CARNENERA “Carnenera”

CARNENERA
Carnenera
Sinusite Records

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Con quel suono scuro e nervoso, l’omonimo debutto dei Carnenera parrebbe il frutto della produzione di Steve Albini, invece è tutta opera del trio composto da Lorenzo Sempio alle chitarre, Luca Pissavini al basso e Carlo Garof alla batteria: nuova interessante realtà della scena undergorund italiana. Se i Carnerera abitassero in California o facessero parte del catalogo della Tee Pee Records, il loro debutto avrebbe probabilmente già ricevuto entusiastici riscontri in ambito internazionale, ma, con l’augurio che presto succeda, nell’assopito panorama italiano rimane cosa per quei pochi ancora alla ricerca di una voce fuori dal coro: tra questi figurano certamente i discografici della coraggiosa Sinusite Records, che lo scorso marzo hanno pubblicato un lavoro davvero particolare e forse a tratti plumbeo e spigoloso, ma di certo creativo, quando non proprio originale. In forma quasi esclusivamente strumentale, il trio fluttua tra oppiati mantra psichedelici, acide sparate hard, riflussi noise, pulsioni avanguardistiche e variazioni post-rock e progressive, sviluppando una musicalità dura ed esplosiva, a tratti densa e melmosa, a tratti selvaggia e furiosa, fino a raggiungere astratti scenari atmosferici e visionari. In queste fasi più spaziose e cinematografiche della musica dei Carnenera affiora il lato più lirico e affascinante del loro suono, quando brani come la splendida Twenty-One Thounsand Leagues o la lisergica William Wallace paiono suggerire una certa sintonia con le fumose cavalcate degli Earth, oppure quando le nebulose e lunari traiettorie di una grandiosa Self-Harm evocano le vulcaniche esplorazioni space-rock degli anni ’70. Seppur quasi interamente virato al nero, Carnenera è tuttavia un disco piuttosto vario in termini di atmosfere, che a partire dall’urgenza math-rock di Tilikum, passa attraverso le stonate allucinazioni soniche di una riverberata e bellissima William Blake; attraverso le fughe progressive di Duello; attraverso sabbatici mantra come l’ipnotica La Marcia dei Triceratopi, su cui aleggia la vocalità inquieta di Dalila Kayròs; fino a composizioni sospese tra avanguardia e psych-rock come Nine and Then Some e la cacofonica Tre Gatti, che paiono sfuggite al repertorio dei Naked City di John Zorn. Come gli americani Earthless, i Carnenera segnano l’evoluzione estrema della concezione di power-trio, portandola verso territori ancora oscuri ed inesplorati, almeno dalle nostre parti.

Luca Salmini

BLANK REALM “Grassed Inn”

BLANK REALM

Grassed Inn

Fire Records/Goodfellas

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Solare, ricercato, naif, pop: eccovi qui presentato il nuovo album dei Blank Realm. Il gruppo è formato dai tre fratelli Daniel Spencer (voce, batteria), Sarah Spencer  (voce, synth), Luke Spencer (basso) e dal chitarrista Luke Walsh, provenienti da Brisbane, in Australia. Se si pensa ai loro lavori precedenti, non è difficile notare il cambiamento  avvenuto con Grassed Inn, dove i baccanali noise lasciano spazio ad un suono (non sempre impeccabile ma sicuramente interessante) più vivace, festoso e, come già detto, pop, con elementi di psichedelia che in molti casi prendono il sopravvento. Queste caratteristiche sono subito riscontrabili nell’iniziale Back to The Flood e nella deliziosa psichedelia di Falling Down The Stairs, con l’organetto padrone indiscusso; i Blank Realm, oggi, non sembrano suonare più come i Sonic Youth, bensì come i Modern Lovers. Vero, ma fino ad un certo punto, visto che i “giovani sonici” sono stati presenza ingombrante in tutta la loro discografia e non potevano mancare neanche in questo nuovo album, basti pensare a Bulldozer Love, con le chitarre che poco alla volta si fanno sempre più distorte, seguite nel loro incedere da un organo spaziale. I fratelli australiani ci mettono dentro anche un pizzico di elettronica in Violet Delivery, mentre la ballata noise di Baby Closes The Door è un chiaro richiamo ai Velvet Underground, altro gruppo molto caro ai nostri. Anche lo stomp elettronico di Even The Score, sfociante in un incursione noise -psichedelica, non può far altro che portare di nuovo alla mente i Velvet Underground. In questo articolato insieme di suoni non mancano anche le più morbide, ma non meno noiseggianti, visioni psichedeliche di Bell Tower e della finale Reach You On The Phone, dove il synth prende vita un po’ alla volta fino a dominare la scena. Grassed Inn si può certamente definire un buon disco, anche se non esente da evidenti cadute di tono, vedi l’incedere a volte troppo confusionario e le traballanti doti vocali. Detto questo, in un momento in cui gran parte delle band rifanno se stesse album dopo album, i Blank Realm sono riusciti ad attuare un interessante cambio di rotta, intelligente e non privo di originalità.

Alessandro Labanca

BOLOGNA VIOLENTA: BERVISMO E UNO BIANCA

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Nicola Manzan ha ormai un certo seguito nel panorama rock estremo italiano (e non solo). Ai dischi e alle attività di Bologna Violenta, la sua creatura della quale è unico artefice, si aggiungono collaborazioni varie come session man, come produttore e come “discografico” attraverso la sua etichetta Dischi Bervisti. Proprio per questo tralasciamo una dettagliata biografia e andiamo a chiedere qualche informazione supplementare, Nicola risponde sincero e disponibile, parlando anche del suo nuovo lavoro Uno Bianca, del quale trovate la recensione alla fine dell’intervista.

Da dove nasce la tua voglia di fare musica?

E’ iniziato tutto quand’ero bambino. Ho iniziato a suonare il pianoforte a cinque anni e verso gli otto anni ho iniziato lo studio del violino. Ho sempre amato la musica, mi affascinavano gli strumenti e già a quell’età facevo le classifiche a casa (col giradischi) imitando quelle della radio. I vinili di mio padre comprendevano musica classica e cose pop o cantautorali che mischiavo con molta naturalezza, creando delle mie personali playlist che non ammettevano distinzione di “genere”.

Sei diplomato in violino, presumo che ci sia bisogno di un’impronta classica per studiare questo strumento. Come sei finito a fare grindcore?

Come dicevo, ho iniziato da piccolo a suonare il violino e mi sono diplomato in conservatorio a fine anni 90. Amo la musica classica, è una parte fondamentale del mio background e dei miei ascolti. Però amo anche i generi più distruttivi, forse perché rappresentano l’opposto di quello per cui ho combattuto in anni di conservatorio: l’eleganza, il bel suono, il rigore interpretativo e tutte queste cose. Il grindcore è considerato l’anti-musica per eccellenza, e questo mi affascina molto. Raggiunta la maggiore età ho iniziato a suonare con i primi gruppi della zona, che hanno avuto un’impronta sempre abbastanza pesante, nelle sonorità, ma solo con BOLOGNA VIOLENTA ho deciso di estremizzare tutto e mettere in musica il mio lato più estremo.

I due aspetti (classico ed estremo) sono in antitesi o si possono coniugare? Sembra che tu riesca in scioltezza ad inserire elementi classici in contesti estremi. Qual’è il tuo approccio?

