OMOSUMO “Surfin’ Gaza”

OMOSUMO

Surfin’ Gaza

Malintenti Dischi/Edel

omosumo-musica-streaming-surfin-gaza

Nonostante prima del debutto in lungo, in uscita in questi giorni, avessero pubblicato solo una coppia di EP (di cui uno di remix), gli Omosumo avevano già avuto modo di farsi conoscere in giro tramite un’intensa attività live, che li ha portati anche sui palchi prestigiosi dell’Ypsigrock e del South By Southwest. Trio siciliano formato da Angelo SicurellaRoberto Cammarata (Waines) e Antonio Di Martino (Dimartino), come si diceva, arrivano oggi all’esordio con un disco concepito tra il finire del 2013 e l’inizio del 2014, profondamente ispirato da quanto accadeva in quei giorni nella striscia di Gaza. Surfin’ Gaza parla infatti della guerra tra israeliani e palestinesi, ma lo fa da una prospettiva insolita, prendendo spunto dal documentario diretto da Alexander Klein, “Explore Corps and Surfing 4 Peace”, in cui si raccontava dell’esperienza delle organizzazioni Surf 4 Peace ed Explore Corps, nate con l’intento di unire palestinesi ed israeliani sotto il segno del surf. E se il film parlava della possibilità di rendere uniti due popoli in guerra grazie al potere dello sport e al rifiuto delle armi, gli Omosumo prendono giusto ispirazione, per poi creare una serie di brani dal più sfumato potere evocativo, ovviamente meno documentaristici nel loro voler rimarcare la necessità della pace, ma sicuramente altrettanto potenti e determinati. Le nove tracce dell’album sono fortemente caratterizzate da un sound elettronico, ma al loro interno sono capaci d’inglobare anche elementi più tradizionalmente pop e rock. In questo modo l’electro fluttuante, che in qualche modo simula l’effetto di surfare sulle onde del mare, di Yuk, si specchia in una più classica ballata come Walking On Stars; la pulsante, ai confini col drum’n’bass, Waves, trova il suo contraltare nel feeling krauto di una riuscitissima Nowhere, con un gran giro di basso ed un organo a far da fondale. La title-track ha un suono teso, screziato da chitarre quasi psichedeliche, con un tambureggiare ipnotico che mantiene la tensione senza mai farla esplodere; Dovunque Altrove, quasi un’eco del primissimo Battiato, è impregnata di tristezza cosmica, porta in sé la consapevolezza della difficoltà estrema di liberarsi in un contesto insostenibile e ingovernabile; Nancy alleggerisce con le cristalline chitarre di una romantica pop song, mentre torna nell’oscurità Ahimana, uno strumentale colmo d’intersecazioni sintetiche sovrastate da una voce registrata. Chiude Atlantico, probabilmente il pezzo più tradizionalmente rock in scaletta. Al di là dei suoi meriti tematici, Surfin’ Gaza è un disco più che interessante, un ottimo primo passo per gli Omosumo. Attenderemo quelli successivi.

Lino Brunetti

KALI YUGA “KY”

KALI YUGA

KY

800A Records/Audioglobe

ky_cover_sm

Nati a Palermo agli inizi degli anni ’90, riappaiono come dal nulla i KALI YUGA, formazione dalle ruvide sonorità tra stoner ed hardcore che chi seguiva le vicende del rock italiano nei nineties forse ricorderà. Proprio alla fine di quel decennio decidevano di sciogliersi, dopo aver dato alle stampe un CD per Vacation House, The Underwater Snake Is Waiting, un 7” in tandem con i One Dimensional Man, ed aver lasciato un segno indelebile nella memoria di chi li aveva visti dal vivo grazie alle loro infuocate esibizioni live. Un paio d’anni fa, uno special radiofonico dedicatogli dal musicista/produttore Marco Monterosso e la presentazione del libro “Palermo al tempo del vinile” li riportava letteralmente in vita. Agli storici Bizio Rizzo (voce e chitarra), Giancarlo Pirrone (chitarra) e Fabrizio Vittorietti (bassista della band nel triennio ‘97/’99), si aggiunge oggi il nuovo batterista Alessandro Guccione e, dopo aver dato alle stampe il ghost album Stoned Without The Sun, tornano nei negozi con un vero e proprio nuovo disco, KY, disponibile solo in vinile 12” o in digitale. Ed è davvero un bel sentire, nessun dubbio in proposito. Contenente otto canzoni inedite scritte lungo l’arco di vent’anni, l’album si riallaccia alle ultime fasi di carriera prima dello scioglimento, ma pure segna una decisa ripartenza con nuove prospettive e nuove energie messe in campo. Rispetto al passato, i Kali Yuga di oggi sono decisamente più melodici e “pop”, meno ottundenti e più propensi ad offrire una più ampia gamma di sensazioni sonore. Non che il loro sound non rimanga ruvido e colmo di riff ed affondi chitarristici distorti ma, complice pure l’espressività vocale di Rizzo, molti dei pezzi trovano il loro quid nella brillantezza delle melodie. A completare il quadro, ci pensano poi le canzoni, classiche nel loro aderire sostanzialmente a stilemi anni ’90, ma sempre personali e, quel che più conta, ottimamente scritte. 9:04 (Here She Comes) pare un mix loureediano/bowiano in salsa Dinosaur Jr; B Love S prende le forme di una ballata tardo grunge dalle ampie striature psichedeliche; The World Outside sta in bilico tra i riff di chitarra di Pirrone e la sostanza melodica delle parte vocale; lo stesso si può dire di Where I Used To Go, la cui ariosità melodica, vagamente velata di dolce malinconia, fa pensare alle pagine migliori dei Nada Surf. Picchiano senza requie Idols e Drunk’n’Sad, la prima tramite un fulgido hard-rock’n’roll stradaiolo, la seconda tornando a frequentare i lidi stoner, sia pur più QOTSA che Kyuss. So Are You, con la sua melodia strascicata, non poco ricorda gli Strokes del primo album, mentre la conclusione è affidata alla lunga e visionaria Siren (Fuck Like A Motorpsycho), oscillante tra martellanti attacchi al fulmicotone e più lisergici ed ossessivi passaggi (la band norvegese citata nel titolo è ben più che un indizio). Un ottimo rientro in pista, che contiamo di festeggiare ulteriormente cercando di intercettarli in concerto al più presto.

