MOOSTROO “Musica Per Adulti”

MOOSTROO

Musica Per Adulti

Hashtag Dischi

moostroo-music-per-adulti
Non certo dei novellini alle prime armi e già autori di un (bel) disco d’esordio, tornano i Moostroo da Bergamo con il loro nuovo lavoro. Ancora una volta, come già nel precedente, la band mette in campo tutta la propria maestria nel creare un suono che parte dal folk ma che poi si evolve e si ramifica verso varie direzioni, abbracciando con nonchalance vari generi musicali, tenendo ben presente un omogeneità di fondo che amalgama alla perfezione le varie sfumature con le quali è dipinta la loro musica. Dulco Mazzoleni (voce e chitarra), Francesco Pontiggia (basso) e Igor Malvestiti (batteria) immettono immediatamente nell’apertura del disco tutta la loro inquietudine: Meteora lascia sbalorditi con quell’arpeggio iniziale, qui il folk elettrico non è relax per figli dei fiori bensì viene virato in seppia e malinconicamente spostato verso peasaggi decisamente più bui (Tardiva o precoce la vita è veloce/Nel tempo fugace l’amore ci cuce). Spolpami ha ancora dalla sua la delicatezza della chitarra che però lascia rapidamente il passo a scudisciate elettriche. Se per voi le Murder Ballads di Nick Cave significano qualcosa andatevi ad ascoltare la malata malinconia di Regalami o la riproposizione in versione acustica di Umore Nero, già presente sul primo disco e qui posta in chiusura. Il trio non si ferma qui, andando ancora più in profondità, scendendo le scale tortuose della new wave italiana con Ostinato Amore, regalandoci una versione più pop del lato oscuro dal finale momorabile. In mezzo a tutto questo c’è spazio anche per il nervosismo e le chitarre ruggenti di Oblio che tra dissonanze, distorsioni e un testo cattivo quanto basta (Sono nessuno niente mi consola/Cane malato cappio alla gola) insieme a Sul Ciglio segna il lato ruvido del gruppo. A questo punto che ne dite di un breve viaggio verso il Neil Young capace di scrivere ballate elettriche di cruda bellezza? Eccoci arrivati a Cadavere, ricca di phatos e malinconica tristezza: un grande pezzo. Lacci è un noise dall’andamento indolente, Usura è caratterizzata dalla voce di Luca Barachetti e dai suoi testi allucinogeni (Usura, sterco del nulla, bolla che strozza, arte ragioniera che ti lecca e poi s’ingozza, tarlo della fame nella tela dell’umano, e tremore della mano che lavora e si inginocchia) con un basso pulsante che crea una trama marziale di funk spurio, avvicinandosi alle grida dei CSI. Che dire, come detto in apertura il loro maggior pregio è quello di tenere bene in mano tutte le varie componenti musicali, i loro brani sono declinati attraverso una sintassi che presenta numerose sfaccettature, per niente nostalgica e proprio per questo vitale, eclettica e ricca di personalità.

Daniele Ghiro

MISS STEREOCHEMISTRY “Harlequin EP”

MISS STEREOCHEMISTRY
Harlequin EP
Spleen Prod./Dos Amigos M.

copertina_harlequin_ep_
Di una cosa sono certo: Karla Hajiman, in arte Miss Stereochemistry, non ha radici in un paese o in un altro, ma ha un’anima girovaga e ribelle che la porta ad essere cittadina del mondo. Studia molto, è originaria di Belgrado, ma ha vissuto in Italia, Spagna e Svezia, ha un cuore irrequieto che la porta ad esibirsi come artista di strada, mette in mostra il suo essere così cosmopolita nella musica e nei testi che compone e che porta in giro per l’Europa. Una personalità così esuberante ed eterogenea ha prodotto già quattro lavori più un progetto (Kinestatics) con il techno guru Steven Rutter e per lei sempra non essere mai il tempo giusto per fermarsi a riposare. Ecco dunque Harlequin EP con tre brani originali e una cover veramente spiazzante di Smell Like Teen Spirits, ridotta ad un folk swing da cabaret decisamente intrigante. La sua voce è limpida ed accogliente, ci esorta a liberarci da pregiudizi e paure (Shut Up And Fuck Me), ci accompagna in dolci paesaggi elettro folk (Echo Love) o ci fa danzare al ritmo di balcaniche sfumature (Harlequin Stereochemistry). I brani sono remixati in versioni alternative sul versante techno/trip hop, tra i quali spicca proprio quello di KineStatics del brano di apertura, un buco scuro e soffuso che ci porta a conoscere un lato meno gioioso e spensierato di questa brava artista.

