I Wrekmeister Harmonies sono un collettivo aperto guidato da JR Robinson (voce e chitarra) e dalla compagna Esther Shaw (tastiere, violino, voce), di volta in volta accompagnati da musicisti scelti per l’occasione. Per Light Falls, loro quinto album, hanno trovato la complicità di Thierry Amar e Sophie Trudeau dei GY!BE (basso e contrabbasso il primo; piano, violino e voce la seconda), del batterista Tim Herzog, con ulteriori comparsate da parte di Ryley Walker e di Cooper Crain dei Bitchin Bajas. Ispirato dalla lettura di “Se questo è un uomo” di Primo Levi – cosa che conferma la cultura dei due; lo stesso nome che si sono scelti, infatti, arriva dal titolo di un film di Béla Tarr – Light Falls suona come un disco di post-rock cameristico dai crescendo stoner/metallici. La presenza dei due GY!BE in questo senso si fa sentire: la componente solitamente aggressiva del duo qui si stempera in atmosfere maggiormente rarefatte e malinconiche (praticamente in quasi tutti i più o meno lunghi intro delle canzoni), poi ovviamente sottoposte al trattamento a base di distorsione e potenza delle seconde parti. La voce (quando c’è) è poco più che un recitato plumbeo, tanto che alla fine la sensazione che ti rimane incollata addosso è quella di aver ascoltato un disco completamente strumentale. Nell’insieme il tutto ha un fascino cinematico e visionario, avvolgente ed ammalliante. A voler essere sinceri, vi si riscontra anche un po’ di prevedibilità e una mancanza di autentica originalità. Diciamo che se, come me, siete fan terminali delle cose citate, un ascolto comunque se lo merita.
Brahim Izdag è il titolo del nuovo album degli Sparkle In Grey e prende il suo nome da quello dello sciatore marocchino che, nelle olimpiadi invernali di Albertville nel 1992, durante la sua gara cadde più volte, decidendo alla fine di non attraversare neppure la linea del traguardo. La sua figura viene presa a simbolo di coloro che non riescono a trovare il proprio posto nel campo in cui investono tutto se stessi e, allargando ulteriormente il campo, a tutti coloro che mostrano perseveranza, coraggio, resistenza. In un disco ancor più privo di steccati musicali del solito, gli Sparkle in Grey mettono in musica l’ennesimo attestato di coerenza politica, un messaggio ancor più forte e chiaro in quest’epoca di disperate migrazioni e riaccendersi di tensioni razziste e voglia di confini chiusi. In queste tracce, invece, i suoni del mondo vengono accolti senza fatica e inglobati tra le maglie post e sperimentali della formazione. In Samba Lombarda assistiamo al contrasto tra le percussioni e il lirisismo del violino, in un pezzo in cui la samba è giusto uno spettro tra le scansioni post-rock. Iurop Is A Madness è una cover di Linton Kwesi Johnson, con la voce del senegalese Zacharia Diatta intenta in un talking su una base inafferabilmente dub, percorsa da stilizzazioni psichedeliche. Non l’unica cover, visto che Gobbastan è un tradizionale uzbeko (bellissimo, con la musica ad assecondare i sottotitoli delle sue tre parti – arrival, unwelcome, cohabitation – all’inizio cupa ed elettrica, più aperta nel finale); Grey Riot è una trasfigurata e multietnica versione della White Riot dei Clash; Minka Minka è una canzone tradizionale ukraina (che ovviamente ci trasporta tra sonorità est-europee); mentre la There’s A Riot Goin’ On di Sly & The Family Stone è indicata nel booklet, ma è pudicamente assente dalla scaletta del disco. Stupendi comunque anche i pezzi autografi, da una Tripoli dal super malinconico mood; passando per una cinematica ed impressionista Song For Clair Patterson (lo scienziato che si batté per l’eliminazione del piombo tetraetile dai carburanti); per le affascinanti tre parti della title-track, poste a chiusura d’album. Ancora una volta grandissimi gli Sparkle in Grey che, in contemporanea all’uscita di questo disco, annunciano l’uscita del prossimo – che vedrà cambiamenti musicali e sarà intitolato Milano – e purtroppo, pare, anche la chiusura della Old Bicycle Records. I nostri migliori auguri al patron Vasco Viviani per quello che vorrà fare prossimamente.
