Iosonouncane live a Milano, 23/4/2022

Un trip. La discesa in una trance percussivo-tribale dagli accenti misticheggianti. Lo sprofondare in un oceano di suoni i cui confini venivano a perdersi in dilatazioni psichedeliche e mantriche. È con definizioni del genere che si può provare a descrivere a parole un’esperienza live che più che mai necessitava di essere vissuta sulla propria pelle dal vivo, appunto. Sto parlando del concerto di Iosonouncane tenutosi all’Auditorium Cariplo di Milano il 23 aprile 2022, ultima tappa del più volte rinviato tour in cui l’intero IRA sarebbe stato suonato per intero, in sequenza, dalla prima all’ultima traccia.

Non è un mistero quanto io abbia apprezzato IRA, proprio su questo blog eletto miglior album del 2021. Miglior album non solo italiano, sia chiaro, proprio miglior album in assoluto, nel caso qualcuno dovesse avere dei dubbi. Serata imperdibile dunque, nonostante un sold out risalente a due anni addietro che, fino all’ultimo, mi ha fatto temere di non poter presenziare.* L’estate scorsa ovviamente non avevo mancato i concerti tenuti come trio devoto a strumentazione elettronica, performance che mi erano piaciute moltissimo in quanto revisione attraverso magmatici flussi di suono potentissimo e visionario del suo repertorio.

Stavolta però c’era la chance di vedere portata sul palco l’opera intera, un disco che fin da subito m’era parso come un unicum più che come una raccolta di brani, un disco a cui abbandonarsi nella sua interezza e da fruire come un viaggio, un trip appunto, da non parcellizzare in ascolti estemporanei, distratti, tronchi.

Portato sul palco da una formazione di sette elementi – ovviamente Jacopo Incani e poi Francesco Bolognini, Serena Locci, Simona Norato e Amedeo Perri (tastiere varie, electronics, qualche sporadica chitarra) più Simone Cavina e Mariagiulia Degli Amori (batteria e percussioni) – IRA è esploso in tutta la sua potenza immaginifica, portando gli ascoltatori per quasi due ore letteralmente altrove. Grazie anche al suono splendido dell’Auditorium – dove normalmente è di casa l’Orchestra Sinfonica e il Coro di Milano Giuseppe Verdi – i pezzi del disco hanno riverberato tutta la magia che ormai conoscevamo, dando forse un po’ di spazio in più alla componente strettamente ritmica, ma comunque ripercorrendo abbastanza fedelmente il disco nella sua interezza.

E qui una considerazione appare ovviamente obbligatoria: a furia di rinvii a causa del covid, questi concerti che avrebbero dovuto essere eseguiti prima dell’uscita del disco, hanno finito per essere suonati dopo, diventando quindi qualcosa di diverso rispetto a quello che dovevano essere. Se già così è stata espressa una potenza immaginifica notevole (e si sapeva a cosa si sarebbe andati incontro), cosa sarebbe successo alle sinapsi del pubblico se si fossero trovati di fronte impreparati, ma anzi con ancora pezzi pop come Stormi nelle orecchie, di fronte a un tale inscalfibile monolite sonoro? La risposta la possiamo solo immaginare, ormai, ma è chiaro che il progetto originario di Incani era nel complesso ancora più radicale di quanto poi non sia riuscito a fare.

È andata così, e in fondo non ce ne possiamo lamentare, dato che ci siamo goduti i bellissimi concerti come trio, la bellissima performance integrale di IRA, mentre in primavera/estate questa formazione a sette sarà in giro per un altra serie di concerti in cui verranno suonate delle canzoni tratte da un po’ tutti e tre gli album pubblicati finora da Iosonouncane, per un’ancora diversa esperienza live che, fin d’ora, non è un azzardo definire nuovamente irrinunciabile.

*Grazie Leo!

Lino Brunetti

Sunn O))) live a Trezzo sull’Adda, 26/1/2020

Venti metallici sul Live Club di Trezzo sull’Adda la sera del 26 gennaio 2020. A scaldare gli animi ci pensano The Secret, band triestina nota per essere nel catalogo della prestigiosa Southern Lord, rimasta ferma qualche anno, ma ormai stabilmente tornata a propagandare il suo verbo in bilico tra death metal, hardcore e sulfuree nubi dark. Confesso che non è proprio il mio genere, ma l’assalto che i cinque mettono in campo è indubbiamente dotato di forza e potenza e non lascia indifferenti. Il mio gradimento, per puro gusto personale, va a quei momenti in cui rallentano sfiorando abissi doom, ma è soprattutto tramite un suono furioso che The Secret si esprimono, agguantando il plauso dei presenti.