Il mio approccio è molto semplice: voglio fare musica che sia molto forte dal punto di vista emotivo. L’uso di tempi molto veloci nei pezzi genere ha già di per sè un forte impatto, ma negli anni sono riuscito ad utilizzare tipi di accordi e sequenze armoniche che riescono a sottolineare al meglio quello che voglio “dire”. Da notare che in genere sono proprio gli archi a creare le armonie, mentre la chitarra sta sotto a macinare ritmiche veloci e spezzate. Mi sembra il modo più naturale per mettere insieme le due cose, per quanto col mio ultimo disco ho fatto dei notevoli passi avanti, cercando di rendere gli archi più estremi e le chitarre più armoniche.

Sembri un tipo luciferino e sinistro, la tua musica è estrema e violenta, ma poi conoscendoti si ha la sensazione che tu sia un tipo tranquillo, c’è una sorta di Jekyll/Hyde nella separazione tra musica e privato?

Beh, c’è da dire che nel privato non sono sempre gentile e tranquillo, chi mi conosce bene lo sa… Sono testardo di natura, quindi se le cose non vanno come voglio io tendo ad essere molto pesante. Però credo anche che la mia musica abbia molti risvolti “positivi”, io la vivo come una specie di catarsi, un breve incubo che una volta finito ti fa stare meglio. Quindi non vedo il mio progetto come violento-e-basta, lo vedo molto provocatorio, più che altro, e questo mi rispecchia in pieno. La gentilezza e il rispetto per il prossimo dovrebbero essere alla base di tutte le relazioni tra gli esseri umani, la musica che si fa non dovrebbe c’entrare.

Una one man band ha dalla sua il vantaggio di essere a capo di tutto. Ti piacerebbe essere in una band con altri elementi o la tua dimensione solitaria è completamente appagante?

Le due esperienze sono molto diverse, devo dire. Mi piace essere a capo di tutto per quello che riguarda BV e spesso mi chiedo se vorrei altra gente a suonare sul palco con me (la risposta è spesso positiva, tra l’altro). A volte risulta pesante essere quasi ogni sera su un palco da solo a creare uno spettacolo che funzioni, in cui devo spingere sempre al massimo perché l’attenzione è tutta su di me. Mi piace molto suonare con altre persone (anche se negli ultimi due anni non è mai capitato), devi creare il feeling giusto, il “respiro comune”, è creare qualcosa di unico con altre persone, quindi la sento una cosa molto speciale (tanto speciale da tenermi alla larga da improvvisazioni modello: dai prendiamo due strumenti e vediamo cosa esce). Spero presto di ricominciare a suonare anche con una vera band, tutto sommato mi mancano i fischi alle orecchie post-concerto, quelli che nel silenzio ti fanno compagnia tutta la notte col suono dei piatti del batterista di turno…

Tra collaborazioni, registrazioni, produzioni sembra che la tua vita sia totalmente dedicata alla musica, è così?

E’ così. Ti dirò, se non mi ci dedico ogni giorno mi sento in colpa con me stesso. E’ una ossessione, più che altro…

Come sono nate le tue collaborazioni con Menace (progetto di Mitch Harris dei Napalm Death) e Justin K. Broadrick (Jesu)? Qual’è il tuo contributo in questi progetti?

Ho conosciuto Mitch quando ho suonato per la prima volta di supporto ai Napalm Death. Ha visto che avevo il violino sul palco e mi ha chiesto se registravo e arrangiavo gli archi, perché aveva questo progetto in ballo con Brann Dailor (Mastodon) e Max Cavalera (Soulfly), ma all’epoca c’erano solo dei provini. Dopo un intenso scambio di mail, pezzi e idee durato quasi due anni, siamo arrivati al punto che il cd esce a Marzo per Season Of Mist e sarà distribuito in tutto il mondo. Io mi sono occupato della parte “orchestrale” della cosa, registrando gli archi su gran parte dei pezzi, in più ho fatto alcune parti di synth e fiati, oltre al basso del primo singolo. Nel disco, prodotto da Russ Russell (Napalm Death, Evile) hanno suonato Shane Embury (Napalm Death), Derek Roddy (Hate Eternal, Nile) e Fred Leclerq (Dragonforce). Justin l’ho incontrato a Bologna suonando di supporto ai Godflesh. Anche in questo caso, ha visto il violino e mi ha chiesto di registrare gli archi veri su un pezzo dell’ultimo album di Jesu. Anche in questo caso, un’esperienza molto bella per me, soprattutto dal punto di vista umano (e qui si torna alla domanda sull’essere gentili e fare musica estrema…).

Una domanda che faccio a tutti: riesci a vivere di musica oppure fai anche altro? Gestisci tutto da solo anche per quanto riguarda la parte amministrativa e organizzativa?

Diciamo che riesco a “sopravvivere”. Ho impostato tutta la mia vita sulla musica, fin da bambino, e a parte qualche periodo in cui ho fatto anche altro, in genere sono sempre riuscito a non morire di fame. Devi pensare che oltre a BV faccio anche il fonico in studio, produco gruppi e partecipo alle registrazioni di parecchi dischi. Mettendo insieme tutto ed evitando di buttare i soldi in cazzate a fine mese non ho un vero e proprio stipendio, ma almeno non devo trovarmi qualcos’altro da fare per vivere. Inizialmente gestivo tutto, ora molto meno, i concerti li gestisce il Cecca di BPM Concerti, la stampa dell’ultimo disco la sta gestendo Woodworm, mentre l’ufficio stampa è autogestito da me e Nunzia (la mia compagna) come Dischi Bervisti, ma devo dire che ho sempre meno tempo per star dietro a tutto.

Come vedi la scena musicale italiana? Intendo quella sotterranea (ma non troppo) fatta di piccole entità come la tua (o anche maggiori) ma che mi sembra sia ormai ad un livello qualitativo veramente elevato.

Anche secondo me il livello si è alzato. Purtroppo il livello culturale italiano si è abbassato, quindi magari la musica può essere migliore, ma i posti dove farla sono sempre meno. Sono anche contento di vedere molte band che suonano e sono amate all’estero, questo significa che forse siamo arrivati, almeno in alcuni casi, ad essere “competitivi”, per quanto questo termine non mi piaccia.

So che hai fatto qualcosa anche con Ligabue: come collochi questi grandi nomi nel panorama rock italiano? Voglio dire, per me Vasco Rossi e Ligabue hanno un’influenza negativa su tanti perché il monopolio radiotelevisivo ci dice che loro sono il rock in Italia. Per trovare alternative devi cercare da altre parti e non tutti ne hanno voglia o interesse.

Ho registrato i violini su due pezzi di Ligabue. Mi è stato chiesto se volevo farlo e mi è sembrata una bella occasione per mettermi alla prova e soprattutto per andare a vedere come si lavora a quei livelli. Io personalmente non ce l’ho con Ligabue o Vasco, non mi piacciono le cose che fanno, tutto qui. La questione è un po’ complessa, dal mio punto di vista, perché da un lato ci sono le major che spingono i nomi grossi per far cassa (con tutte le conseguenze del caso), dall’altra c’è un pubblico che si riconosce in quello che questi artisti comunicano. Forse è perché comunicano cose molto semplici, in cui l’italiano medio si rivede. Chi non è stato con una tipa stronza in vita sua? Se ci fai una canzone gran parte del pubblico maschile ci si rivedrà. Sta a noi decidere se vogliamo ancora sentir parlare di cuore-amore o se vogliamo che la musica sia un arricchimento culturale, oltre che semplice intrattenimento. In più la gente non ha voglia di cercare qualcosa di diverso, quindi si becca quello che le viene propinato da tv o radio e basta. La cosa finisce qui. Diventa puro e semplice mercato.