Con quel suono scuro e nervoso, l’omonimo debutto dei Carnenera parrebbe il frutto della produzione di Steve Albini, invece è tutta opera del trio composto da Lorenzo Sempio alle chitarre, Luca Pissavini al basso e Carlo Garof alla batteria: nuova interessante realtà della scena undergorund italiana. Se i Carnerera abitassero in California o facessero parte del catalogo della Tee Pee Records, il loro debutto avrebbe probabilmente già ricevuto entusiastici riscontri in ambito internazionale, ma, con l’augurio che presto succeda, nell’assopito panorama italiano rimane cosa per quei pochi ancora alla ricerca di una voce fuori dal coro: tra questi figurano certamente i discografici della coraggiosa Sinusite Records, che lo scorso marzo hanno pubblicato un lavoro davvero particolare e forse a tratti plumbeo e spigoloso, ma di certo creativo, quando non proprio originale. In forma quasi esclusivamente strumentale, il trio fluttua tra oppiati mantra psichedelici, acide sparate hard, riflussi noise, pulsioni avanguardistiche e variazioni post-rock e progressive, sviluppando una musicalità dura ed esplosiva, a tratti densa e melmosa, a tratti selvaggia e furiosa, fino a raggiungere astratti scenari atmosferici e visionari. In queste fasi più spaziose e cinematografiche della musica dei Carnenera affiora il lato più lirico e affascinante del loro suono, quando brani come la splendida Twenty-One Thounsand Leagues o la lisergica William Wallace paiono suggerire una certa sintonia con le fumose cavalcate degli Earth, oppure quando le nebulose e lunari traiettorie di una grandiosa Self-Harm evocano le vulcaniche esplorazioni space-rock degli anni ’70. Seppur quasi interamente virato al nero, Carnenera è tuttavia un disco piuttosto vario in termini di atmosfere, che a partire dall’urgenza math-rock di Tilikum, passa attraverso le stonate allucinazioni soniche di una riverberata e bellissima William Blake; attraverso le fughe progressive di Duello; attraverso sabbatici mantra come l’ipnotica La Marcia dei Triceratopi, su cui aleggia la vocalità inquieta di Dalila Kayròs; fino a composizioni sospese tra avanguardia e psych-rock come Nine and Then Some e la cacofonica Tre Gatti, che paiono sfuggite al repertorio dei Naked City di John Zorn. Come gli americani Earthless, i Carnenera segnano l’evoluzione estrema della concezione di power-trio, portandola verso territori ancora oscuri ed inesplorati, almeno dalle nostre parti.
Dopo aver diffuso la sua musica attraverso cassette, vinili e i formati più disparati, il mascherato chitarrista ABOVE THE TREE – al secolo Marco Bernacchia da Senigallia – torna con un album che prosegue ed aggiorna il discorso del precedente Wild. Mentre quello era stato realizzato con la collaborazione di E-Side, stavolta Bernacchia collabora col DRUM ENSEMBLE DU BEAT, ovverosia Enrico “Mao” Bocchini alle percussioni e Edoardo Grisogani agli electronics. Quella approntata dai tre è una musica ipnotica e dai marcati accenti ritualistici. La struttura dei loro pezzi è più o meno sempre la stessa: la chitarra elettrica disegna liquide ed effettate figure reiterative dalle poche e minime variazioni, a volte utilizzando anche la registrazione multitraccia; la voce, quando c’è , è usata come ulteriore strumento musicale; gli strumenti di Bocchini e Grisogani creano un adeguato e pulsante tappeto ritmico, capace di tenere ancorato al terreno il sound tutto. Quello che ne viene fuori è una sorta di trance music dove si intrecciano suggestioni etno, estatici deliri psichedelici, fantasmatici rituali persi nel tempo, sprazzi di visionaria ambient e un pizzico di pulsazione dance. Bellissima la rarefatta e desertica Down Wind Song, abbellita dal banjo essiccato di Glauco Salvo, e limpida materializzazione di un crudele sole a picco sulle nostre teste; in People From The Cave s’insinua subdolamente il sax di Roberto Villa; Black Spirits evoca invece le danze rituali degli indiani d’America, andando a ripescare delle registrazioni pubblicate su cassetta nel 1972 dalla Canyon Records (Kyowa: forty-nine & round dance songs); End Of Era, aperta dal suono delle chitarre in reverse, grazie agli archi apportati da Nicola Manzan, assume toni più platealmente cinematici e, in piccola parte, post-rock. Col suo mood stonato, oppiaceo, fumoso e dai confini poco definiti, Cave_Manè senza dubbio un ascolto affascinante, l’ennesima brillante variazione sul concetto di psichedelia in questi psichedelissimi anni.