Durante il loro show, il locale non è ancora del tutto pieno, ma un po’ alla volta le presenze aumentano di numero, diventando quasi sorprendenti se consideriamo la natura della musica dei Sunn O))). Loro, si sa, sono una delle band più divisive in circolazione. In tantissimi li considerano tra i maggiori innovatori della musica estrema in circolazione, capaci di fondere avanguardia, metal, minimalismo, drone music, in quello che per sintetizzare è stato definito drone metal, un’idea di musica di certo nata su quanto fatto agli inizi della loro carriera da una band quale gli Earth, ma poi portata da Stephen O’Malley e Greg Anderson a un livello ancora più ardito e sconvolgente. Molti altri invece pensano che i due abbiano avuto sempre e solo un’unica idea e l’abbiano perpetrata ben oltre il limite della maniera. Diciamo che in qualche modo c’è del vero in entrambe le dichiarazioni, ma che nell’insieme, pur avanzando per sfumature, i Sunn O))) siano finora riusciti a mantenersi interessanti anche grazie alle numerose collaborazioni (memorabile quella con Scott Walker, ma ci sono anche quelle con gli Ulver, coi Boris o quelle con i tanti ospiti che da un certo punto in poi hanno accolto all’interno dei loro dischi), con le quali hanno operato piccoli aggiustamenti e sottili variazioni d’atmosfera.

Quel che è certo è che un loro concerto è qualcosa di molto più simile a un’esperienza mistica, a una seduta d’ipnosi, a un rituale volto alla trascendenza, che non a un normale spettacolo musicale. Anche in questo caso è un prendere o lasciare e per godere davvero dell’esperienza bisogna accettarne le regole e lasciarsi andare al flusso sonoro dal quale si verrà inesorabilmente investiti. In formazione a cinque, con due tastieristi (uno anche al trombone) e un bassista a supportare le chitarre di O’Malley e Anderson, i Sunn O))) si presentano sul palco incappucciati come di rito e immersi in una nebbia fitta che non cesserà di avvolgerli fin quasi a nasconderli alla vista per le quasi due ore di show. Lentezza e asfissiante ripetizione, ecco il modo in cui inducono alla trance e a quell’oscura forma di spirituale abbandono a cui mirano. Il riff pachidermico, profondissimo, iper distorto e al rallentatore con cui saturano l’aria per tutta la prima ora è puro suono che scuote le viscere, vibrazione che altera il senso del tempo e offusca le sinapsi. Non c’è una reale progressione, tutto si gioca sui volumi, sui minimi cambiamenti di velocità e sul modo in cui i radi accordi, l’inserimento dei synth, gli armonici e i riverberi interagiscono tra di loro portando il concetto di psichedelia ai suoi limiti estremi.

Dopo un’ora il tutto fluisce nei venti minuti più musicali di tutto il concerto: entra in scena il trombone in quella che è quasi una parte solista, mentre le chitarre vi si avviluppano attorno per quella che è un’idea di astratta psichedelia dagli echi jazzati (è Alice, pezzo che stava su Monoliths & Dimensions). L’effetto è deflagrante, perché dopo un’ora di doom immutabile, tutto ciò dà l’impressione dell’irrompere di una band swingante (anche se così non è, in realtà). È in questi momenti che il potenziale pressoché infinito dei Sunn O))) viene fuori, perché la loro è una musica che potenzialmente può ibridarsi con moltissime altre (e il sottoscritto sogna una collaborazione con altri grandi minimalisti quali The Necks).

Questa lunga parentesi un po’ alla volta si sfilaccia tornando a coagularsi nuovamente in un riff sepolcrale, che stavolta dura però meno, lasciando il finale alle atmosfere dell’ultimo Pyroclast, ovvero tra le distorsioni imponenti di una drone music densa di feedback e frequenze trapananti che per una mezz’ora buona ci traghetta verso il mistico finale (tra l’altro, e non so se è stata una cosa voluta o me la sono immaginata io, le luci sparate sulle coltri di fumo che avvolgevano il palco avevano gli stessi colori della copertina di Life Metal, l’altro disco pubblicato dal duo nel 2019). Dopodiché le luci si accendono, la nebbia si dirada e i cinque s’inchinano di fronte al pubblico in parte annichilito, che finalmente può esplodere in un applauso. Come che la pensiate, almeno una volta un concerto dei Sunn O))) è un’esperienza da provare.