L’etichetta Dischi Bervisti l’hai fondata tu?

L’abbiamo fondata io e Nunzia, inizialmente è stato fatto perché ai tempi del mio penultimo album ci siamo resi conto che potevamo contare su Audioglobe per la distribuzione delle copie fisiche, senza dover passare necessariamente per altre etichette. Quindi ci siamo messi in proprio e a quel punto abbiamo deciso anche di gestire tutta la parte promozionale. Ora facciamo da ufficio stampa anche per altre band e coproduciamo i dischi degli amici o quelli che ci piacciono. Una cosa molto DIY, comunque.

Ho saputo che ti sei sbattezzato, hai problemi con la religione cattolica o invece è una cosa più generale contro tutto quello che riguarda la spiritualità?

Non è una cosa che riguarda la spiritualità, ma le religioni (tutte) intese come un sistema politico per il controllo delle masse. Detta così sembra una cosa complottista, ma non lo è. La chiesa e le religioni per secoli non hanno fatto altro che mettere gli uni contro gli altri, in nome di un Dio che qualcuno si è inventato. La gente crede in cose assurde e affronta la vita pensando cose tipo “se Gesù è morto per noi, allora io devo avere la mia croce e soffrire”… secondo me questa è follia pura. Non si sa neppure se Gesù sia mai esistito o meno, non riesco a sentirmi vicino a queste cose. Che poi la religione cattolica mi fa proprio ridere, piena di controsensi. Una religione monoteista in cui vengono venerati decine di santi (che poi santi nella vita non lo erano proprio). Sinceramente? Non voglio averci niente a che fare.

Ora parlami del Bervismo, al quale ti vedo molto legato. Cos’è e da dove nasce?

“Bervismo” è una parola che mi sono inventato. Ho cominciato a scriverla sui social network ed ora sta cominciando a dilagare in maniera preoccupante… Di base vorrebbe essere la parola che identifica il trionfo della ragione sui sistemi politici del passato, sulle religioni e sulle superstizioni in generale.

Passiamo al tuo ultimo disco Uno Bianca: un progetto che potrebbe prestarsi ad interpretazioni controverse. Non ti hanno ancora accusato di apologia della violenza? Perché hai rievocato la storia di quella banda criminale?

Ho pensato di rievocare in musica una storia che a mio modo di vedere ha cambiato non solo la provincia di Bologna, ma un po’ tutto il Belpaese. Una storia sconvolgente che dovrebbe continuare a far riflettere, ma di cui non si parla quasi più. E’ una storia di Bologna e il mio progetto è nato inizialmente con l’idea di parlare della città in qualche modo, soprattutto andando a raccontare le sue storie più tristi. L’argomento è scottante, me ne rendo conto, infatti fin da subito ho contattato l’Associazione delle Vittime della Uno Bianca per parlare del mio progetto e del fatto che non ho la minima intenzione di far passare quelli della banda per dei personaggi da imitare. La mia è una denuncia spietata nei confronti di chi non ha il rispetto per la vita (aggravato, in questo caso, dal fatto che chi era coinvolto faceva parte di un’istituzione che dovrebbe garantire la pubblica sicurezza).

Rispetto ai lavori precedenti si nota un massiccio uso degli archi, il tuo violino mischiato con la violenza chitarristica crea una sorta di tappeto grind orchestrale. Un connubio che ti appassiona?

Come ho già scritto sopra, penso che questo che esce con BOLOGNA VIOLENTA sia una specie di “suono primordiale” che ho in testa. Questa è esattamente la musica che ho dentro.

Diventa imprescindibile il booklet allegato all’ascolto: preso da solo l’album è spiazzante ma con la guida in mano magicamente tutto si incastona al posto giusto. Una colonna sonora per un film che non è nelle sale ma che è nella storia della cronaca nera italiana. Hai attualizzato i poliziotteschi dei ’70 si può dire.

In qualche modo, forse sì. Lì era tutto basato su storie inventate, qui purtroppo è una storia vera. La mia idea era proprio quella di ricreare le colonne sonore di quei momenti così drammatici, la paura, la follia, il dolore generato da un raptus di follia. La guida all’ascolto è imprescindibile, perché lo svolgersi dei fatti è sottolineato dalla musica, ma se non si sa cosa è successo, si ha la sensazione che sia tutto un po’ fine a se stesso.

Come lo porterai in tour? Hai delle idee di come sarà il tuo show?

Sto preparando dei video che spero siano all’altezza del disco… Sto cercando di creare un viaggio minimale, ma efficace. Sul palco sarò da solo, non me la sono sentita di coinvolgere altra gente nei miei deliri!

Perché qualcuno dovrebbe comprare Uno Bianca? Fatti pubblicità…

La gente dovrebbe comprare il disco perché è qualcosa di diverso da quanto esce di solito. E’ uno sconfinare tra generi continuo, anche se di base la componente violenta è quella predominante. E’ un disco fatto col cuore che racconta una storia che dovrebbe farci riflettere.

BOLOGNA VIOLENTA

Uno Bianca

Woodworm/Wallace Rec/Dischi Bervisti

BV - UnoBianca [cover]

C’è qualcosa di sorprendente nelle idee di Nicola Manzan, cioè il factotum dietro il nome Bologna Violenta. L’anno scorso ha avuto il coraggio di condensare in un’unica traccia le discografie di artisti che vanno dai Pink Floyd agli Abba passando attraverso i Carcass con l’operazione “The Sound Of…” che seppur discutibile dal punto di vista puramente uditivo (a volte ci sono pezzi di puro rumore bianco) risulta affascinante per l’idea e dimostra ancora una volta la vitalità dell’artista trevigiano. Ora dopo tre dischi in netta crescita ecco che arrivano i 27 pezzi (30 minuti di musica totali) del nuovo Uno Bianca. Un concept che percorre passo passo le gesta criminali della banda dei fratelli Roberto e Favio Savi, poliziotti, che tra il 1987 e il 1994 misero a segno una serie di rapine e assalti che terrorizzarono Bologna e dintorni. Chiunque si trovò malauguratamente sulla loro strada fù impietosamente spazzato via, al momento del loro arresto i morti che si lasciarono alle spalle furono 24, conto al quale si aggiunge il loro povero (ma controverso) padre che si suicidò, forse vinto dalla vergogna (e a questo capitolo finale è dedicata l’ultima, bellissima, sinfonica e classica traccia). La canzone vera e propria non esiste e viene abbandonata a favore del concept globale della storia, anche i titoli non esistono, visto che ogni pezzo è identificato dalla data e dal luogo di ogni loro rapina o azione criminosa, e tutto il disco si regge sulla tremenda dicotomia chitarra – violino. I ritmi sono spesso forsennati come suo solito, l’uso degli archi però è massiccio e stempera le violenze, le pause sono inserite al momento giusto e la liricità del disco ne guadagna. Spiazzante al primo ascolto, il lavoro cresce notevolmente con i successivi, ma è quando si prende in mano la guida ai brani che Nicola ha allegato al suo lavoro che tutto giunge a compimento e il suo disco si trasforma in una colonna sonora perfetta di un poliziottesco italiano aggiornato agli anni ‘90, in un continuo aumentare del coinvolgimento emotivo. La musica segue passo passo ogni vicenda e tutto si va magicamente ad incastonare nel punto giusto, lasciando stupefatti di come questo sia possibile seguendo la sua proposta musicale, che non è certo tra le più accessibili e leggere. La violenza musicale delle rapine lascia spazio agli archi delle morti e dei funerali, si sobbalza ad ogni attacco, si prova pietà per le vittime e rabbia per i carnefici, sembra di essere sulla scena del crimine (ad esempio le tristi note tzigane durante l’assalto ai campi ROM si interrompono bruscamente durante il vero e proprio tirassegno messo in atto dai criminali lasciando spazio alla furia delle chitarre). Vi garantisco che, se siete solo un minimo avvezzi al genere, vi ritroverete ad ascoltare mezz’ora di grindcore con il cuore in gola e non potrete non trasalire ad ogni rintocco di campana (24, uno per ogni morto) puntualmente sistemati al momento dell’esecuzione. Da brividi. Come ho detto all’inizio, uno dei più sorprendenti artisti italiani nel panorama della musica estrema.