Per tutti gli appassionati di musica, quello col Primavera Sound di Barcellona, è un appuntamento annuale assolutamente da non perdere. Annunciato con lo slogan Best Festival Ever, il Primavera di quest’anno è stato un grandissimo successo sia di pubblico (oltre 170000 le presenze nei tre giorni a pagamento), che in termini di proposta musicale. Veramente tante le cose da ricordare: da un Nick Cave in forma smagliante ad un magico Mulatu Astatke, dall’atmosfera emozionante creata dai Dead Can Dance, all’intensità di gruppi come Neurosis o Swans, per arrivare alla grandezza di giovani songwriters come Matthew E. White o Phosphorescent o al divertimento assicurato da bands quali Goat, Metz o Thee Oh Sees. Un vero e proprio report sulla manifestazione, apparirà sul numero di luglio/agosto del Buscadero; qui, sarà essenzialmente attraverso una galleria fotografica che proveremo a raccontarvi i nostri giorni nella città catalana. Iniziando a contare fin da adesso i giorni che mancano al prossimo Primavera, di cui è già stato annunciato il primo nome: Neutral Milk Hotel! Appuntamento a Barcellona quindi, 29, 30 e 31 maggio 2014!!!!
Parc del Forum
Parc del Forum
Parc del Forum
Parc del Forum
The Bots
Guards
The Vaccines
The Breeders
Wild Nothing
Woods
Savages
Savages
Blue Willa
Blue Willa
Girl portrait
Metz
Parc del Forum
Do Make Say Think
Bob Mould (before the show)
Hot Snakes
Fucked Up
Dead Skeletons
Animal Collective
Animal Collective
Ethan Johns
Mulatu Astatke
Mulatu Astatke
Daniel Johnston
Daniel Johnston
Om
Matthew E. White
Jesus & Mary Chain
Jesus & Mary Chain
Neurosis
Neurosis
Swans
Swans
Goat
Goat
Mount Eerie
Julia Chirka & Lauren Ashley Eriksson (Mount Eerie) – portrait
I Light Bearer meritano più di una recensione. Mi scuso in anticipo per la lunghezza ma il gruppo merita di essere spiegato e merita di essere conosciuto, quindi partiamo da lontano e dai Fall Of Efrafa, cult band ormai defunta, nei quali militava Alex, personaggio poliedrico, scrittore, illustratore (sue sono le copertine della band) e non ultimo cantante. Gran gruppo dalle cui ceneri si genera una nuova entità, fatta però di sei distinti elementi che portano il proprio personale background all’interno della band. Quindi, ci tiene a ribadire il frontman, “Non è la mia band, non siamo la continuazione dei Fall Of Efrafa, siamo un gruppo amalgamato a tutti gli effetti, con altre cinque persone che stanno arricchendo e sviluppando la mia idea iniziale, vale a dire Matteo (chitarra, pianoforte, voce), Gerfried (basso, voce), Jamie (chitarra), Lee (soundscapes, voce), Joseph (batteria)”. Il concept che stà alla base del gruppo nasce dalla penna di Alex, che ha creato e sviluppato una storia in quattro atti, che saranno i prossimi dischi del gruppo: Lapsus, pubblicato due anni fa, Silver Tongue, uscito ora e poi i successivi Magisterium e Lattermost Sword. E’ già tutto pronto a livello di tematiche e di liriche, la musica intanto si adegua e si evolve, lasciando pian piano che si riveli ai nostri occhi una delle migliori realtà del post metal, in attesa di ulteriori sbandamenti. La storia parte da Lucifero (per tutti l’incarnazione del male, per loro la metafora della ricerca della conoscenza e della verità) e poi procede con Eva per andare in seguito a toccare il libro della Genesi, alla creazione della chiesa e soprattutto dell’oppressione religiosa, il tutto condito da citazioni e riferimenti ai lavori di Philip Pullman, al Paradiso Perduto di John Milton, alla Divina Commedia di Dante e alla mitologia persiana. Le tesi alla base del plot sono a mio giudizio affascinanti e da me condivisibili: perché ci sono più chiese che scuole? Perché chi è vessato dal potere invoca la misericordia di un Dio al posto di ribellarsi? Perché la scienza è ancora messa alla berlina in determinati ambienti affidandosi a dottrine che non hanno un benchè minimo contatto con la realta? I Light Bearer cercano di attaccare la religione sulla terra, ritenendola responsabile di molti misfatti, della rovina dell’umanità, cercando di rompere il dominio di una ideologia basata sull’odio, sulla paura e sulla superstizione. A tutto questo aggiungono di conseguenza tutte le relative vessazioni che queste ideologie hanno instillato nelle menti dei popoli: la demonizzazione delle donne e la loro riduzione a essere inferiore, il