Daniele Ghiro

RUBACAVA SESSIONS “No Middle Ground”

RUBACAVA SESSIONS
No Middle Ground
Lostunes Records/Goodfellas

Rubacava NMG cover

I RUBACAVA SESSIONS sono una band romana attiva dal 2012, inizialmente come duo acustico (chitarra 12 corde e banjo) formato da Carlo Mazzoli e J.Giovannercole, e poi, col tempo, rafforzata dall’ingresso in pianta stabile del bassista Rocco Pascale, del batterista Alberto Croce, del fisarmonicista Michele Focareta e del trombettista Leonardo Olivelli. È con questa line-up, la quale si è data una personalità suonando dal vivo e partecipando al Subiaco Rock Blues Festival, che arrivano oggi al disco d’esordio, prodotto da Francesco Giampaoli e con la supervisione artistica di Antonio Gramentieri, entrambi dei Sacri Cuori.

Nelle canzoni di No Middle Ground, i Rubacava Sessions danno vita ad una musica che guarda ai grandi spazi dell’Ovest americano, a quel crocevia di suoni in cui s’incontrano blues e folk, surf, rock’n’roll e speziature mexican e desert-rock. Il languido strumentale desertico che apre le danze (Adios Greytown) è il loro biglietto da visita, il varco d’ingresso ad un mondo onirico e cinematico, dove le pennellate di tromba tratteggiano scenari al confine col Mito. Ed in questo senso, i Rubacava Sessions sono bravi a non farsi fagocitare dalla musica americana, magari risultando come la solita versione de noantri di musiche che gli americani (generalmente) indubbiamente fanno meglio, dando al tutto (appunto) una patina che ha più a che fare col sogno e il mito, piuttosto che con la sterile adesione a certi modelli.

Ecco allora la cover sinuosa di Per Un Pugno Di Dollari, quasi a voler ribadire l’italianità del progetto, ed il generale mood da “spaghetti western” rivisitati del lavoro. Il tutto si riscontra in certi suoni, ma pure nei possibili referenti rock, inglobati nel loro stile, che vengono alla mente sentendo le varie canzoni: nomi come Gun Club (Shaman’s Remedy), Grant Lee Phillips (la splendida No Middle Ground), Woven Hand (Skeleton Song, volendo anche caveiana), Giant Sand (Mayor’s Last Stand). Un pezzo come Western Psichedelico sta tutto nel suo titolo; Rope Of Sand è uno strumentale lungo e articolato, un bell’esempio delle capacità musicali della band; Rubacava Blues un buon boogie blues; We Have Come This Far una ballata di fine lignaggio.

È un disco fascinoso No Middle Ground, elegante e splendidamente suonato.  Se proprio dovessi dare un unico suggerimento, sarebbe quello di imprimere una maggior cattiveria nei pezzi più rock, ma in linea di massima trattasi davvero di un ottimo esordio.

Lino Brunetti

Qui sotto, potete sentire il disco dei Rubacava Sessions in esclusiva per Backstreets of Buscadero. Buon ascolto!

GIÒ DESFÀA E I FIÖ DE LA SERVA ” Pécc Sota ‘L Técc”