Daniele Ghiro

BEST OF THE YEAR 2013 – LINO BRUNETTI

E così eccoci qui anche quest’anno, proprio appena s’affaccia il 2014, impegnati nel solito giochetto dei migliori dischi usciti nei dodici mesi appena passati. Una rassegna – così come sottolineato nella propria dall’amico Zambo – che non può che essere che la risultante dei gusti e degli ascolti solo di chi scrive. Non rappresentativa quindi del Buscadero – quella la troverete sul numero di gennaio della rivista – e alla fine neppure di questo blog – auspico però, che almeno il buon Daniele Ghiro voglia dire la sua su questa pagina. Che anno è stato, musicalmente parlando, dunque, il 2013? Per quel che mi riguarda, molto buono direi. Non sono mancati i dischi belli e, anzi, il problema è stato il solito di questi tempi impazziti, ovvero il districarsi tra le mille uscite che invadono un mercato, magari asfittico dal punto di vista delle vendite, ma sicuramente vivace per numero e qualità delle uscite. E se è vero che manca il disco rappresentativo e che i capolavori veri latitano – ma è così facile poi riconoscere all’istante un disco che rimarrà nel tempo? – e che la musica del presente mai era sembrata così pesantemente rivolta ai vari passati della popular music, è anche vero che un appassionato curioso di muoversi fra i generi, di dischi in cui perdersi, nel 2013, ne ha potuti trovare molti.

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I RITORNANTI

Parallelamente all’immenso mercato di ristampe e box retrospettivi – vera e propria gallina dalle uova d’oro per l’industria musicale nell’ultimo decennio, ne parleremo brevemente più avanti – il 2013 ha visto il ritorno discografico di un nutritissimo numero d’artisti e bands che, chi più chi meno, mancavano dalle scene da tempo innumerevole. Uno dei dischi più favoleggiati degli ultimi vent’anni, il terzo album dei My Bloody Valentine, ha finalmente visto la luce: MBV non ha deluso le apettative, proponendosi sia quale sunto della ventennale attività misteriosa della band di Kevin Shields, che come punto di ripartenza, nuovamente ardito ed originalissimo (gli ultimi tre, quattro pezzi). Altro gruppo di culto, i Mazzy Star, con Seasons Of Your Day, hanno ripreso il discorso interrotto diciassette anni fa, facendoci riprecipitare fra le loro ballate oppiacee, fatte di country, folk e psichedelia velvettiana. Gran disco! Che dire poi di The Argument dell’ex Hüsker Dü Grant Hart, se non che è un’opera coi controfiocchi? Hart, rispetto all’ex compagno Bob Mould, è sempre stato visto come il “Brutto Anatroccolo”, quello sfortunato, il junkie: il suo nuovo album è invece un disco ambizioso e creativo, colmo di bellissime canzoni, servite tramite un mix di raffinata ruvidezza, che come non mai ci mostra Hart autore vario e sopraffino. Mai stato un grande fan di David Bowie, eppure devo dire che il suo The Next Day l’ho apprezzato non poco. Probabilmente non lo metterei tra i miei dischi dell’anno, ma almeno tre/quattro delle sue canzoni svettano in una scaletta che comunque non ha cadute di tono. Uno su cui invece non ho mai avuto dubbi è Roy Harper: il suo nuovo album, parzialmente prodotto da Jonathan Wilson, è un gioiello, magari non per tutti, però dal fascino senza tempo e disco di quelli che non si trovano tutti i giorni. Devo ammetterlo, non ci avrei scommesso un euro circa la bontà del rientro discografico dei riformati Black Sabbath: invece 13 è davvero niente male! I riff, le atmosfere, in parte anche la voce di Ozzy, sono quelli dei primi lavori; nessuna vera novità, però una scrittura ben più che dignitosa, al servizio di un sound che ha fatto epoca ed è ormai leggendario. Come diceva qualcuno, nessuno fa i Black Sabbath meglio dei Black Sabbath stessi! Potremmo aggiungere, nessuno fa gli Stooges come gli Stooges: il loro Ready To Die non è un capolavoro, però è l’ennesimo sputacchio punk che ha permesso ad Iggy e compagni di tornare a sculettare selvaggiamente sui palchi di mezzo mondo e questo ci basta. Mi aspettavo grandi cose invece dai rinnovati Crime & The City Solution e così è stato: American Twilight è un ottimo album di rock vetriolitico e di blues allucinato, in cui il contributo prezioso di Mr. Woven Hand si sente e accresce il feeling gotico emanato da questi solchi. La palma di ritorno più inaspettato e bizzarro è però quello di Dot Wiggin, un tempo nelle famigerate Shaggs, la “peggior band della Storia del Rock”. Garage rock intinto di irresistibile freschezza naif, che ha fatto felice i cultori di questa favolosa leggenda underground. Che altro rimane da citare in questa sezione? Il fascinoso libro/CD delle Throwing Muses, Purgatory/Paradise e, alla voce mezze delusioni, lo sciapo, nuovo EP dei Pixies ed il dignitoso, ma lontano dai vecchi fasti, Defend Yourself dei Sebadoh.