Lino Brunetti

BSBE “BSBE3”

BSBE

BSBE3

42 Records

BSBE-cover_rgb-72dpi

Tra le bands italiane apparse sulla scena negli ultimi anni, i romani BSBE – ovvero i Bud Spencer Blues Explosion, nome che ovviamente gioca con quello del gruppo di Jon Spencer, riadattandolo ad uno scenario nostrano – sono indubbiamente tra quelle che maggiormente hanno trovato i favori del pubblico, diventandone subito dei beniamini. Merito d’infuocatissime esibizioni live e di un suono che parte dal blues per inglobare sonorità più dure e selvagge, in canzoni di forte impatto. Il nuovo disco, BSBE3, prodotto da Giacomo Fiorenza (Offlaga Disco Pax, Moltheni, Giardini di Mirò), vede il due formato da Adriano Viterbini (voce, chitarra) e Cesare Petulicchio (batteria, percussioni) impegnato nel tentativo di mettere su nastro proprio tutta l’energia delle loro esibizioni live. Overdubs ridotti al lumicino, nessun ospite, registrato in studio come se si fossero trovati sulle assi di un palco. Questo approccio diretto e viscerale lo si sente in maniera massiccia, anche se poi non impedisce alle varie canzoni di esprimersi attraverso sfumature ed angolazioni diverse. Come sempre cantate in italiano – ed immagino non sia affatto facile adattare la nostra lingua a musiche del genere – le loro canzoni esprimono un ampio spettro d’influenze e rimandi, ma sono poi capaci di cristallizzarsi in un sound ormai riconoscibile quale loro. Ovviamente, il ricordo di altri famosi duo degli ultimi anni è praticamente ineludibile: in No Soul qualcosa dei Black Keys di mezzo è facile sentirlo, mentre un pezzo quadrato e dalle sfrigolanti parti chitarristiche come Camion, con tanto di break indianeggiante, pare uscita dalla penna di Jack White. Molto bella Miracoli, un pezzo che potrebbe piacere ai fan dei QOTSA; quasi affondato nella psichedelia lo slow blues di gusto doorsiano Croce; palesemente hendrixiana, di certo una presenza importante nella loro musica, la mirabolante Rubik. Ma un po’ tutto il disco martella con riff blues incessanti (Mama, poi ripresa come ballata alla fine, Inferno Personale), boogie fiammeggianti tra ZZ Top e stoner (Hey Man), attraverso un funambolismo chitarristico che, nei suoi momenti più eccessivi, sfiora la pirotecnia di Tom Morello (Duel). Insomma, un buon disco di conferma, e se le ultime cose dei Black Keys vi hanno lasciato con l’amaro in bocca, pur evidenziate tutte le differenze, magari proprio i BSBE sapranno trovare il modo di consolarvi.

Lino Brunetti

CHEATAHS “Cheatahs”

CHEATAHS

Cheatahs

Wichita

webb415_cheatahs_cheatahs_ps_sm_2

Ad un anno dall’uscita del non troppo convincente Extendes Plays, che racchiude gli EP Coared e Sans, eccoci qua a parlare del nuovo omonimo disco dalla band londinese Cheatahs. Londinesi si fa per dire, visto che il cantante e leader Nathan Hewitt è nato cresciuto in Canada, a cui si aggiungono l’inglese James Wignallm alla chitarra, il bassista californiano Dean Reid e il batteristaMarc Rue, originario di Dresda in Germania. Shoegaze, noise, grunge sono queste le chiavi per collocare questa band che affonda le proprie radici musicali nel più classico alternative rock anni 90. I quattro ragazzi tirano fuori un lavoro sicuramente di piacevole ascolto, che purtroppo però non si discosta minimamente da ciò che già dieci anni fa sarebbe stato considerato datato. Se l’intro rumoristico fa presagire un noise rock etereo, sono le seguenti  Geographic e Northern Explosure  a mettere le cose in chiaro e a definire il sound che dominerà  gran parte dell’album: sezione ritmica potente e intrecci chitarristici figli del più indemoniato J. Mascis. Con Mission Creep le cose cambiano, il noise- pop viene sostituito da una litania neo-psichedelica che suona molto vicina agli australiani Tame Impala, a cui fa seguito l’accattivante Get Tight,  che potrebbe tranquillamente rientrare nel variegato repertorio del capolavoro degli Smashing Pumpkins, Mellon Collie And The Infinite Sadness. Le sferragliate chitarristiche e gli intermezzi noise di The Swan creano invece un ponte tra i grandissimi Husker Du e i Sonic Youth di Daydream NationIV e Fall sono  dei chiari omaggi ai My Bloody Valentine: la prima è contraddistinta da un apertura shoegaze che pian piano muta in un chitarrismo aggressivo figlio dei già citati Dinosaur Jr., per concludersi con una coda rumoristica molto simile all’intro iniziale di I, mentre Fall crea paesaggi cupi e sognanti figli tanto dei My Bloody Valentine di Loveless quanto dei Ride. Se Cut The Grass risulta come banale incursione nello shoegaze più datato, Kenworth parte subito con uno sfrenato noise che muta inesorabilmente  in un finale tanto distorto quanto psichedelico (sembra di ascoltare The Sprawl dei Sonic Youth), senza dubbio il pezzo più riuscito dell’album. La  più solare Loon Calls non aggiunge molto, se non fa rimarcare quali siano i gusti musicali di Nathan Hewitt and co. Come già detto prima,  un disco piacevole che sicuramente non mette in difficoltà l’ ascoltatore, ma niente che non si sia già ascoltato. Indubbiamente spunti interessanti ci sono, ma dipende molto dalle vostre aspettative valutare se bastano a  giustificare un album che nel 2014 può solo risultare innocuo.