Lino Brunetti

Tutte le foto © Lino Brunetti

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King Khan LTD live a Milano, 23/4/2019

KING KHAN LTD
MILANO

CIRCOLO MAGNOLIA
24 APRILE 2019

King Khan ha alle spalle una discografia ormai piuttosto nutrita, sparpagliata fra diverse sigle e formazioni – quella probabilmente più nota King Khan & The Shrines – ma sempre in bilico tra garage, punk, soul, rhythm & blues, generi serviti nel più selvaggio, scoppiettante e divertente dei modi.

A Milano si è presentato con un progetto nuovo di zecca, King Khan LTD (dove l’acronimo sta per louder than death), messo a punto con Looch Vibrato Aggie Sonora dei francesi Magnetix (a chitarra e batteria) e Fredovitch  degli Shrines al basso. Garage punk sputato fuori con ugola scartavetrata da grande entertainer e tanto, tanto divertimento. Le foto dovrebbero spiegare più di mille parole! Per loro, in arrivo un disco sulla mitica In The Red.

Tutte le foto © Lino Brunetti

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Piers Faccini live a Milano, 24/1/2018

PIERS FACCINI
MILANO 
LA SALUMERIA DELLA MUSICA
24 GENNAIO 2018

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Cantautore colto, capace di scrivere una canzone ispirata all’Andalusia del 400 o ai mosaici della cattedrale di Cefalù; poliglotta (si esprime correttamente in italiano e canta in inglese, francese e perfino in dialetto siciliano) e chitarrista raffinato e versatile, Piers Faccini è soprattutto un’anima errante interprete di una musica contaminata e meticcia che vuole essere potente strumento di aggregazione tra popoli, culture e nazioni, in particolar modo dell’area mediterranea cui è dedicato il suo ultimo lavoro di studio I Dreamed An Island, pubblicato nell’ottobre del 2016. Sono le canzoni di quel disco ad essere ancora in primo piano nel corso del concerto alla Salumeria della Musica di Milano svoltosi lo scorso mercoledì 24 gennaio, uno show generoso e affascinante che ha regalato momenti di gioiosa euforia e suscitato motivi di riflessione, quando il ritmo di una tarantella si è trasformato in un canto berbero o il lamento di un blues è diventato una nenia arabeggiante. Sul palco, Piers Faccini alle chitarre, elettrica ed acustica, era accompagnato dall’algerino Malik Zaid alla mandola e al guembri, un virtuoso che ha scontornato d’esotico le profonde ballate d’ispirazione folk dell’artista di origini britanniche, spargendo note flamenco su una suggestiva Judith, ipnotico blues maliano sulla lirica Comets o arie tuareg su una sognante e splendida To Be Sky. Ad una platea silenziosa ed attenta, Faccini ha accuratamente spiegato i luoghi e i motivi delle sue canzoni, svelando l’arcano del suo far musica, sintetizzabile nella magia di un brano dal potere liberatorio come Bring Down The Wall, dove è affiorata perfino una discreta verve rock. Per il resto l’artista ha accarezzato le corde delle sue chitarre con eleganza e savoir faire, intrecciando accordi blues, cori gospel, cristalline note folk, polveri desertiche, sonorità magrebine e avvolgenti melodie pop, a volte dilatando le parti strumentali e invitando di tanto in tanto il pubblico a partecipare. Artista sui generis e di indubbio talento, Piers Faccini è un’esteta e un ricercatore, capace di trattare i suoni come fossero i colori di un’affresco e le canzoni come capitoli di un libro di storia tuttora in via di aggiornamento.