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Poche esitazioni, il 2013, sul versante cantautorale, ha dato non poche soddisfazioni. Eletto da più parti (a ragione) disco dell’anno, Push The Sky Away è uno dei migliori Nick Cave degli ultimi tempi. Un disco di ballate straordinarie, intense, toccanti; soprattutto un disco che ci mostra un Cave ancora in movimento, ancora desideroso di cercare strade nuove, fortunatamente lontano dal manierismo che iniziava a far capolino in alcuni dei suoi più recenti lavori. Altro nome capace di mettere d’accordo pubblici anche diversi fra loro, il già citato precedentemente Jonathan Wilson. Vecchio? Prolisso? Può darsi, però anche incredibilmente creativo ed evocativo, il suo Fanfare è un vero tuffo in un verbo rock d’altri tempi, ancora affascinante oggi, grazie soprattutto a grandi canzoni, un suono strabiliante e arrangiamenti sofisticati, serviti inoltre da una band che sa decisamente il fatto suo. Mathew Houck aka Phosphorescent se n’è uscito con quello che è forse il suo miglior lavoro, Muchacho, ottima sintesi di tradizione e modernità, quindi con un occhio al classico ed uno al pubblico independente. Altro grandissimo lavoro è Dream River di Bill Callahan: l’uomo un tempo conosciuto come Smog, è tornato con un disco asciutto ma caldo, fatto di vivide ballate segnate dalla sua inconfondibile personalità e da un’autorevolezza qui al meglio della sua forma. Niente male anche il nuovo Kurt Vile, Wakin On A Pretty Daze, disco fluviale sempre in bilico tra scrittura classica e retaggio indie. Forse giusto solo un po’ monocorde, ma da sentire. Ancora più interessanti mi son sembrati due dischi usciti (forse) sul finire del 2012, ma di cui tutti hanno finito col parlarne nel 2013: Big Inner di Matthew E. White ci ha rivelato tutto il talento di un cantautore con molto da dire e decisamente originale, protagonista tra l’altro di un paio dei più bei momenti live vissuti quest’anno dal sottoscritto; le ballate tormentate di John Murry e del suo The Graceless Age sono uno dei passaggi obbligati di quest’annata, straordinarie per intensità, scrittura e sincerità, la classica situazione in cui la vita vera pare prendere forma sul pentagramma. Ben due i dischi di Mark Lanegan usciti nel 2013, ma mentre il Black Pudding fatto in coppia con Duke Garwood è un disco crudo, disossato e denso di nudo pathos, meno convincente è parso Imitations, secondo disco di covers della sua carriera, purtroppo del tutto privo della potenza di I’ll Take Care Of You e, in più d’un passaggio, piuttosto di maniera e un po’ bolso, quasi come quel jazz da salotto che viene ancora scambiato per musica. Nella migliore delle ipotesi, abbastanza inutile. Il nome è quello di una band, Willard Grant Conspiracy, ma si sa che è quasi interamente sempre stata faccenda del solo Robert Fisher: l’ultimo Ghost Republic è un disco scarno e forse per pochi, però è anche uno di quelli che, se opportunamente sintonizzati su malinconiche frequenze, capace di elargire magia pura. Tutti lo conoscevano quale uno dei più visionari ed originali registi degli ultimi trent’anni: da un po’ di tempo a questa parte, pare però sia diventata l’attività di musicista quella principale per David Lynch. The Big Dream è il suo secondo lavoro, un disco di blues mesmerico e sognante, ovviamente profondamente lynchiano nelle sue conturbanti movenze. Per quello che riguarda le voci femminili, è stata probabilmente Lisa Germano quella che ha allestito il disco più particolare dell’annata, No Elephants, album in cui il suo cantautorato intimo si palesa attraversa un suono minimale e un pizzico di intrigante lateralità. Altro nome che ha avuto un certo eco nel 2013 è stato quello di Julia Holter: il suo Loud City Song se ne sta in bilico tra carnalità e sonorità eteree, tra scampoli di reminiscenze 4AD, pop, qualche inserto cameristico ed un pizzico d’elettronica. Un nome che, per certi versi, potrebbe esserle affiancato è quello di Zola Jesus, il cui passato sperimentale ed underground si riverbera oggi nelle reinterpretazioni ben più pop e “classiche” di Versions. Ma sono altri i dischi da ricordare veramente: il definitivo ritorno a standard altissimi di Josephine Foster con I’m A Dreamer, la brillantezza di Personal Record di Eleanor Friedberger, l’intensa maturità della Laura Marling di Once I Was An Eagle, lo sfavillio di Pushin’ Against The Stone di Valerie June, le ruvidezze di Shannon Wright in In Film Sound, nonché quelle di Scout Niblett in It’s Up To Emma o, per contro, la dolcezza folk-pop delle esordienti Lily And Madeleine.

(PS devo sentire ancora in modo appropriato il nuovo Billy Bragg, di cui ho letto un gran bene; mentre da ciò che ho orecchiato, John Grant non fa proprio per me).

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BANDS

E’ sempre difficile essere categorici, ma la mia Palma di disco dell’anno se la beccano i Primal Scream di More Light, creativi e potenti come non gli capitava da tempo, calati nei nostri tempi tramite testi ultra politicizzati e musicalmente vari ed esaltanti. Un capolavoro! Politicizzati lo sono sempre stati anche gli svedesi The Knife, di ritorno quest’anno con un mastodontico triplo LP di elettronica livida, oscura ed ostica, che solo labili tracce del loro passato pop continua a mantenere. Disco coraggiosissimo, così come a suo modo coraggioso era il loro spettacolo “live”, di cui potete leggere le mie tutt’altro che entusiastiche impressioni qui sul blog. Livido, oscuro ed ostico sono ottimi aggettivi per un altro album amatissimo dell’anno appena trascorso, il visionario The Terror dei Flaming Lips, recentemente ancora nei negozi anche con l’EP Peace Sword, ennesima dimostrazione dell’inarrestabile stato di grazia della formazione americana. Stato di grazia che continuano ad avere anche i Low con The Invisible Way: è il loro disco più sereno, più arioso, in larga parte costruito sul pianoforte, un disco che non smette di perpetrare l’incanto tipico di buona parte della loro produzione. Non sono gli unici veterani ad aver fatto vedere belle cose: non male, anche se a mio parere inferiore alle loro ultime uscite, Change Becomes Us dei Wire, Re-Mit dei Fall, Fade degli Yo La Tengo, Vanishing Point dei Mudhoney e, soprattutto, Tres Cabrones firmato da dei Melvins in grandissima forma. Uno dei dischi più discussi è stato l’ultimo Arcade Fire, Reflektor: chi lo ha valutato quale capolavoro, ha dovuto scontrarsi con quanti l’hanno visto quale ciofeca inenarrabile. Io mi metto nel mezzo, nel senso che lo considero un album discreto, con qualche buona canzone, un paio ottime e un bel po’ di roba di grana un po’ grossa. Ammetto anche, però, di non avergli ancora dedicato la giusta attenzione, prendete quindi queste considerazioni per quello che sono, impressioni più che altro. Grande credito presso la critica hanno avuto pure AM degli Arctic Monkeys e Trouble Will Find Me dei National, due band che apprezzo ma per cui non stravedo. Non sono invece rimasto deluso dall’evoluzione e dai cambiamenti in casa Midlake: è vero, in Antiphon il prog è pericolosamente protagonista, ma l’insieme mi piace parecchio e, anzi, penso sia questo il miglior lavoro della band americana. Bello ed ambizioso anche l’ultimo Okkervil River, The Silver Gymnasium, così come da sentire è anche il disco di cover dei loro cugini Shearwater, Fellow Travellers. Come sempre di grande livello il ritorno dei Califone con Stitches, mentre il poco invidiabile primato di schifezza dell’anno se lo beccano senza esitazione i Pearl Jam: il loro Lightning Bolt non si può proprio sentire! Come sempre, grandi soddisfazioni arrivano dalle bands dedite alla psichedelia: dagli immensi Arbouretum di Coming Out Of The Fog ai Black Angels di Indigo Meadows, dalle molte incarnazioni di Ty Segall (Fuzz in testa) ai soliti ma sempre esaltanti Wooden Shijps, passando poi per Grim Tower, Dead Meadow e White Hills fra le tante cose sentite. Tra i gruppi più o meno nuovi, da non dimenticare New Moon  dei The Men, i debutti delle Savages, dei Rose Windows e degli Strypes, l’ottimo General Dome di Buke And Gase, Threace dei CAVE e il folle Make Memories dei Foot Village. Tra le cose, diciamo così, più sperimentali o comunque meno rock, l’immenso Colin Stetson di New History Warfare Vol.3 – To See More Light, le doppietta Fire!/Fire! Orchestra, (without noticing)/Exit!, All My Relations di Black Pus, i Boards Of Canada di Tomorrow’s Harvest, i Wolf Eyes di No Answer: Lower Floor, i Matmos di The Marriage Of True Minds e i Fuck Buttons di Slow Focus.