GIÒ DESFÀA E I FIÖ DE LA SERVA

Pécc Sota ‘L Técc

Autoprodotto

Giò Desfàa

Inseriti in un filone che negli ultimi decenni ha goduto in Italia di insolita fortuna, quello degli epigoni di Davide Van De Sfroos, Giò Desfàa e i Fiö de la Serva sono una formazione varesotta che dopo anni di intensa attività ha esordito con un cd di buona fattura, prodotto e arrangiato da Davide “Billa” Brambilla (ottimo polistrumentista, per lungo tempo collaboratore non solo del citato Van De Sfroos, ma anche di Enrico Ruggeri, dei Lüf e dei ticinesi Vad Vuc). Non vorremmo che i riferimenti enunciati facessero pensare a una presenza formale e unicamente di nome: la centralità del rock d’autore del leader Giò Desfàa e dei suoi testi non è mai messa in discussione, come pure la “mano” del Brambilla si sente nella scrittura degli arrangiamenti, particolarmente complessi per un organico di nove elementi. Pécc Sota ‘L Técc è un CD d’impatto corale che si ascolta volentieri e che – nonostante la preponderanza di strumenti acustici – risulta molto avvincente all’ascolto, divertente e maturo: in particolare, la sezione di fiati che dialoga con quella tipicamente rock-acustica si dimostra di grande presa. Giò Desfàa (voce e chitarra acustica), Daniele Baldin (chitarre elettriche e mandolino), “Yuri” Matia Belli (fisarmonica), Valentina Bezzolato (flauto traverso e ottavino), Maria Luisa Grosso (violino, soprano e cori), Enzo Paolo Semeraro (tromba e cori), Marco “Pappa” Amato (saxofono e cori), Alessio Belli (basso e cori), Lorenzo Bonfanti (batteria, percussione e cori) sono i protagonisti di questo buon lavoro d’esordio, al quale – oltre al già citato Davide “Billa” Brambilla (pianoforte) – hanno collaborato Silvio Centamore (percussioni) e la Can&Gatt Carneval Band di Stabio. Da ascoltare nelle giornate di pioggia insistente per intravvedere un po’ di sereno all’orizzonte.

Roberto G. Sacchi

DEAD BOUQUET “As Far As I Know”

DEAD BOUQUET
As Far As I Know
Seahorse/Audioglobe

Cover album As Far As I Know

Ad attirare come prima cosa verso l’esordio dei romani DEAD BOUQUET è il nome del produttore del disco, quel Paul Kimble che fu bassista e produttore dei mitici Grant Lee Buffalo, band oggi forse un po’ troppo ingiustamente dimenticata, ma tra le migliori venute fuori dagli Stati Uniti negli anni ’90. Sarebbe però ingiusto fermarsi lì perché, sia pur con qualcosa ancora da rivedere, il disco con cui il duo formato da Carlo Mazzoli (voce e chitarra acustica a 12 corde) e Daniele Toti (basso) – a cui va qui aggiunto il contributo del batterista Fabio De Angelis e di Kimble stesso – ha deciso di presentarsi al mondo, li segnala quale band di sicuro interesse e indirizzata sul sentiero giusto. In As Far As I Know, i Dead Bouquet si fanno portavoci di una canzone rock cantautorale dai continui echi folk e psichedelici, a tratti oscura e gotica, attraversata da stilizzate esplosioni elettriche. Ascoltando queste tredici canzoni, i nomi che vengono alla mente sono quelli dei Grant Lee Buffalo stessi (ovviamente), dei Gun Club, di Wovenhand. Riferimenti altissimi insomma, che i Dead Bouquet riescono ad onorare con una certa sicurezza. Sia pur senza effetti speciali – il songwriting è buono ma si può e deve fare di meglio, non foss’altro che per uscire dall’ombra dei riferimenti – non sono poche le canzoni che rimangono in mente, dalle ottime Barking At My Gate e Haven’t You Said It?, per arrivare alla lancinante Stories con cui l’album si chiude. Differenziando maggiormente i vari pezzi ed imprimendo una maggiore personalità alle loro sonorità, potrebbero farci vedere grandi cose. Per il momento, comunque, va bene anche così.

Lino Brunetti

REIGNING SOUND “Shattered”

REIGNING SOUND

Shattered

Merge/Goodfellas

10_700_700_470_reigningsound_900px

In barba a qualsiasi trendy, all’hype del momento o a qualsiasi considerazione circa la (presunta) originalità di una proposta, alla fine i dischi su cui probabilmente si finisce col tornare con più frequenza sono quelli come questo nuovo REIGNING SOUND, il cui suono affonda senza mezzi termini e senza esitazione nel passato e nella tradizione. Del resto, Greg Cartwright, essendo passato in bands quali Oblivians, Parting Gifts, 68 Comeback, Deadly Snakes, Detroit Cobras e Compulsive Gamblers, non è certo un novellino e la materia la conosce bene. In questo nuovo Shattered va direttamente alla fonte, assemblando un disco dal caldo sapore vintage, in cui si mescolano echi stonesiani, soul r&b di marca Stax e Motown, rock’n’roll springsteen/dylaniani e qualche umore roots. Un brano come My My sarebbe piaciuto al compianto Willy DeVille; ballate intinte nel suono di un organo Hammond come la souleggiante Starting New, la pigra Once More, una Falling Rain in territorio Dylan o una If You Gotta Live speziata country, si alternano a più saltellanti pezzi r&b come North Cackalacky Girl o Baby It’s Too Late, in modo da garantire quella varietà di soluzioni necessaria al godimento di un disco. Rilassato e mai troppo concitato, ottimamente scritto ed arrangiato con gusto, Shattered è il classico album old fashioned in cui cercare riparo nei momenti di smarrimento da eccessi di ascolto. Un rifugio sicuro!

