotto, la selezione della selezione. Ed ora, prepariamoci al 2013!

SWANS “THE SEER”

GOAT “WORLD MUSIC”

FIONA APPLE “THE IDLER WHEEL…”

PONTIAK “ECHO ONO”

GODSPEED YOU! BLACK EMEPEROR “‘ALLELUJAH! DON’T BEND! ASCEND!”

AFTERHOURS “PADANIA”

TETRAS “PAREIDOLIA”

MOUNT EERIE “CLEAR MOON/OCEAN ROAR”

HUGO RACE FATALISTS “WE NEVER HAD CONTROL”

THE MEN “OPEN UP YOUR HEART”

SCOTT WALKER “BISH BOSCH”

BRUCE SPRINGSTEEN “WRECKING BALL”

BOB DYLAN “TEMPEST”

NEIL YOUNG & CRAZY HORSE “AMERICANA/PSYCHEDELIC PILL”

FIRST AID KIT “THE LION’S ROAR”

GIANT GIANT SAND “TUCSON”

BOX SET: CAN “THE LOST TAPES”

LUCIANO MAGGIORE – FRANCESCO FUZZ BRASINI “Chàsm’ Achanès” + “How To Increase Light In The Ear”

LUCIANO MAGGIORE – FRANCESCO FUZZ BRASINI

Chàsm’ Achanès

How To Increase Light In The Ear

Boring Machines

Per tutti gli appassionati di drone music, il disco allestito, poco più di un anno fa, a quattro mani da LUCIANO MAGGIORE e FRANCESCO FUZZ BRASINI, Chàsm’ Achanès, fu un must assoluto ed un’esperienza sonora al limite del mistico. Allestito un set in una vecchia fabbrica con un organo a ventola, diversi tape recorder, tre chitarre e due ampli ad alta potenza, i due avevano iniziato ad improvvisare sfruttando il riverbero e gli echi naturali dell’ambiente. Delle quattro ore di materiale registrato, quello finito sul dischetto era il risultato dell’ultima take, captata in presa diretta. Come suggeriva il titolo – che deriva dal greco antico e, attraverso le parole di Parmenide, indica le profondità del caos sconfinato – la musica contenuta in Chàsm’ Achanès, era un magmatico sprofondare tra onde sonore senza confini e dai margini indistinti, dove l’organo risuonava come la sirena di una nave persa in una mare fumoso e fantasmatico, e dove lo sfrigolio delle chitarre e degli apparecchi elettronici ci risucchiava in abissi misteriosi e dal fascino imponderabile. Tra trance minimalista ed espressionismo estatico, i drones di Maggiore e Brasini ci guidavano in un territorio dove non c’era posto per le parole e le spiegazioni, ma solo per l’abbandono ai sogni dei propri sensi. Luciano Maggiore – musicista e filmmaker classe 1980, dedito alle sperimentazioni tramite nastro magnetico e apparecchiature elettroniche – e Francesco Brasini – chitarrista ed investigatore sonoro, ben conosciuto nell’ambito delle musiche di ricerca, visti i suoi numerosi lavori dagli anni ’80 ad oggi – oggi tornano con un nuovo lavoro che, in qualche modo, va a completare quanto fatto col disco precedente. Se in Chàsm’ Achanés erano state scandagliate soprattutto le basse frequenze, in How To Increase Light In The Ear è la volta di lasciare spazio in modo particolare a quelle alte. L’album è composto da due lunghi drones senza titolo, per una durata totale di oltre 50 minuti, dove i suoni si stendono come un flusso fatto di overtones, risonanze, armonici tintinnanti, melodie fatte di microtoni che s’intrecciano fra di loro con l’intento di creare un mood mantrico e luminoso. E’, ancora una volta, musica altamente emotiva, ai limiti dello spirituale, apparentemente fatta quasi di un nulla ma, al contrario, talmente densa da azzerare qualsiasi barriera. Un disco che, come suggerisce il titolo, è come se ci guidasse verso un universo in cui è di casa solo lo splendore accecante delle stelle. Per realizzarlo sono stati usati tape loops, electronics (Maggiore) e chitarre autocostruite (Brasini). Importante il contributo di Mattia Dallara quale ingegnere del suono.

Lino Brunetti