Alessandro Labanca

BLANK REALM “Grassed Inn”

BLANK REALM

Grassed Inn

Fire Records/Goodfellas

Black-realm-grassed-inn

Solare, ricercato, naif, pop: eccovi qui presentato il nuovo album dei Blank Realm. Il gruppo è formato dai tre fratelli Daniel Spencer (voce, batteria), Sarah Spencer  (voce, synth), Luke Spencer (basso) e dal chitarrista Luke Walsh, provenienti da Brisbane, in Australia. Se si pensa ai loro lavori precedenti, non è difficile notare il cambiamento  avvenuto con Grassed Inn, dove i baccanali noise lasciano spazio ad un suono (non sempre impeccabile ma sicuramente interessante) più vivace, festoso e, come già detto, pop, con elementi di psichedelia che in molti casi prendono il sopravvento. Queste caratteristiche sono subito riscontrabili nell’iniziale Back to The Flood e nella deliziosa psichedelia di Falling Down The Stairs, con l’organetto padrone indiscusso; i Blank Realm, oggi, non sembrano suonare più come i Sonic Youth, bensì come i Modern Lovers. Vero, ma fino ad un certo punto, visto che i “giovani sonici” sono stati presenza ingombrante in tutta la loro discografia e non potevano mancare neanche in questo nuovo album, basti pensare a Bulldozer Love, con le chitarre che poco alla volta si fanno sempre più distorte, seguite nel loro incedere da un organo spaziale. I fratelli australiani ci mettono dentro anche un pizzico di elettronica in Violet Delivery, mentre la ballata noise di Baby Closes The Door è un chiaro richiamo ai Velvet Underground, altro gruppo molto caro ai nostri. Anche lo stomp elettronico di Even The Score, sfociante in un incursione noise -psichedelica, non può far altro che portare di nuovo alla mente i Velvet Underground. In questo articolato insieme di suoni non mancano anche le più morbide, ma non meno noiseggianti, visioni psichedeliche di Bell Tower e della finale Reach You On The Phone, dove il synth prende vita un po’ alla volta fino a dominare la scena. Grassed Inn si può certamente definire un buon disco, anche se non esente da evidenti cadute di tono, vedi l’incedere a volte troppo confusionario e le traballanti doti vocali. Detto questo, in un momento in cui gran parte delle band rifanno se stesse album dopo album, i Blank Realm sono riusciti ad attuare un interessante cambio di rotta, intelligente e non privo di originalità.

Alessandro Labanca

AFTERHOURS “Hai Paura Del Buio? – Edizione Speciale”

AFTERHOURS

Hai Paura Del Buio? – Edizione Speciale

Universal 2CD

afterhours-ristampa-e-tour-hai-paura-del-buio

Stanno attraversando un momento particolare gli Afterhours alla metà degli anni novanta. Dopo un pugno di album cantati in inglese, che mai li hanno fatti realmente uscire dall’underground, tentano coraggiosamente il passaggio all’italiano, utilizzando in maniera intelligente la tecnica del cut up, e miscelando in maniera sfavillante una musica che sia connubio di melodia e rumore chitarristico; l’esperimento paga e Germi diventa un autentico snodo nella loro carriera e, in qualche modo, anche per il rock italiano. Nel 1997, Manuel Agnelli, Xabier Iriondo e Giorgio Prette – all’epoca il nucleo della formazione – sono pronti a dargli un seguito, ma il fallimento della Vox Pop, l’etichetta presso cui erano accasati, li lascia nella scomoda situazione di doversi trovare una nuova label. A credere in loro arriverà la Mescal. Hai Paura Del Buio? si riconnette non poco alle atmosfere di Germi, ma in maniera ancora più sostanziale affresca una forma rock capace di essere ruvida e distorta, spigolosa, e nello stesso tempo incredibilmente melodica, pop per certi versi. La metà degli anni novanta stanno vedendo un fiorire notevole di gruppi italiani che stanno facendo uscire l’indie-rock italico dagli scantinati – pensiamo al successo dei CSI, dei Marlene Kuntz, dei La Crus o dei Massimo Volume – ma è probabilmente proprio Hai Paura Del Buio? il disco simbolo di questa emersione, tanto da meritarsi l’appellativo di miglior disco indipendente degli ultimi 20 anni. Anche perché, ed è questa la cosa importante, la qualità dell’album è tale da giocarsela non tanto entro gli asfittici confini del nostro stivale ma, quantomeno in linea teorica, con le più grandi bands del grunge e del post-grunge dell’epoca. Avevamo finalmente i nostri Nirvana o, come suggerì qualcuno (forse lo stesso Agnelli), i nostri Smashing Pumpkins (il paragone fu con Mellon Collie!). Mix di ballate conturbanti, di attacchi punk al fulmicotone e di altri pezzi non meglio definibili univocamente, Hai Paura Del Buio? viene oggi ripubblicato in un edizione speciale, anche in occasione di un tour di undici date che, lungo il mese di marzo, attraverserà l’Italia ed in cui l’intero album verrà riproposto integralmente. Al CD originale, opportunamente rimasterizzato, viene aggiunto un secondo CD in cui tutto il disco è stato rivisto risuonato con la collaborazione di ospiti importanti. E se alcune versioni rimangono sostanzialmente fedeli o quasi agli originali – la sempre bellissima Male Di Miele con gli Afghan Whigs; Pelle, con un quasi irriconoscibile Mark Lanegan alla voce ed un bel solo di piano a chiuderla; la potentissima Dea col Teatro Degli Orrori; una solo leggermente più alleggerita Voglio Una Pelle Splendida con Samuel Romano; le punkettose Sui Giovani d’Oggi Ci Scatarro Su coi Ministri e Veleno con Nic Cester – altre riletture si discostano abbastanza. Penso ad esempio alla canzone che dà il titolo all’album, prima solo un grumo di rumore, oggi una sorta di delirio impro-jazz con Damo Suzuki alla voce; alla 1.9.9.6. rivista in chiave folk-rock da Edoardo Bennato, che aggiunge anche qualche riga di testo; alla Elymania molto ritmica, tra il sexy e l’allucinato, approntata coi Luminal; alla Senza Finestra pianistica e stilizzata di Joan As Police Woman; alla notevole Simbiosi con Le Luci Della Centrale Elettrica alla voce  e Der Mauer ad aggiungerci fiati funerei; all’Eugenio Finardi che vira in pezzo cantautorale Lasciami Leccare l’Adrenalina; all’intensità asciutta dei Bachi Da Pietra, tra i migliori in scaletta, in Punto G; alla visionarietà di John Parish in Terrorswing e dei Fuzz Orchestra con Vincenzo Vasi in Questo Pazzo Pazzo Mondo Di Tasse; all’intimismo folk di Piers Faccini in Come Vorrei; all’eleganza pop dei Marta Sui Tubi in Musicista Contabile o di Rachele Bastreghi in Mi Trovo Nuovo. Rimane da citare giusto Rapace coi Negramaro (con un a me indigesto cantato super enfatico) e due bonus track: l’ottima Televisione, pezzo in origine non presente sull’album bensì su un singolo, in cui compaiono Cristina Donà e The Friendly Ghost Of Robert Wyatt e una seconda Male Di Miele, con un Piero Pelù gigione quanto mai. In pratica all’album originale – su cui mi sono soffermato poco, dando per scontato che lo conosciate – è stato aggiunto un vero e proprio disco tributo allo stesso. E se il primo si merita sempre e comunque il massimo dei voti, per il secondo, riuscito ma non a quei stratosferici livelli, tre stelle e mezza dovrebbero bastare. Ad ogni modo, il giusto tributo ad uno dei dischi più importanti del nostro rock. E ci si rivede sotto il palco!