Luca Salmini
Tutte le foto © Lino Brunetti

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Aldous Harding live a Torino, 31/10/2017

ALDOUS HARDING
SPAZIO 211
TORINO
31 OTTOBRE 2017

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Nonostante gli allarmistici comunicati circa l’insostenibile inquinamento di Torino – ma non è che a Milano l’aria profumi di mughetto e, comunque, fino a che non si capirà che i vari blocchi del traffico sono solo delle cazzate tampone e che l’unica via percorribile è quella di una conversione sostanziale all’elettrico, ci sarà ben poco da fare – mi metto (ehm) in macchina e proprio nel capoluogo piemontese mi reco per il concerto di Aldous Harding, aperto tra l’altro da un cantautore altrettanto interessante quale HH Hawkline. Ad una prima occhiata, non pare che il pubblico torinese abbia risposto granché al richiamo dei due, ma poi, per fortuna, qualcuno arriva e alla fine la partecipazione sarà buona. Volendo essere sincero, devo dire che la performance del gallese non è stata di certo imperdibile: le sue canzoni, in questa veste voce e chitarra (a parte l’ultima al piano), perdono del tutto la loro verve frizzante e sbarazzina, assumendo piuttosto un’aria dimessa e sotto tono, né particolarmente intensa e neppure troppo marcata dal punto di vista melodico. Se non avessi avuto modo di vederlo con la band un paio d’anni fa e non conoscessi i suoi dischi, diciamo pure che del suo passaggio sul palco mi sarei dimenticato in un battibaleno. Tutt’altra storia invece per quando riguarda l’esibizione della cantautrice di Lyttleton, Nuova Zelanda. Il suo disco più recente, Party, esordio su 4AD dopo un primo album omonimo su una piccola etichetta neozelandese, ha fatto accrescere la sua fama e ha messo in campo una maturazione di scrittura ed esecutiva tale da lasciare pochi dubbi circa il suo talento. Per certi versi quelle di Aldous Harding – il suo vero nome sarebbe Hannah – sono delle folk song, brumose e quasi sempre malinconiche. Nei fatti, però, assumono le sembianze di ovattate e notturne elucubrazioni oniriche, in qualche modo in linea con le velature psichedeliche di un’altra cantautrice folk sui generis quale Marissa Nadler. Laddove quella è però quasi sempre gentile e sognante, la Harding è capace di imprimere ai suoi pezzi un tono più conturbante, profondo, venato d’oscurità (e in questo senso, l’approdo su 4AD appare più che logico). Anche nel suo modo di porsi on stage, ha un che di austero la Harding: la sua mimica facciale assume connotati al limite del teatrale e lo stesso fanno i suoi movimenti rallentati, la loro studiata compostezza. Allo stesso modo la sua musica vive in bilico tra algido rigore e un’intensità che può essere straziante, con le linee vocali capaci di essere filiformi o scivolare verso più gotici abissi. Accompagnata dallo stesso Hawkline al basso e dal multistrumentista Invisible Familiars, per poco più di un’ora la Harding ha trasformato lo Spazio 211 nel Bang Bang Bar, il locale in cui, nella nuova stagione di Twin Peaks, alla fine di ogni puntata si esibisce una band. Canzoni bellissime come Imagining My Man o la stessa Party, per non citarne che due tra quelle eseguite stasera, avrebbero potuto benissimo rientrare nell’immaginario e nel mood dell’opera di Lynch e vi basti questo per farvi capire la magia della serata, intaccata appena, sul finale, dall’arrivo di barbari pronti a tuffarsi nella lunga notte di Halloween. Noi, le ombre e gli spettri (dell’anima) avevamo avuto modo di frequentarli un attimo prima.

Lino Brunetti
Tutte le foto © Lino Brunetti

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Micah P. Hinson live a Lugano (CH), 28/10/2017