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ITALIANI

Nessun italiano in questa classifica? Eccoli qui! Per il sottoscritto il titolo italiano dell’anno è Aspettando I Barbari dei Massimo Volume, intenso, scuro e potente. Bellissimo come sempre il nuovo Cesare Basile (con un disco omonimo), così come anche Quintale dei Bachi Da Pietra, sorta di svolta “rock” per il duo. Ambiziosissimo, monumentale, straordinario, il nuovo Baustelle, Fantasma. Tra le altre cose da recuperare assolutamente, lo splendido esordio dei Blue Willa, il recente album di Saluti Da Saturno, Post Krieg di Simona Gretchen, Without dei There Will Be Blood, il nuovo Sparkle In Grey e Hazy Lights di Be My Delay.

WATERBOYS

RISTAMPE

Se possibile, escono ancora più ristampe e cofanetti retrospettivi che dischi nuovi. Questa sezione potrebbe pertanto essere la più lunga di tutte. Voglio però limitarmi a citarne solo due, perché sono state quelle per me più importanti e significative dell’annata. Non potrebbero essere più diverse l’una dall’altra e questa è un’altra cosa che mi stuzzica non poco. Inanzitutto il box in sei CD sulle session di Fisherman’s Blues dei Waterboys: Fisherman’s Box è uno scrigno colmo di tesori, un oggetto a cui tornare e ritornare più e più volte, con tanta di quella musica immensa dentro che quasi non ci si crede. A lui affianco la ristampa (rigorosamente in vinile) di ½ Gentlemen/Not Beasts degli Half Japanese, uno dei dischi più rumorosi, grezzi, folli, infantili, per molti versi agghiacciante dell’intera storia del rock. Per farla breve, un capolavoro!

Qui sotto i miei venti dischi dell’anno, in rigoroso ordine alfabetico. E’ tutto, buon 2014!

ARBOURETUM – COMING OUT OF THE FOG

BLACK ANGELS – INDIGO MEADOWS

BILL CALLAHAN – DREAM RIVER

NICK CAVE & THE BAD SEEDS – PUSH THE SKY AWAY

THE FLAMING LIPS – THE TERROR

FUZZ – FUZZ

LISA GERMANO – NO ELEPHANTS

ROY HARPER – MAN AND MYTH

GRANT HART – THE ARGUMENT

THE KNIFE – SHAKING THE HABITUAL

LOW – THE INVISIBLE WAY

MASSIMO VOLUME – ASPETTANDO I BARBARI

MAZZY STAR – SEASONS OF YOUR DAY

MELVINS – TRES CABRONES

JOHN MURRY – THE GRACELESS AGE

MY BLOODY VALENTINE – MBV

PHOSPHORESCENT – MUCHACHO

PRIMAL SCREAM – MORE LIGHT

MATTHEW E. WHITE – BIG INNER

JONATHAN WILSON – FANFARE

BOX SET: THE WATERBOYS – FISHERMAN’S BOX

REV REV REV “Rev Rev Rev”

REV REV REV

Rev Rev Rev

Autoproduzione

revrevrev

Sono italiani, di Modena, ma fortunatamente non si sente. Questi ragazzi hanno nel cuore e nell’anima lo shoegaze più duro e crudo, quello che ti bombarda le orecchie senza lasciarti respirare. Perché appena partono i liquidi rintocchi e le dilatate voci di PS_Cube ci si immerge in melodie fantasma che ipnotizzano e che non ti preparano all’abrasivo intervento della chitarra distorta che scompagina le carte. Con Honey Sticky Fingers si cambia registro e le atmosfere si fanno decisamente più cupe e claustrofobiche che finiscono in un delirio di riverberi, fuzz e distorsione. Gran pezzo davvero. Se la deriva è chiaramente quella di Jesus And Mary Chain, My Blody Valentine e la vecchia scuola new wave più sporca, il quartetto modenese sguazza a suo piacimento in questo marasma sonoro incontrando però anche le traiettorie più moderne calcate da gruppi quali A Place To Bury Strangers: Catching A Buzz e Wave Speech lo stanno a dimostrare chiaramente. Per i loro standard di decibel Moonlight Soundscape è quasi soft e Rip The Veil si può considerare una ballata, che però è completamente andata a male, malata, infarcita di chitarre acidissime che destabilizzano la, relativa, quiete. Palma come miglior pezzo dell’album a Blue And Red un elettro/rock che a un certo punto viene letteralmente spazzato via da un riff punk spurio che deflagra nelle orecchie. Un disco sorprendente, ed è bello che ancora ci si riesca a sorprendere ascoltando un disco di una band italiana, che per me era sconosciuta. Ora non più e se amate il genere dovreste perlomeno dare un ascolto anche voi, troverete pane per i vostri denti.

Daniele Ghiro

END OF THE ROAD 2013 – UN RACCONTO PER IMMAGINI

senza titolo-124Un po’ come abbiamo fatto per il Primavera Sound, vi raccontiamo qui l’edizione 2013 del bellissimo festival End Of The Road – si tiene nel Dorset, in Inghilterra, ogni anno alla fine di agosto – attraverso una galleria di immagini, rimandandovi ad un più completo report che apparirà sul prossimo Buscadero. Per il momento, buona visione quindi.