Lino Brunetti

L’album uscirà in tre formati: doppio CD  (CD  cover più la versione rimasterizzata dell’album originale); l’album in digitale con, in esclusiva per iTunes, il branoVoglio Una Pelle Splendida feat. Daniele Silvestri; box edizione deluxe in tiratura numerata e limitata (1000 copie) contenente due doppi vinili da 180 gr.  più il doppio CD (stesso contenuto su entrambi i formati). Qui sotto le date del tour:

  • 07.03 NONANTOLA (MO) – Vox Club (data Zero)
  • 14.03 MANTOVA, Palabam
  • 15.03 RIMINI, Velvet
  • 18.03 TORINO, Teatro Della Concordia
  • 21.03 BOLOGNA, Estragon
  • 22.03 S.BIAGIO CALLALTA (TV), Supersonic Arena
  • 24.03 MILANO, Alcatraz
  • 25.03 MILANO, Alcatraz
  • 26.03 FIRENZE, Obihall
  • 28.03 ROMA, Orion
  • 29.03 BARI, Demodè

ABOVE THE TREE & DRUM ENSEMBLE DU BEAT “Cave_Man”

ABOVE THE TREE & DRUM ENSEMBLE DU BEAT

Cave_Man

Bloody Sound FucktoryLocomotiv Records/Audioglobe

1462897_183289918533252_385429672_n_0

Dopo aver diffuso la sua musica attraverso cassette, vinili e i formati più disparati, il mascherato chitarrista ABOVE THE TREE – al secolo Marco Bernacchia da Senigallia – torna con un album che prosegue ed aggiorna il discorso del precedente Wild. Mentre quello era stato realizzato con la collaborazione di E-Side, stavolta Bernacchia collabora col DRUM ENSEMBLE DU BEAT, ovverosia Enrico “Mao” Bocchini alle percussioni e Edoardo Grisogani agli electronics. Quella approntata dai tre è una musica ipnotica e dai marcati accenti ritualistici. La struttura dei loro pezzi è più o meno sempre la stessa: la chitarra elettrica disegna liquide ed effettate figure reiterative dalle poche e minime variazioni, a volte utilizzando anche la registrazione multitraccia; la voce, quando c’è , è usata come ulteriore strumento musicale; gli strumenti di Bocchini e Grisogani creano un adeguato e pulsante tappeto ritmico, capace di tenere ancorato al terreno il sound tutto. Quello che ne viene fuori è una sorta di trance music dove si intrecciano suggestioni etno, estatici deliri psichedelici, fantasmatici rituali persi nel tempo, sprazzi di visionaria ambient e un pizzico di pulsazione dance. Bellissima la rarefatta e desertica Down Wind Song, abbellita dal banjo essiccato di Glauco Salvo, e limpida materializzazione di un crudele sole a picco sulle nostre teste; in People From The Cave s’insinua subdolamente il sax di Roberto VillaBlack Spirits evoca invece le danze rituali degli indiani d’America, andando a ripescare delle registrazioni pubblicate su cassetta nel 1972 dalla Canyon Records (Kyowa: forty-nine & round dance songs); End Of Era, aperta dal suono delle chitarre in reverse, grazie agli archi apportati da Nicola Manzan, assume toni più platealmente cinematici e, in piccola parte, post-rock. Col suo mood stonato, oppiaceo, fumoso e dai confini poco definiti, Cave_Man è senza dubbio un ascolto affascinante, l’ennesima brillante variazione sul concetto di psichedelia in questi psichedelissimi anni.

Lino Brunetti

SOFT MOON “Soft Moon”