Micah P. Hinson
Studio Foce
Lugano
28 ottobre 2017

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“Una Storia Americana”, si sarebbe potuta intitolare la serata che ha visto Micah P. Hinson esibirsi sul palco dello Studio Foce di Lugano, visto che il concerto ha messo in scena attraverso parole e canzoni i contenuti epici, tragici e romantici dell’ultimo album di studio del cantautore texano The Holy Strangers, un concept album costruito intorno ad una saga familiare, che potrebbe perfino evocare le pagine di un romanzo come Il Figlio di Phillip Meyer. In verità di storie se ne è potute ascoltare più d’una, perchè in apertura gli svizzeri The Lonesome Southern Comfort Company hanno messo in musica le loro personalissime visioni di un’America desertica e periferica, magari meno vissute e “vere” di quelle di Hinson, ma senza dubbio altrettanto autentiche ed affascinanti: ballate scenografiche e dolenti tracciate nella polvere dei sogni, della fantasia e dell’immaginazione dalle vibrazioni di un paio di chitarre acustiche ed elettriche, dal malinconico fraseggio di un violino e dai soffici rintocchi di una batteria. Un’ottimo preludio all’immaginario evocato dalla performance acustica di Micah Paul Hinson, personaggio bizzarro a partire da un’aspetto hip che lo fa sembrare un Buddy Holly reincarnatosi nei panni di uno skater, che per un’ora e mezza ha raccontato e si è raccontato attraverso canzoni, che paiono tra le cose più personali e profonde che l’artista abbia mai composto. A partire dalla sua genesi, che, come spiega l’autore, in origine prevedeva un ciclo fatto da 28 brani per 3 ore di musica, successivamente ridotto alle 14 tracce che si ascoltano nel disco, The Holy Strangers è probabilmente il lavoro di Hinson che necessità un maggior impegno e una maggiore attenzione da parte dell’ascoltatore per essere apprezzato fino in fondo: un’opera, “A Modern Folk Opera” la definisce l’autore, di carattere biblico e letterario che tratta di amori, violenze e tragedie, sviscerando la particolare weltanschauung del cantautore di Denison, Texas. Anche dal vivo per cogliere lo spessore del materiale, c’è stato bisogno del silenzio e dell’attenzione garantiti da una sala relativamente intima come quella dello studio Foce, dove le lunghe introduzioni di Hinson non sono state sommerse dalle chiacchere e hanno fatto luce sull’oscura natura della poetica delle liriche. In parte Hank Williams, in parte Johnny Cash e Woody Guthrie (quest’ultimo chiaramente evocato dalla scritta stampata sulla cassa della chitarra “This Machine Kills Fascists”), Micah P. Hinson ha cantato e suonato diverse canzoni di The Holy Strangers tra cui Oh, Spaceman e Micah Book One, recuperato qualche vecchio pezzo con una qualche attinenza tematica col nuovo materiale come Take Off That Dress For Me o reinterpretato antichi traditionals come Leaning On The Everlasting Arms, senza abbandonarsi alle etiliche stramberie che avevano pregiudicato alcune sue passate esibizioni, ma rimanendo concentrato sulle storie con l’attitudine narrativa dello storyteller. Pur combattendo contro i capricci di un monitor, Hinson ha saputo mantenere viva l’attenzione del pubblico per l’intero concerto, modulando spesso gli effetti della sua chitarra acustica e cantando in modo appassionato ed emozionate di un’America in bianco e nero, in cui il fatidico sogno rimane una fatua illusione. Considerando l’arduo compito imposto dall’esecuzione in solitaria di un’opera complessa come The Holy Strangers, in generale il concerto ha suscitato un discreto entusiasmo e confermato l’estro di Micah P. Hinson, un’artista mai banale o minimamente prevedibile.

Luca Salmini

Tutte le foto © Lino Brunetti

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Fushitsusha live a Tokyo, 5/10/2017