Lino Brunetti

BLESSED CHILD OPERA “The Darkest Sea”

BLESSED CHILD OPERA

The Darkest Sea

Seahorse Recordings/ Audioglobe

a0620875279_10

Da anni il napoletano Paolo Messere è figura importante dell’underground musicale italiano, nelle molteplici vesti di produttore, discografico (sua la Seahorse) e musicista, dapprima in formazioni quali Silken Barb Ulan Bator, poi, dal 2001, a capo dei Blessed Child Opera, senza ombra di dubbio la sua creatura più personale e sentita. In una discografia che, con quest’ultimo, consta ormai di ben sei dischi, Paolo ha costruito un corpus autoriale intenso e denso di grande musica, con una sua sempre marcata coerenza, pur tra i mille cambi di formazione. Il nuovo The Darkest Sea si presenta con una copertina nera ed espressionista, resa affascinante dai disegni di Felice Roscigno, i quali ben introducono ai contenuti dell’album. La base sarebbe come sempre il rock ed il folk americano, ovviamente visto da una prospettiva gotica e profondamente dark. I referenti possibili sono molteplici: da un David Eugene Edwards affiorante in più episodi, al cantautorato sofferto di Mark Kozelek, dalla malinconia folk dei Willard Grant Conspiracy, alle ombre blues di un Hugo Race. Spesso il cuore di queste canzoni è acustico, anche se poi, attorno ad esso, fiorisce un pulsare elettrico e rock, capace d’inglobare anche elementi wave. E se non sempre la scrittura è realmente memorabile, il tutto viene supplito dalla costruzione di un mood unitario ma ricco di sfumature, dal suono veramente evocativo e stellare. Si passa così da ballate dark quali I Had Removed Everything a stilettate rock a là Woven Hand come Blindfold, dalle distorsioni sature di A Lazy Shot In The Belly ad un pezzo degno del migliore Kozelek come In The Morning (I Do Upset The Plans), una delle cose migliori del disco, con un passo ipnotico e mantrico. Ma parlavamo di sfumature diverse: I Look At You (But I Already Know Your Answer) tra rintocchi di banjo ed electronics penetra in oscure ed abissali profondità, sfiorando la ieratica ed allucinata arte dei Current 93; per contro, Friends Faraway ha un più sereno e classico impianto folk, mentre December Wind chiude tra vibrante tensione wave. Registrato in Sicilia, The Darkest Sea guarda oltreoceano virando le musiche di quei lidi in suoni che fanno filtrare ben poca luce. Se gli artisti citati sono nelle vostre corde, una discesa fra queste onde dovrebbe essere di vostro gradimento.