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Annie Eve

Annie Eve

Widowspeak

Widowspeak

Diana Jones

Diana Jones

Landshapes

Landshapes

Ralfe Band

Ralfe Band

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Pins

Pins

Pins

Pins

Pins

Pins

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Futur Primitif

Futur Primitif

Allo Darlin'

Allo Darlin’

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Doug Paisley

Doug Paisley

Serafina Steer

Serafina Steer

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Money

Money

Eels

Eels

Eels

Eels

Eels

Eels

Matthew E. White

Matthew E. White

Bob Lind

Bob Lind

David Byrne

David Byrne

St. Vincent

St. Vincent

Savages

Savages

Savages

Savages

King Khan & The Shrines

King Khan & The Shrines

Birthday Girl

Birthday Girl

Fossil Collective

Fossil Collective

Evening Hymns

Evening Hymns

Pokey La Farge

Pokey La Farge

Indians

Indians

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Night Beds

Night Beds

Dawes

Dawes

Dawes

Dawes

Angel Olsen

Angel Olsen

Angel Olsen

Angel Olsen

Leisure Society

Leisure Society

Leisure Society

Leisure Society

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Warpaint

Warpaint

Warpaint

Warpaint

Warpaint

Warpaint

Anna Von Hausswolff

Anna Von Hausswolff

Anna Von Hausswolff

Anna Von Hausswolff

Trembling Bells

Trembling Bells

Trembling Bells with Mike Heron

Trembling Bells with Mike Heron

Mike Heron

Mike Heron

Mike Heron

Mike Heron

Crocodiles

Crocodiles

Barr Brothers

Barr Brothers

Barr Brothers

Barr Brothers

Barr Brothers

Barr Brothers

Barr Brothers

Barr Brothers

Barr Brothers

Barr Brothers

Charlie Boyer & The Voyeurs

Charlie Boyer & The Voyeurs

Charlie Boyer & The Voyeurs

Charlie Boyer & The Voyeurs

Damien Jurado

Damien Jurado

William Tyler

William Tyler

Bo Ningen

Bo Ningen

Bo Ningen

Bo Ningen

Bo Ningen

Bo Ningen

Valerie June

Valerie June

Valerie June

Valerie June

Valerie June

Valerie June

Broken Twin

Broken Twin

Broken Twin

Broken Twin

John Murry

John Murry

John Murry

John Murry

Dinosaur Jr

Dinosaur Jr

Dinosaur Jr

Dinosaur Jr

Barr Brothers with Futur Primitif

Barr Brothers with Futur Primitif

Caitlin' Rose
Caitlin’ Rose

All photos © Lino Brunetti

Don’t use without permission

Primavera Sound 2013 – Un racconto per immagini

Primavera Sound - Parc del Forum

Testo e foto di Lino Brunetti

Per tutti gli appassionati di musica, quello col Primavera Sound di Barcellona, è un appuntamento annuale assolutamente da non perdere. Annunciato con lo slogan Best Festival Ever, il Primavera di quest’anno è stato un grandissimo successo sia di pubblico (oltre 170000 le presenze nei tre giorni a pagamento), che in termini di proposta musicale. Veramente tante le cose da ricordare: da un Nick Cave in forma smagliante ad un magico Mulatu Astatke, dall’atmosfera emozionante creata dai Dead Can Dance, all’intensità di gruppi come Neurosis o Swans, per arrivare alla grandezza di giovani songwriters come Matthew E. White o Phosphorescent o al divertimento assicurato da bands quali Goat, Metz o Thee Oh Sees. Un vero e proprio report sulla manifestazione, apparirà sul numero di luglio/agosto del Buscadero; qui, sarà essenzialmente attraverso una galleria fotografica che proveremo a raccontarvi i nostri giorni nella città catalana. Iniziando a contare fin da adesso i giorni che mancano al prossimo Primavera, di cui è già stato annunciato il primo nome: Neutral Milk Hotel! Appuntamento a Barcellona quindi, 29, 30 e 31 maggio 2014!!!!

Parc del Forum

Parc del Forum

Parc del Forum

Parc del Forum

Parc del Forum

Parc del Forum

Parc del Forum

Parc del Forum

The BotsThe Bots

Guards

Guards

The Vaccines

The Vaccines

The Breeders

The Breeders

Wild Nothing

Wild Nothing

Woods

Woods

Savages

Savages

Savages

Savages

Blue Willa

Blue Willa

Blue Willa

Blue Willa

Girl portrait

Girl portrait

Metz

Metz

Parc del Forum

Parc del Forum

Do Make Say Think

Do Make Say Think

Bob Mould (before the show)

Bob Mould (before the show)

Hot Snakes

Hot Snakes

Fucked Up

Fucked Up

Dead Skeletons

Dead Skeletons

Animal Collective

Animal Collective

Animal Collective

Animal Collective

Ethan Johns

Ethan Johns

Mulatu Astatke

Mulatu Astatke

Mulatu Astatke

Mulatu Astatke

Daniel Johnston

Daniel Johnston

Daniel Johnston

Daniel Johnston

Om

Om

Matthew E. White

Matthew E. White

Jesus & Mary Chain

Jesus & Mary Chain

Jesus & Mary Chain

Jesus & Mary Chain

Neurosis

Neurosis

Neurosis

Neurosis

Swans

Swans

Swans

Swans

Goat

Goat

Goat

Goat

Mount Eerie

Mount Eerie

Julia Chirka & Lauren Ashley Eriksson (Mount Eerie) - portrait

Julia Chirka & Lauren Ashley Eriksson (Mount Eerie) – portrait

Sea And Cake

Sea And Cake

Sea And Cake

Sea And Cake

Dead Can Dance

Dead Can Dance

Dead Can Dance

Dead Can Dance

Dead Can Dance

Dead Can Dance

Thee Oh Sees

Thee Oh Sees

Phosphorescent

Phosphorescent

Phosphorescent

Phosphorescent

Nella folla

Nella folla

Cayucas

Cayucas

Girls

Girls

Love is in the air

Love is in the air

il mitico Big Jeff

il mitico Big Jeff

Pubblico

Pubblico

Mac De Marco

Mac De Marco

The Orchids

The Orchids

Julie Doiron

Julie Doiron

Sr. Chinarro

Sr. Chinarro

Come

Come

All photos © Lino Brunetti

Don’t use without permission

BORIS “PRAPARAT”

BORIS

Praparat

Daymare Recordings

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Premessa: ascolto i Boris da tanto tempo, mi sono sempre piaciuti, come tanti altri gruppi, ma poi sono stato fulminato da un loro concerto, che mi ha preso per i capelli in un vortice senza fine al quale non ho opposto resistenza e dal quale sono stato catturato. Dal quel giorno per me i giapponesi sono diventati una band superiore. Sarà il fascino del Sol Levante, sarà una pizza mangiata fianco a fianco al Magnolia qualche anno fa, sarà un carisma che cola a secchi dalle loro figure, ma rimane il fatto che quando ascolto la loro musica entro in una dimensione parallela. La dimensione Boris. Che fino a qualche tempo fa era fatta di grezzi riff metallici, molto rumore e tanto altro, ma che negli ultimi anni ha conosciuto sterzate verso la psichedelia, il post rock, lo shoegaze ed anche il pop. Di conseguenza, all’uscita di un loro nuovo album, non sai mai cosa aspettarti dagli eclettici giapponesi e Praparat, uscito un po’ in sordina, si discosta nettamente dal loro precedente Attention Please, (in verità uscito in contemporanea con il più robusto Heavy Rocks II, con il quale Praparat ha più cose in comune). Però, al solito, non tutto è così facile da spiegare, perché la partenza viene per esempio affidata a December e sembra di aver messo su un disco dei Mogwai, tanto rarefatti e delicati sono i tocchi della chitarra. Ancora mi stò chiedendo cosa aspettarmi che la pesantezza tipicamente melvinsiana di Elegy irrompe negli speakers: riff scuro dai contorni sfumati, la voce di Takeshi che pare rubata ad un manga, dolce e sensuale, completamente fuori contesto, ma talmente centrata che l’accelerazione tremenda del finale mi coglie clamorosamente di sorpresa. Monologue, così come Mirano, sono post rock puro, con spruzzate melodiche intriganti dettate dalla chitarra solista mentre le campane a festa su un ritmo lentissimo e cadenzato creano l’effetto straniante e fuori dalle regole che caratterizza Method Of Error. I Boris attraversano i generi musicali e li infilzano a sangue di traverso, raccogliendone gocce e pezzi triturati per poi ricurcirli insieme: a volte sclerano e si immettono nella velocità supersonica della brevissima Perforated Line, altre si imbattono nella pianola stonata e mortuaria di un tristissimo circo (Castle In The Air). Ma poi ci sono anche le fiamme dell’inferno e sono quelle che lasciano di più il segno: Canvas è l’apocalisse infernale dal tremebondo attacco chitarristico, duro urticante, quasi immobile eppur squassante. Bataille Soure è un durissimo mid tempo dai tetri riff, grancassa spaccatimpani, frequenze basse e voci che sembrano provenire dall’oltretomba, un incubo semi industriale dei peggiori. Prendere o lasciare: tra questo brano e l’iniziale December apparentemente c’è un’abisso, ma i giapponesi hanno il dono del tocco divino e ogni singola nota, pur sembrando distante anni luce da quella precedente, viene richiamata all’ordine e condotta sotto lo stesso tetto, vale a dire quello di un grande gruppo che ancora non ha finito di sperimentare. Sperimentazione che ancora li rende ostici ai più, ma una volta trovata la chiave per entrare nel loro mondo vi troverete circondati da un caleidoscopio musicale che vi farà girare la testa.