FUSHITSUSHA
HIGH KOENJI
TOKYO
5 OTTOBRE 2017

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Pur in questi tempi iper connessi e globalizzati, la musica proveniente dal Giappone è ancora in larga parte sconosciuta agli ascoltatori occidentali. Pochi, pochissimi i nomi di una certa notorietà alle nostre latitudini, il che se vogliamo è strano vista l’incredibile varietà e il valore di musiche e musicisti che da quelle terre, dove la musica ha ancora mercato e molta importanza, arriva. Non è questa la sede per affrontare un simile argomento – ci vorrebbe più di un libro, probabilmente – visto che lo scopo di questo scritto è quello di raccontarvi del concerto di una delle band storiche della psichedelia e della sperimentazione sul tessuto rock (appunto) d’origine giapponese. La possibilità di poter vedere in azione una band quale i Fushitsusha arriva grazie ad una vacanza proprio in Giappone. Da appassionato di musica, ovviamente non mi son fatto mancare un po’ di shopping discografico – doveste passare da Tokyo, il consiglio è di andare nel quartiere di Shinjuku e recarvi da Disk Union: in un unica via ha quattro sedi divise per generi e quella dedicata alla musica rock occupa un palazzo di ben otto piani!! – e di controllare la lista dei concerti in programma mentre ero lì. Potendone vedere uno, la scelta è caduta proprio sui Fushitsusha, band di una certa notorietà, almeno tra i fan delle musiche più estreme, anche dalle nostre parti, forse perché uno dei loro dischi uscì per la Avant di John Zorn e perché il deus ex machina della formazione, il cantante e chitarrista Keiji Haino, di collaborazioni con musicisti occidentali (Alan Licht, Loren Mazzacane Connors, Jim O’Rourke, Oren Ambarchi, Derek Bailey tra i tanti) ne ha fatte davvero moltissime. Attivi fin dal 1978, ma esordienti discograficamente solo nel 1989, i Fushitsusha sono arrivati tra diversi cambi di formazione fino ad oggi. Morto lo storico bassista Yasushi Ozawa nel 2008, oggi accanto ad Haino troviamo il batterista Ryosuke Kiyasu e il bassista Nasuno Mitsuru. La venue del concerto è l’High Koenji, bellissimo club posto in uno dei quartieri occidentali della città: decisamente piccolo, avrà si e no un centinaio di posti a sedere, bar con tanto di birre artigianali da una parte e grosso palco con, manco a dirlo, acustica a dir poco perfetta, dall’altra. IMG_0643.jpegSono le 19.40 – incredibile, 10 minuti dopo l’orario stabilito – quando Haino sale sul palco, imbraccia una piccola arpa e dà inizio al concerto con una breve composizione acustica dal sapore folk orientale. È giusto un’illusione, perché quando ancora risuona l’ultima nota, caccia un urlo e la band inizia a furoreggiare, cosa che farà ininterrottamente per le tre ore successive. Haino, lunghi capelli bianchi, vestito nero e occhiali da sole d’ordinanza, è un chitarrista spettacolare: i suoni pazzeschi che fa uscire dalla sua Gibson elettrica sono fendenti rumoristici che si sciolgono in liquide divagazioni psichedeliche, riff che a volte si fanno metallici e a volte lambiscono arzigogolature jazz, in bilico tra spasmi free ed evocative oasi ambientali. I vari pezzi hanno una sorta di canovaccio, legato soprattutto alle parti cantate con la sua insolita voce da Haino, ma a contrassegnare la performance è soprattutto la capacità di improvvisare dei tre. Tecnicamente dei mostri, sia Nasuno Mitsuru – straordinario nel suo allestire giri di basso al limite dell’assolo – che Ryosuke Kiyasu – un vero fantasista, capace di suonare tempi dispari anche su partiture in 4/4 – sono dei partner perfetti per le umorali elucubrazioni di Haino, intento a passare dalle più placide, ancorché rumorose, bolle estatiche, alle più schizofreniche delle esplosioni hardcore. Improvvisazione, noise e psichedelia fusi in un tutt’uno estremo e per certi versi indecifrabile, con punti di contatto con alcune delle musiche che siamo usi consumare qui da noi, ma con una peculiarità tutta giapponese, specchio di una cultura millenaria proiettata inesorabilmente nel più futuristico dei mondi. Concerto a dir poco epocale, per farla breve. Una piccola curiosità: molti gli occidentali in mezzo al pubblico giapponese.

Lino Brunetti

ROCK CONTEST 2014, Auditorium Flog, Firenze, 13 dicembre 2014

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Tutte le foto © Lino Brunetti

Giunto alla sua ventiseiesima edizione consecutiva, il Rock Contest di Firenze, come sempre organizzato impeccabilmente dai tipi di Controradio, col contributo del Comune del capoluogo toscano, si conferma più che mai una delle manifestazioni musicali, riservate ad artisti emergenti, tra le più importanti in Italia. Negli anni, tanti i nomi, poi diventati conosciuti tra gli appassionati, usciti da qui. La partnership con l’associazione KeepOn (circuito che raggruppa promoter, direttori artistici e manager di oltre un centinaio di locali dislocati in tutta Italia) – attraverso la quale i gruppi finalisti vengono inseriti nel circuito della musica live – e la possibilità, per il vincitore, di registrare un album in uno studio professionale (tra i migliori in Italia) come il Sam Recording Studio, sono solo alcuni dei motivi che ogni anno spingono centinaia di band ad iscriversi al contest. Da questo punto di vista, il 2014 è stato forse l’anno dei record: oltre seicento i demo giunti agli organizzatori, da cui sono stati estrapolati i 36 gruppi che si sono fronteggiati nelle eliminatorie, definitivamente ridotti a 6 nella serata conclusiva, come sempre svoltasi all’Auditorium Flog, sotto l’occhio attento non solo del numeroso e caloroso pubblico (chiamato al voto), ma pure sotto quello di una giuria tecnica, quest’anno presieduta da Manuel Agnelli degli Afterhours e con al suo interno giornalisti ed operatori del settore (tra cui anche il sottoscritto), ma anche musicisti come Piero Pelù e Max Collini degli Offlaga Disco Pax che, proprio da qui, dieci anni fa, iniziarono la loro fulgida carriera. Delle band arrivate in finale, aldilà di una qualità media in effetti piuttosto alta, pur nell’incredibile eterogeneità di generi, a colpire è stata soprattutto la padronanza tecnica e la professionalità con cui hanno affrontato pubblico e palco, con una sicurezza da formazioni scafatissime, non certo da esordienti.