SOFT MOON

Soft Moon

Captured Tracks

The-Soft-Moon-The-Soft-Moon

The Soft Moon è il progetto di Luis Vasquez da San Francisco. Soft Moon è la prima opera di questo sperimentatore americano; disco perfettamente  riuscito (è uscito nel 2010 e gli sono già seguiti un EP, una collaborazione con John Foxx ed un secondo album), che recupera in maniera intelligente i suoni di molteplici generi degli anni ’80 come la new wave ma soprattutto post punk e dark wave, senza snaturarne la vena sperimentale.  Il disco si apre con quello che potremmo definire il capolavoro dell’album, Breathe The Fire, nel quale l’imperterrito battito della drum machine, fa da base sia alle atmosfere da film noir create dal synth, che alla voce sussurrata e psicotica di Vasquez, quasi un omaggio ai Joy Division di Trasmission e Atmosphere. In Circles, le sensazioni create sono di angoscia e depravazione, con il regolare battito delle percussioni a far da contraltare all’incessante alone industrial e ai deliri nonsense di Vasquez, e dove l’intermezzo noise-rumoristico porta alla mente sia il noise rock americano che quello giapponese. Il disco continua  senza sosta la sua corsa apocalittica con Out Of Time, una sorta di Ghost Rider del duemila e con la ballata When It’s Over, con la chitarra minimalista che renderebbe veritieri i paragoni con certo post-rock – Slint su tutti –  non fosse per l’inondazione di synth che avvolge il brano. Il basso e il synth sono padroni indiscussi anche dell’ incalzante Dead Love, hit che non avrebbe certamente sfigurato in qualche discoteca alternativa eighties. I Joy Division sono senza dubbio i padri spirituali di questo disco e, a dimostrarlo, sempre se ce ne fosse ancora bisogno, è Parallels, altro vertice del disco, aperto da una rimbombante linea di basso, che porta alla mente il capolavoro strumentale di Ian Curtis and co., Incubation, tutto ciò fino a quando uno sciame di synth prende il sopravvento destrutturandolo completamente. Accenni di noise rock si trovano anche nell’orgia chitarristica di We Are We, mentre l’incalzante boogie di Sewer Sickness, con la chitarra a mo’ di sirena, fa presagire l’imminente fine del mondo (sarebbe sicuramente un brano di punta nelle feste di qualche serial killer!). Into The Depths è un’altra macabra danza vicina tanto ai Ministry di Twich, quanto a certe sonorità kraute.  Angosciosa e cupa è invece Primal Eyes,  dove un’inquietante  voce di sottofondo crea un’atmosfera desolata e gelida, seguita da una sferzata noise. Il disco si chiude con Tiny Spiders, più vicino al dream pop che al post-punk, un attimo di tranquillità rispetto ai sentieri orrorifici intrapresi da Vasquez fino ad ora. Disco lineare e geometrico, che non disprezza citazioni importanti, i citati Joy Division ma anche Sister Of Mercy, Cure e certo kraut-rock, senza dimenticare qualche riferimento ai primi Ministry. Con questo disco Vasquez non cerca nulla di rivoluzionario, si limita a rivisitare il periodo d’oro della new wave, ma con un’intelligenza e una sincerità riscontrabili in pochi altri artisti. Assolutamente da seguire!

Alessandro Labanca

BEST OF THE YEAR 2013 – LINO BRUNETTI

E così eccoci qui anche quest’anno, proprio appena s’affaccia il 2014, impegnati nel solito giochetto dei migliori dischi usciti nei dodici mesi appena passati. Una rassegna – così come sottolineato nella propria dall’amico Zambo – che non può che essere che la risultante dei gusti e degli ascolti solo di chi scrive. Non rappresentativa quindi del Buscadero – quella la troverete sul numero di gennaio della rivista – e alla fine neppure di questo blog – auspico però, che almeno il buon Daniele Ghiro voglia dire la sua su questa pagina. Che anno è stato, musicalmente parlando, dunque, il 2013? Per quel che mi riguarda, molto buono direi. Non sono mancati i dischi belli e, anzi, il problema è stato il solito di questi tempi impazziti, ovvero il districarsi tra le mille uscite che invadono un mercato, magari asfittico dal punto di vista delle vendite, ma sicuramente vivace per numero e qualità delle uscite. E se è vero che manca il disco rappresentativo e che i capolavori veri latitano – ma è così facile poi riconoscere all’istante un disco che rimarrà nel tempo? – e che la musica del presente mai era sembrata così pesantemente rivolta ai vari passati della popular music, è anche vero che un appassionato curioso di muoversi fra i generi, di dischi in cui perdersi, nel 2013, ne ha potuti trovare molti.

Seasons-of-Your-Day-Vinile-lp2

I RITORNANTI

Parallelamente all’immenso mercato di ristampe e box retrospettivi – vera e propria gallina dalle uova d’oro per l’industria musicale nell’ultimo decennio, ne parleremo brevemente più avanti – il 2013 ha visto il ritorno discografico di un nutritissimo numero d’artisti e bands che, chi più chi meno, mancavano dalle scene da tempo innumerevole. Uno dei dischi più favoleggiati degli ultimi vent’anni, il terzo album dei My Bloody Valentine, ha finalmente visto la luce: MBV non ha deluso le apettative, proponendosi sia quale sunto della ventennale attività misteriosa della band di Kevin Shields, che come punto di ripartenza, nuovamente ardito ed originalissimo (gli ultimi tre, quattro pezzi). Altro gruppo di culto, i Mazzy Star, con Seasons Of Your Day, hanno ripreso il discorso interrotto diciassette anni fa, facendoci riprecipitare fra le loro ballate oppiacee, fatte di country, folk e psichedelia velvettiana. Gran disco! Che dire poi di The Argument dell’ex Hüsker Dü Grant Hart, se non che è un’opera coi controfiocchi? Hart, rispetto all’ex compagno Bob Mould, è sempre stato visto come il “Brutto Anatroccolo”, quello sfortunato, il junkie: il suo nuovo album è invece un disco ambizioso e creativo, colmo di bellissime canzoni, servite tramite un mix di raffinata ruvidezza, che come non mai ci mostra Hart autore vario e sopraffino. Mai stato un grande fan di David Bowie, eppure devo dire che il suo The Next Day l’ho apprezzato non poco. Probabilmente non lo metterei tra i miei dischi dell’anno, ma almeno tre/quattro delle sue canzoni svettano in una scaletta che comunque non ha cadute di tono. Uno su cui invece non ho mai avuto dubbi è Roy Harper: il suo nuovo album, parzialmente prodotto da Jonathan Wilson, è un gioiello, magari non per tutti, però dal fascino senza tempo e disco di quelli che non si trovano tutti i giorni. Devo ammetterlo, non ci avrei scommesso un euro circa la bontà del rientro discografico dei riformati Black Sabbath: invece 13 è davvero niente male! I riff, le atmosfere, in parte anche la voce di Ozzy, sono quelli dei primi lavori; nessuna vera novità, però una scrittura ben più che dignitosa, al servizio di un sound che ha fatto epoca ed è ormai leggendario. Come diceva qualcuno, nessuno fa i Black Sabbath meglio dei Black Sabbath stessi! Potremmo aggiungere, nessuno fa gli Stooges come gli Stooges: il loro Ready To Die non è un capolavoro, però è l’ennesimo sputacchio punk che ha permesso ad Iggy e compagni di tornare a sculettare selvaggiamente sui palchi di mezzo mondo e questo ci basta. Mi aspettavo grandi cose invece dai rinnovati Crime & The City Solution e così è stato: American Twilight è un ottimo album di rock vetriolitico e di blues allucinato, in cui il contributo prezioso di Mr. Woven Hand si sente e accresce il feeling gotico emanato da questi solchi. La palma di ritorno più inaspettato e bizzarro è però quello di Dot Wiggin, un tempo nelle famigerate Shaggs, la “peggior band della Storia del Rock”. Garage rock intinto di irresistibile freschezza naif, che ha fatto felice i cultori di questa favolosa leggenda underground. Che altro rimane da citare in questa sezione? Il fascinoso libro/CD delle Throwing Muses, Purgatory/Paradise e, alla voce mezze delusioni, lo sciapo, nuovo EP dei Pixies ed il dignitoso, ma lontano dai vecchi fasti, Defend Yourself dei Sebadoh.