Lino Brunetti

MIDLAKE live @ Tunnel, Milano – 8 marzo 2014

MIDLAKE

TUNNEL

MILANO

8 MARZO 2014

Tolto il consueto, assai discutibile trattamento che alcuni club milanesi, tra cui il Tunnel, riservano agli spettatori di concerti quando è sabato sera – apertura porte alle 20 ed istantaneo inizio del concerto dell’artista di spalla, in questo caso Israel Nash Gripka, davanti a tre persone tre; fine tassativa del tutto entro le 22.30 o poco più, per poi lasciare spazio alla discoteca – la serata dell’8 marzo per il concerto dei Midlake si è confermato il classico evento da non perdere. Se la qualità superlativa di un disco quale Antiphon aveva già provveduto a testimoniare che la defezione del cantante e chitarrista Tim Smith, colui che fino a ieri era stato considerato il leader della formazione, era stata assorbita e superata ben oltre le più rosee previsioni, rimaneva giusto da testare la qualità dei Midlake 2.0 sul palco. Nessun problema in questo senso: chi c’era ve lo potrà confermare, quello messo in scena sulle assi del Tunnel è stato un concerto di livello superiore e i Midlake rimangono una live band fenomenale. Se Eric Pulido e soci, poi, ancora avevano dei dubbi circa la positiva ricezione di questa nuova fase da parte del pubblico, sicuramente si saranno tranquillizzati, perché raramente ho visto una reazione così entusiastica provenire dalla sala. Pubblico caldissimo quindi, che di certo ha molto colpito la band ed in particolare un Pulido un po’ timido, ma sempre più sciolto e sereno col proseguire dello show. La deriva vagamente neo-prog del repertorio più recente, dal vivo riverbera in un sound potentissimo e magmatico, dove una formazione a sei – che prevede due chitarre, basso, batteria e due tastieristi che aggiungono, a seconda della bisogna, una terza chitarra o il flauto – garantisce lirismo, passione ed infinito calore. Il grosso dei pezzi è venuto ovviamente da Antiphon, anche se non sono mancati diversi episodi provenienti dal repertorio dell’era Smith. Da questo punto di vista, è stato interessante notare come, non sapendolo, nessuna reale cesura fra i due tipi di brani si sarebbe notata. Le vecchie canzoni sono, nella realtà, perfettamente armonizzate con le nuove e il fatto che i sei facciano fluire i pezzi ciascuno dentro quella successivo, crea una unitarietà ed una coerenza sonora che lascia estasiati. Le armonizzazioni vocali, spessissimo a più voci, si mescolano così alla fantasia ed alla potenza della sezione ritmica, nonché all’estatica magia affrescata da chitarre e tastiere. Le radici folk s’intingono in un sound fortemente rock, a tratti addirittura deflagrante e dagli accenti hard. La partenza con le nuove Ages e Provider detta la linea di quello che seguirà, con un primo tuffo nel passato effettuato con le bellissime Rulers, Ruling All Things, Young Bride e We Gathered In Spring, sparate una via l’altra. E si continua così fino alla fine, alternando pezzi vecchi e nuovi, fino al magniloquente ed esaltante finale con una applauditissima Roscoe ed una devastante The Old And The Young. Poi, rimane lo spazio giusto per un bis e, dopo un’ora e mezza di grande musica, la discoteca incombe e fuori ci aspetta una Milano carnevalesca e con venditori di mimose ad ogni angolo della strada.

Lino Brunetti

Setlist Milano

Setlist Milano

SACRI CUORI “Zoran” + FRANCESCO GIAMPAOLI “Danza Del Ventre”

SACRI CUORI

Zoran, Il Mio Nipote Scemo

Brutture Moderne/Audioglobe

FRANCESCO GIAMPAOLI

Danza Del Ventre

Brutture Moderne/Audioglobe

Sacri-Cuori-Zoran

Non contenti di essere stati in giro per mezzo mondo a promuovere il loro Rosario, di aver fornito i propri strumenti a musicisti quali Hugo Race e Dan Stuart (fra gli altri), i Sacri Cuori di Antonio Gramentieri hanno trovato il tempo di dedicarsi alla scrittura di una colonna sonora, quella di Zoran, Il Mio Nipote Scemo, primo lungometraggio di Matteo Oleotto, giovane regista di Gorizia, interpretato da Giuseppe Battiston. Del resto, che i Sacri Cuori sarebbero un giorno arrivati a musicare un film era scritto nel loro stesso dna; incredibilmente cinematica di per sé la loro musica, capace di narrare storie anche solo attraverso le suggestioni portate dai loro suoni, senza alcun bisogno di aggiungere parole. Ancora prima di vedere il film, l’ascolto del disco m’aveva fatto venire voglia di farlo, anche solo per verificare come le musiche qui contenute si sposavano con le immagini (l’ho visto giusto ieri e devo dire due cose: il film è incantevole e la colonna sonora lo serve alla grande!). Le musiche contenute in Zoran l’album, funzionano comunque di per sé, diciamolo subito. Certo, non è del tutto identificabile come un nuovo album vero e proprio, questo: le tracce sono numerose e brevi, di solito intorno al minuto o al massimo due, ma hanno dalla loro l’immenso potere suggestivo di una musica capace di prendere la musica americana – sia essa folk, blues, country o rock – e di trasporla in un sound in bilico tra i Calexico, il Ry Cooder delle soundtracks e la tradizione delle colonne sonore italiane. Disegnano insomma una geografia immaginaria, innestandovi inoltre un po’ di sgangherata ironia serpeggiante, immagino contraltare musicale della storia raccontata dal film. Qualche dialogo tratto dalla pellicola, un paio di pezzi cantati dal Gruppo Vocale Farra ed una suonata dai Musicanti di San Crispino, aggiungono ulteriore carne al fuoco ad un disco, magari minore, ma che continua a farci ritenere i Sacri Cuori uno dei più grandi tesori della musica italiana e non solo.