Daniele Ghiro

SHINING “ONE ONE ONE”

SHINING

One One One

Indie Recordings

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Ormai da un decennio i norvegesi Shining imperversano nei circuiti alternativi con la loro particolare proposta musicale. E dopo aver scorrazzato sulle lame imperscrutabili dell’integralismo sonico indulgendo in dischi affascinanti ma che giocoforza accoglievano tra le loro braccia non certo orde di ammiratori, tanto la loro proposta era particolare, hanno deciso di sintetizzare e rendere fruibile ad un maggior numero di ascoltatori la propria musica. Non so quanto questo percorso sia stato frutto di pianificazione o di naturale evoluzione ma tant’è. Già il precedente Blackjazz lasciava presagire le aperture che puntualmente sono avvenute in questo tremendo e spettacolare One One One. Non abbiate paura però voi fans di vecchia data, gli Shining non sono finiti a fare musichetta per educande, hanno solo portato a termine il loro tortuoso peregrinare ponendo le basi per impostare una nuova fase della propria carriera. E lo hanno fatto con un album che prenderà per la gola molti aficionados della musica più estrema, smussando gli angoli più sperimentali e incanalando in un lotto di canzoni energiche la carica che li ha sempre contraddistinti. Sintomatica di quando vado dicendo è l’apertura superlativa di I Won’t Forget che, credeteci o meno, ha un piglio stoner/sludge, tirata, diretta, potente e melodica, e quasi non ti accorgi che è praticamente supportata dall’elettronica e quando sbuca l’assolo di sax si rimane a bocca aperta, ma si comprende che è una logica conseguenza del loro particolare approccio. E la struttura differente data dalla loro strumentazione particolare (ampio spazio a tastiere, elettronica e sax) donano un impatto diverso a brani quali The One Inside o Paint The Sky Black che altrimenti si potrebbero attribuire ai Dillinger Escape Plan. My Dying Drive è più elettronica, nervosa ed eclettica ma esplode in un ritornello pauroso. Rispetto a Blackjazz si ha un impatto più concreto e fisico, proprio sul lato pratico, meno sinfonici e sperimentali, ma il tutto va preso con le dovute molle perchè la struttura complessa di Off The Hook, fratturata ed incontrollabile contiene una grande prova della voce del fondatore Jorgen Munkeby, in un certo senso un brano melodico, ma anche quest’ultimo termine è sempre da rapportare a qual’è il loro standard di melodia. L’altro membro sempre presente è l’incredibile batterista Torstein Lofthus che marchia a sangue Blackjazz Rebel, devastante assalto sonoro di incredibile potenza. Poi Walk Away inietta linee vocali particolarmente intriganti su di un tappeto jazz/metal, The Hurting Game ha un sax di inusitata potenza che esplode in forzature noise su un tappeto tiratissimo. Avete ancora qualche stilla di energia da spendere? Il tremendo lamento del sax in apertura di How Your Story End chiama a raccolta tutti gli altri strumenti pur continuando a guidare una sinistra ed apocalittica rivolta. Possono risultare estremi, possono non piacere, possono essere criticabili per la loro eccessiva potenza, ma qua dentro non c’è un attimo di respiro, il loro è un’annichilente assalto che lascia le orecchie fumanti e per questo li amo un bel po’.

Daniele Ghiro

ZEUS! “Opera”

ZEUS!

Opera

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A poco più di due anni dall’omonimo esordio, tornano in azione gli ZEUS!, il duo composto dal bassista Luca Cavina (Calibro 35, Craxi, Incident On South Street) e dal batterista Paolo Mongardi (ex Jennifer Gentle, ora anche in Ronin, Fuzz Orchestra, FulKanelli ed al servizio di molti altri). Sono stati due anni intensi questi per i due, due anni passati a calcare palchi e a continuare a fare musica. Due anni che gli hanno permesso di far conoscere il loro nome anche fuori dai confini italiani, tanto che questo nuovo album, oltre che in Italia ed in Europa, sbarcherà pure negli Stati Uniti grazie alla Three One G di Justin Pearson (Locust, Swing Kids, Retox) ed alla distribuzione da parte di Rough Trade. In Opera, la cifra stilistica del duo non cambia rispetto all’esordio, procedendo piuttosto ad un più lucido affinamento. Nelle undici tracce qui contenute, il basso elettrico di Cavina trafigge coi suoi riff ed i suoi fraseggi metallici, mentre Mongardi dimostra ancora una volta di essere un batterista dalla potenza matematica. In bilico tra hardcore punk, metal e prog, i loro pezzi si stendono compressi ed intricati, violenti ed inarrestabili come Panzer, ma a loro modo raffinati per come sono costruiti in sezioni tutt’altro che semplici o figlie soltanto dell’aggressività. In qualche pezzo Cavina fa filtrare in filigrana la sua voce, che è più un urlo tra gli strumenti, in qualcuno appare un filo di tastiera, il theremin di Vincenzo Vasi o qualche noise ad opera di Nicola Ratti. In Sick And Destroy, il citato Justin Pearson dà sfogo ad una viscerale performance vocale, mentre memorabili sono i titoli di molti dei brani, vedi Lucy In The Sky With King Diamond, La Morte Young, Giorgio Gaslini Is Our Tom Araya, Bach To The Future o Blast But Not Liszt. E’ un disco, questo, che piacerà molto a tutti gli appassionati di musica estrema, a quelli che non hanno mai smesso di seguire tutto quanto sta tra gli Hella e le cose più potenti di John Zorn o Mike Patton. Bella anche la confezione e l’artwork curato da Mongardi e Carlotta Morelli, con gli insetti sul retro che, visto il titolo del disco, non possono che far venire in mente l’Opera di Dario Argento. Produzione, registrazione e missaggio di Tommaso Colliva, mastering dell’espertissimo James Plotkin.

Lino Brunetti