Push-The-Sky-Away-PACKSHOT3-768x768

SINGER SONGWRITERS

Poche esitazioni, il 2013, sul versante cantautorale, ha dato non poche soddisfazioni. Eletto da più parti (a ragione) disco dell’anno, Push The Sky Away è uno dei migliori Nick Cave degli ultimi tempi. Un disco di ballate straordinarie, intense, toccanti; soprattutto un disco che ci mostra un Cave ancora in movimento, ancora desideroso di cercare strade nuove, fortunatamente lontano dal manierismo che iniziava a far capolino in alcuni dei suoi più recenti lavori. Altro nome capace di mettere d’accordo pubblici anche diversi fra loro, il già citato precedentemente Jonathan Wilson. Vecchio? Prolisso? Può darsi, però anche incredibilmente creativo ed evocativo, il suo Fanfare è un vero tuffo in un verbo rock d’altri tempi, ancora affascinante oggi, grazie soprattutto a grandi canzoni, un suono strabiliante e arrangiamenti sofisticati, serviti inoltre da una band che sa decisamente il fatto suo. Mathew Houck aka Phosphorescent se n’è uscito con quello che è forse il suo miglior lavoro, Muchacho, ottima sintesi di tradizione e modernità, quindi con un occhio al classico ed uno al pubblico independente. Altro grandissimo lavoro è Dream River di Bill Callahan: l’uomo un tempo conosciuto come Smog, è tornato con un disco asciutto ma caldo, fatto di vivide ballate segnate dalla sua inconfondibile personalità e da un’autorevolezza qui al meglio della sua forma. Niente male anche il nuovo Kurt Vile, Wakin On A Pretty Daze, disco fluviale sempre in bilico tra scrittura classica e retaggio indie. Forse giusto solo un po’ monocorde, ma da sentire. Ancora più interessanti mi son sembrati due dischi usciti (forse) sul finire del 2012, ma di cui tutti hanno finito col parlarne nel 2013: Big Inner di Matthew E. White ci ha rivelato tutto il talento di un cantautore con molto da dire e decisamente originale, protagonista tra l’altro di un paio dei più bei momenti live vissuti quest’anno dal sottoscritto; le ballate tormentate di John Murry e del suo The Graceless Age sono uno dei passaggi obbligati di quest’annata, straordinarie per intensità, scrittura e sincerità, la classica situazione in cui la vita vera pare prendere forma sul pentagramma. Ben due i dischi di Mark Lanegan usciti nel 2013, ma mentre il Black Pudding fatto in coppia con Duke Garwood è un disco crudo, disossato e denso di nudo pathos, meno convincente è parso Imitations, secondo disco di covers della sua carriera, purtroppo del tutto privo della potenza di I’ll Take Care Of You e, in più d’un passaggio, piuttosto di maniera e un po’ bolso, quasi come quel jazz da salotto che viene ancora scambiato per musica. Nella migliore delle ipotesi, abbastanza inutile. Il nome è quello di una band, Willard Grant Conspiracy, ma si sa che è quasi interamente sempre stata faccenda del solo Robert Fisher: l’ultimo Ghost Republic è un disco scarno e forse per pochi, però è anche uno di quelli che, se opportunamente sintonizzati su malinconiche frequenze, capace di elargire magia pura. Tutti lo conoscevano quale uno dei più visionari ed originali registi degli ultimi trent’anni: da un po’ di tempo a questa parte, pare però sia diventata l’attività di musicista quella principale per David Lynch. The Big Dream è il suo secondo lavoro, un disco di blues mesmerico e sognante, ovviamente profondamente lynchiano nelle sue conturbanti movenze. Per quello che riguarda le voci femminili, è stata probabilmente Lisa Germano quella che ha allestito il disco più particolare dell’annata, No Elephants, album in cui il suo cantautorato intimo si palesa attraversa un suono minimale e un pizzico di intrigante lateralità. Altro nome che ha avuto un certo eco nel 2013 è stato quello di Julia Holter: il suo Loud City Song se ne sta in bilico tra carnalità e sonorità eteree, tra scampoli di reminiscenze 4AD, pop, qualche inserto cameristico ed un pizzico d’elettronica. Un nome che, per certi versi, potrebbe esserle affiancato è quello di Zola Jesus, il cui passato sperimentale ed underground si riverbera oggi nelle reinterpretazioni ben più pop e “classiche” di Versions. Ma sono altri i dischi da ricordare veramente: il definitivo ritorno a standard altissimi di Josephine Foster con I’m A Dreamer, la brillantezza di Personal Record di Eleanor Friedberger, l’intensa maturità della Laura Marling di Once I Was An Eagle, lo sfavillio di Pushin’ Against The Stone di Valerie June, le ruvidezze di Shannon Wright in In Film Sound, nonché quelle di Scout Niblett in It’s Up To Emma o, per contro, la dolcezza folk-pop delle esordienti Lily And Madeleine.