francesco-giampaoli-musica-streaming-danza-del-ventre

Quasi in contemporanea a Zoran, esce pure il terzo disco solista di Francesco Giampaoli, che dei Sacri Cuori è il contrabbassista. Come avviene per la band principale, anche Giampaoli, in Danza Del Ventre, è intento a costruire mondi e triangolazioni impossibili. Nuovamente strumentale e dall’incantatoria evocatività cinematica, la sua musica ondeggia tra suggestioni jazzate, blues notturni e misteriosi, tanghi vissuti nella mente, spy story intinte nell’ironia,canzone francese e molte altre bizzarie. Lega il tutto un gusto per la lateralità, che gli permette di non adagiarsi su nessuno di questi generi, riletti sempre secondo un insolito mood. Scritto interamente di suo pugno, Danza Del Ventre vede la collaborazione di numerosi ospiti, tra cui ovviamente anche i Sacri Cuori al completo in due pezzi, Rosa, che una fisarmonica ci fa immaginare ambientata tra i panni stesi al sole di una campagna francese, e la quasi caposselliana Firma. Minimale ed ellittico, non sempre così immediato come sembrerebbe, Danza Del Ventre è un disco curioso e particolare, sicuramente piacevolmente insolito.

Lino Brunetti

THREELAKES & THE FLATLAND EAGLES “War Tales”

THREELAKES & THE FLATLAND EAGLES

War Tales

Upupa

album_art

War Tales nasce dall’incontro fra due diverse e complementari personalità: la prima è quella di Luca Righi, novello cantautore con un EP alle spalle intestato ai Threelakes, in realtà non un gruppo ma lo pseudonimo attraverso il quale pubblicare la propria musica; la seconda quella di Andrea Sologni, già membro dei Gazebo Penguins, musicista, produttore, a suo modo un visionario. L’incontro fra i due avviene nel 2011, durante il party di presentazione di Legna dei Gazebo Penguins, occasione in cui anche Threelakes suona: Sologni subisce fortemente il fascino delle canzoni di Righi e si propone come produttore. Da lì al mettere insieme una vera e propria band, i Flatland Eagles (oltre a Sologni, Raffaele MarchettiLorenzo CattalaniMarco ChiussiPaolo Polacchini), il passo è breve, così come diventa facile coinvolgere altri amici quali Francesca Amati dei Comaneci, Emanuele Reverberi dei Giardini di Mirò, Luciano Ermondi dei Tempelhof e Capra dei Gazebo Penguins. War Talesle cui canzoni sono scritte da Righi e poi arrangiate dalla band, è una sorta di concept album ed un disco molto personale: le canzoni sono in qualche modo legate l’una alle altre da un comune sentire e sono state messe in sequenza in modo da formare un percorso. Nonostante il titolo, la guerra comunemente intesa è protagonista delle liriche giusto in D-Day, rievocazione dei momenti precedenti lo sbarco in Normandia. Per il resto, è più la guerra che giornalmente combattiamo con noi stessi e con la vita ad essere al centro di questi testi: il senso d’incertezza che ci troviamo a provare in talune situazioni, la lontananza da casa e dagli affetti, le incomprensioni e il non detto fra padre e figlio, la morte solitaria di un’altro simbolico padre, il mitico Hank Williams. Come ogni percorso però, anche queste canzoni ci portano verso una conclusione, qui rappresentata dalle aperture più speranzose degli ultimi pezzi, dove le nubi si diradano, i cavalli galoppano, dove l’amore torna a riempire i cuori. Mi sono lungamente dilungato sui contenuti lirici dell’album, ma non meno interessante è quello musicale: Sologni è compagni hanno saputo interpretare in maniera assolutamente magistrale le canzoni di Threelakes, allestendo arrangiamenti ricchi e calibratissimi, in bilico tra alt-country visionario, folk e rock. La voce, leggermente lamentosa e monocorde di Righi, si trova quindi calata in sapidi intrecci di chitarre, tastiere, ritmi, trombe ed altri strumenti, capaci di dar vita a sontuose ballate, così come a pezzi dalla più vibrante tensione rock. Bellissima The Walk, così come pure The Lonesome Death Of Mr Hank Williams, dalle chitarre affilate By My Side, con una drum machine a tenere il tempo The Day My Father Cried, quasi a là Okkervil River Horses Slowly Ride. E’ un disco da scoprire un pezzetto per volta War Tales, a cui dedicare tempo è davvero un piacere.

Lino Brunetti