Lo Straniero

Lo Straniero

I primi ad esibirsi sono stati i piemontesi Lo Straniero, autori di un pop-rock dalle inflessioni wave e con qualche influsso electro-pop, che in alcuni frangenti mi hanno ricordato certe cose ai tempi pubblicate dai Dischi del Mulo, e quindi con più di un contatto col mondo CCCP/CSI, di cui i ragazzi sicuramente saranno fan. Davvero niente male.

Beyond The Garden

Beyond The Garden

Dopo di loro, quelli che alla fine risulteranno essere i vincitori dell’edizione 2014, i fiorentini Beyond The Garden. Il loro è un misto d’indie-rock e post-punk, con l’accento posto fortemente sul ritmo e su un suono sì capace di qualche spigolo, ma sicuramente anche molto accattivante. Immaginatevi dei Liars meno estremi e più pop ed inizierete a farvi almeno un’idea. Di sicuro risentiremo parlare di loro, perché mi sono parsi assai determinati e consci delle loro possibilità. Grande tenuta del palco e brillante l’idea di terminare il proprio set coi tamburi in mezzo ad un pubblico già adorante.

Plastic Light Factory

Plastic Light Factory

Arrivavano invece da Mantova i Plastic Light Factory – si piazzeranno al secondo posto – giovanissimo trio in bilico tra lisergici flash shoegaze e acide escursioni rock psichedeliche tinte di rumore. Abbigliamento vintage d’ordinanza e buona padronanza strumentale messa al servizio di canzoni di grande pregnanza elettrica, magari non ancora personalissime ma di certo indirizzate sulla retta via.

Mefa

Mefa

Ad ulteriore dimostrazione dell’eclettismo perpetrato dal Rock Contest, la performance dell’altro fiorentino in gara, il rapper Mefa. Apparentemente un pesce fuor d’acqua, con la grinta e la sfacciataggine dei suoi 16 anni, Mefa ha pungolato il pubblico con liriche a mitraglia ed un piglio da autentico veterano, cosa che ci porta a credere che l’hip hop italiano potrebbe aver trovato qui un nuovo protagonista.

Mefa

El Xicano

Tutt’altre atmosfere con il cantautore romagnolo El Xicano, probabilmente il più coraggioso fra tutti, visto che si è presentato sul palco forte della sola essenza delle sue canzoni, offerte tramite sola voce e piano. Non è facile mantenere desta l’attenzione del pubblico se sei uno sconosciuto e stai proponendo brani intimi, personali e minimalisti: il fatto che El Xicano ce l’abbia fatta ci dice di un autore bravo e con qualcosa da dire.

Sofia Brunetta

Sofia Brunetta

Ultima infine a salire sul palco tra gli artisti in gara, la salentina Sofia Brunetta, in questo caso accompagnata da una band (si classificherà al terzo posto). Rock, soul e funk per lei, in canzoni pimpanti e tutte da ballare, con una sezione ritmica pulsante, un chitarrista tendente a ficcanti assoli anche dissonanti e, soprattutto, indubbie doti vocali da parte della titolare della band. Bravi anche loro, insomma.

...a Toys Orchestra

…a Toys Orchestra

Mentre la giuria si riuniva per eleggere il vincitore, on stage intanto salivano gli ospiti della serata, gli ormai famosi …A Toys Orchestra, sempre bravissimi dal vivo e qui intenti a presentare soprattutto le canzoni del loro recente, ottimo Butterfly Effect. Tra il loro set ed i bis, la premiazione dei primi tre gruppi e l’assegnazione del premio intitolato ad Ernesto De Pascale che, ormai da qualche anno, viene dato alla miglior canzone cantata in italiano. A vincerlo quest’anno i Lefebo, eletti tramite un messaggio video da Cristina Donà.

Lino Brunetti