(PS devo sentire ancora in modo appropriato il nuovo Billy Bragg, di cui ho letto un gran bene; mentre da ciò che ho orecchiato, John Grant non fa proprio per me).

primalcov-1

BANDS

E’ sempre difficile essere categorici, ma la mia Palma di disco dell’anno se la beccano i Primal Scream di More Light, creativi e potenti come non gli capitava da tempo, calati nei nostri tempi tramite testi ultra politicizzati e musicalmente vari ed esaltanti. Un capolavoro! Politicizzati lo sono sempre stati anche gli svedesi The Knife, di ritorno quest’anno con un mastodontico triplo LP di elettronica livida, oscura ed ostica, che solo labili tracce del loro passato pop continua a mantenere. Disco coraggiosissimo, così come a suo modo coraggioso era il loro spettacolo “live”, di cui potete leggere le mie tutt’altro che entusiastiche impressioni qui sul blog. Livido, oscuro ed ostico sono ottimi aggettivi per un altro album amatissimo dell’anno appena trascorso, il visionario The Terror dei Flaming Lips, recentemente ancora nei negozi anche con l’EP Peace Sword, ennesima dimostrazione dell’inarrestabile stato di grazia della formazione americana. Stato di grazia che continuano ad avere anche i Low con The Invisible Way: è il loro disco più sereno, più arioso, in larga parte costruito sul pianoforte, un disco che non smette di perpetrare l’incanto tipico di buona parte della loro produzione. Non sono gli unici veterani ad aver fatto vedere belle cose: non male, anche se a mio parere inferiore alle loro ultime uscite, Change Becomes Us dei Wire, Re-Mit dei Fall, Fade degli Yo La Tengo, Vanishing Point dei Mudhoney e, soprattutto, Tres Cabrones firmato da dei Melvins in grandissima forma. Uno dei dischi più discussi è stato l’ultimo Arcade Fire, Reflektor: chi lo ha valutato quale capolavoro, ha dovuto scontrarsi con quanti l’hanno visto quale ciofeca inenarrabile. Io mi metto nel mezzo, nel senso che lo considero un album discreto, con qualche buona canzone, un paio ottime e un bel po’ di roba di grana un po’ grossa. Ammetto anche, però, di non avergli ancora dedicato la giusta attenzione, prendete quindi queste considerazioni per quello che sono, impressioni più che altro. Grande credito presso la critica hanno avuto pure AM degli Arctic Monkeys e Trouble Will Find Me dei National, due band che apprezzo ma per cui non stravedo. Non sono invece rimasto deluso dall’evoluzione e dai cambiamenti in casa Midlake: è vero, in Antiphon il prog è pericolosamente protagonista, ma l’insieme mi piace parecchio e, anzi, penso sia questo il miglior lavoro della band americana. Bello ed ambizioso anche l’ultimo Okkervil River, The Silver Gymnasium, così come da sentire è anche il disco di cover dei loro cugini Shearwater, Fellow Travellers. Come sempre di grande livello il ritorno dei Califone con Stitches, mentre il poco invidiabile primato di schifezza dell’anno se lo beccano senza esitazione i Pearl Jam: il loro Lightning Bolt non si può proprio sentire! Come sempre, grandi soddisfazioni arrivano dalle bands dedite alla psichedelia: dagli immensi Arbouretum di Coming Out Of The Fog ai Black Angels di Indigo Meadows, dalle molte incarnazioni di Ty Segall (Fuzz in testa) ai soliti ma sempre esaltanti Wooden Shijps, passando poi per Grim Tower, Dead Meadow e White Hills fra le tante cose sentite. Tra i gruppi più o meno nuovi, da non dimenticare New Moon  dei The Men, i debutti delle Savages, dei Rose Windows e degli Strypes, l’ottimo General Dome di Buke And Gase, Threace dei CAVE e il folle Make Memories dei Foot Village. Tra le cose, diciamo così, più sperimentali o comunque meno rock, l’immenso Colin Stetson di New History Warfare Vol.3 – To See More Light, le doppietta Fire!/Fire! Orchestra, (without noticing)/Exit!, All My Relations di Black Pus, i Boards Of Canada di Tomorrow’s Harvest, i Wolf Eyes di No Answer: Lower Floor, i Matmos di The Marriage Of True Minds e i Fuck Buttons di Slow Focus.

massimovolume_aspettandoibarbari-1440x1440px-72-rgb

ITALIANI

Nessun italiano in questa classifica? Eccoli qui! Per il sottoscritto il titolo italiano dell’anno è Aspettando I Barbari dei Massimo Volume, intenso, scuro e potente. Bellissimo come sempre il nuovo Cesare Basile (con un disco omonimo), così come anche Quintale dei Bachi Da Pietra, sorta di svolta “rock” per il duo. Ambiziosissimo, monumentale, straordinario, il nuovo Baustelle, Fantasma. Tra le altre cose da recuperare assolutamente, lo splendido esordio dei Blue Willa, il recente album di Saluti Da Saturno, Post Krieg di Simona Gretchen, Without dei There Will Be Blood, il nuovo Sparkle In Grey e Hazy Lights di Be My Delay.

WATERBOYS

RISTAMPE

Se possibile, escono ancora più ristampe e cofanetti retrospettivi che dischi nuovi. Questa sezione potrebbe pertanto essere la più lunga di tutte. Voglio però limitarmi a citarne solo due, perché sono state quelle per me più importanti e significative dell’annata. Non potrebbero essere più diverse l’una dall’altra e questa è un’altra cosa che mi stuzzica non poco. Inanzitutto il box in sei CD sulle session di Fisherman’s Blues dei Waterboys: Fisherman’s Box è uno scrigno colmo di tesori, un oggetto a cui tornare e ritornare più e più volte, con tanta di quella musica immensa dentro che quasi non ci si crede. A lui affianco la ristampa (rigorosamente in vinile) di ½ Gentlemen/Not Beasts degli Half Japanese, uno dei dischi più rumorosi, grezzi, folli, infantili, per molti versi agghiacciante dell’intera storia del rock. Per farla breve, un capolavoro!

Qui sotto i miei venti dischi dell’anno, in rigoroso ordine alfabetico. E’ tutto, buon 2014!

ARBOURETUM – COMING OUT OF THE FOG

BLACK ANGELS – INDIGO MEADOWS

BILL CALLAHAN – DREAM RIVER

NICK CAVE & THE BAD SEEDS – PUSH THE SKY AWAY

THE FLAMING LIPS – THE TERROR

FUZZ – FUZZ

LISA GERMANO – NO ELEPHANTS

ROY HARPER – MAN AND MYTH

GRANT HART – THE ARGUMENT

THE KNIFE – SHAKING THE HABITUAL

LOW – THE INVISIBLE WAY

MASSIMO VOLUME – ASPETTANDO I BARBARI

MAZZY STAR – SEASONS OF YOUR DAY

MELVINS – TRES CABRONES

JOHN MURRY – THE GRACELESS AGE

MY BLOODY VALENTINE – MBV

PHOSPHORESCENT – MUCHACHO

PRIMAL SCREAM – MORE LIGHT

MATTHEW E. WHITE – BIG INNER

JONATHAN WILSON – FANFARE

BOX SET: THE WATERBOYS – FISHERMAN’S BOX

DIECI ANNI DOPO: THE STROKES “Room On Fire”

Torniamo a scavare negli archivi: era il novembre del 2003 quando, abbastanza impietosamente, stroncavo uno dei dischi del momento, di una delle band più chiacchierate del tempo. Visto quello che hanno fatto dopo, probabilmente avevo ragione.
THE STROKES
Room On Fire

RCA

room-on-fire

E alla fine eccolo qui, questo nuovo album degli Strokes, anticipato da tonnellate di parole, fiumi d’inchiostro e quintalate di carta. Questi ragazzi newyorkesi sono senza dubbio l’hype del momento, i novelli messia del verbo rock’n’roll, i suoi salvatori, i cavalieri della sua nuova ed eterna giovinezza. Tutte cazzate! Si tratta di una solenne montatura mediatica e, in definitiva, l’impressione che la band da di sé è quella di un enorme, colossale bluff. La recensione potrebbe finire qui, ma andiamo, non siamo così cinici da stroncare l’album più atteso dell’anno senza argomentare le nostre ragioni. Di questo album ne leggerete di tutti i colori: dalla più impietosa stroncatura, a spropositati innalzamenti del gruppo verso l’Olimpo del Rock. C’è chi ci vedrà una patetica rilettura, poppizata tra l’altro, della New York dei Television e di Lou Reed, e chi invece rimarcherà la loro abilità nel costruire melodie killer e una propensione nel tessere trame strumentali semplici, ma proprio per questo così vicine allo spirito del miglior rock. Proviamo ad azzerare tutti i discorsi e ad analizzare la faccenda con calma. Partiamo dal loro album d’esordio, Is This It?. Un disco che non è affatto difficile considerare a suo modo importante e per certi versi addirittura necessario. Necessario nel senso che, probabilmente al di là dei suoi meriti, su cui ritorneremo, è stato il disco – e di tanto in tanto ci vuole – che ha rilanciato, parlo soprattutto a livello mediatico/commerciale, tutta una serie di sonorità che col tempo erano diventate fin troppo minoritarie. Se sia cosa importante o meno lo lascio decidere a voi, ma il fatto che gruppi come White Stripes o Kings Of Leon non siano appannaggio dei soliti quattro gatti, lo si deve forse un po’ al trend partito con gli Strokes. Strokes che, forse, sono stati un gruppo montatura fin da subito: zero gavetta e subito diventati priorità della major di turno. Il loro primo disco però, ha rappresentato realmente una bella boccata d’aria fresca, un buon esordio che proponeva un discreto campionario di archetipi rock, gratificati da una leggiadra naiveté che era il tratto caratteristico del loro suono, fatto di chitarre acide ma non troppo selvagge e oculatamente calato nei settanta newyorchesi in modo da risvegliare passioni mai sopite in un generale senso di deja vu musicale. Non certo un capolavoro ma abbastanza da far drizzare le orecchie. Questo però andava bene allora; ora sono passati due anni, le cronache ci hanno detto di una band dalla resa live immatura e raffazzonata e l’importanza che si è dato al loro ritorno ha travalicato l’impatto che nella realtà questi striminziti trentatré minuti di musica possono avere. Room On Fire ci mostra una band ferma esattamente a dove l’avevamo lasciata, ma ora le aspettative nei loro confronti sono decisamente cambiate e le canzoni del disco non riescono da sole a dimostrare il valore del gruppo ma, anzi, ne evidenziano tutte le mancanze. Non si è naturalmente perso il loro appeal melodico (ed infatti è facile prevedere che venderà un botto), ma ora suona solo furbo e poco coraggioso. What Ever Happened?, Reptilia o il singolo 12:51, puntano tutto sulla propria immediatezza ruffiana e il resto dell’album le segue di conseguenza. Il risultato è che al secondo ascolto ti sembra di averlo già sentito mille volte. Dal punto di vista del songwriting, sembrano essere incapaci di andare oltre uno standard ben definito: riffettino di chitarra, batteria essenziale in tempo medio e voce roca in primo piano. Non c’è un pezzo che vada fuori da questi binari, un canovaccio che viene rispettato con minime variazioni. Non una ballata, non un picco compositivo. Prendiamo ad esempio The End Has No End: ad un certo punto sembra che possa esserci un’evoluzione, che una certa rabbia si faccia avanti e che il pezzo possa aprirsi e prendere il volo, quando improvvisamente rientra nel solco del solito pop-rock venato di wave slavatina. Molte volte ci si trova di fronte a veri e propri remake del primo album (The Way It Is ad esempio) privi di qualsiasi fantasia. Ai miei occhi, ora che ho sentito il disco, persino il licenziamento di un produttore importante ed affermato come Nigel Godrich, in favore del più rassicurante Gordon Raphael, assume contorni inquietanti. Una gran delusione insomma. Fossero stati dei pinco palla qualsiasi, una maggiore indulgenza ci sarebbe anche stata, abbastanza forse da risicare una sufficienza, ma qui stiamo parlando della più celebrata rock band del momento e solo di una cosa potete star certi: il rock è vivo e vegeto, ma è di casa da ben altre parti.

Lino Brunetti