teismo assoluto, il razzismo, l’omofobia e si scagliano di conseguenza contro ogni forma di specismo. Senza se, senza ma. Ideologie che dovrebbero essere ormai abortite da secoli e che invece permangono forti nelle società di potere. Il riflesso di tutta questa ideologia sui loro album è evidente, i Light Bearer non scrivono semplici canzoni ma film musicali con una storia all’interno, preziose gemme di limpida musicalità che si frammentano in tragici movimenti di deprimente bellezza, superbe costruzioni armoniche destrutturate e polverizzate da tremendi assalti frontali. Già Lapsus aveva uno spessore notevole, ma Silver Tongue va incredibilmente oltre, polverizzando la bellezza del predecessore. A tutto questo devo aggiungere una nota puramente personale: lo scorso anno a Milano, davanti a non più di 30 persone, il gruppo ha sfornato un’esibizione impeccabile, come se di fronte ne avesse tremila, come se spazio e tempo non avessero nessuna logica, imperversando sul palco minuscolo del LO-FI come una grande band: le persone presenti saranno state anche poche ma sono state completamente convertite al loro volere e la missione del Portatore di Luce si potrebbe benissimo definire un succeso. Beautiful Is The Burden parte con archi che imperversano su sporcizia sonica di sottofondo e che si infrangono sul consueto muro di sludge melodico, epico, catartico. Una voce stupenda che nel growl riesce a dare un‘incredibile impronta musicale, ben supportata da chitarre che non si limitano ad un didascalico lavoro di costruzione e supporto bensì si danno duramente da fare, colpendo ai fianchi, infilando durissimi colpi alla figura che nella metafora della boxe lasciano completamente stremati. Sono passati diciassette minuti e mezzo e non me ne sono neanche accorto. Amalgam: atmosferico e tetro inizio, lampi, tuoni, chitarra acustica ed eruzioni che puntualmente si manifestano. Ritmi lenti e cadenzati, potentissimi, inframmezzati da sospensioni glaciali che non lasciano spazio alla speranza, letteralmente spazzata via dalla progressione finale. Matriarch è lenta, oscura, melmosa. Alex abbandona il growl e la voce si trasforma in tranquilla, limpida e melodica, la struttura compositiva è particolare, tempi sospesi che creano una sorta di mantra cupo che lascia intravvedere squarci dei Tool più lisergichi. Clarus è un intermezzo che ci introduce al meglio del disco che, incredibile davvero, deve ancora arrivare. I due pezzi finali sono la summa della loro musica, entrambi lunghi ed articolati, uno quasi dolce, l’altro ferocissimo. Una ritmica serrata e violenta introduce Agressor & Usurper, con quella voce che vomita violenza, melodie rarefatte e quasi assenti. Qui imperversano solo potenza pura, aggressione e usurpazione e anche gli archi che compaiono nel mezzo sono cupi e sinistri preludendo alla devastazione finale fatta di un crescendo ritmico e metallico da paura. Stremati da questo tour de force lungo diciassete minuti non possiamo prendere respiro perché incominciano i venti della title track. Un introduzione molto delicata, ma con inaspettate ed interessanti aperture meno compresse, quasi “gioiose” che vengono progressivamente sporcate dalle scorie della paura e della tensione nuda e cruda. Tensione che che raggiunge il climax e si manifesta dopo sette minuti e spiattella riff macinatutto ipercompressi, posizionando su differenti livelli liricità a profusione nella stupenda parte centrale che si libra alta su melodie affascinanti e strepitosi crescendo chitarristici degni di un gruppo post rock triturato da volumi indicibili. Poi la voce si fa normale e torna ad essere dolcissima su un tappeto di violino solitario, con gli echi post rock che si manifestano maggiormente, ma Alex ritorna ad essere cattivo, le chitarre riprendono corpo e si incendiano nuovamente. Un brano semplicemente fantastico, assolutamente il migliore che io abbia ascoltato quest’anno. Un concentrato supremo di Godspeed You! Black Emperor, Neurosis, sludge e hardcore. Il loro pregio è quello di non stancare, nonostante la lunghezza media dei brani elevata, non risultano essere prolissi nemmeno per un attimo. Ovvio che una certa dose di staticità è insita in questo tipo di proposta musicale, ma la voglia di renderla scorrevole e fruibile fa dei Light Bearer uno dei pesi massimi del genere. Affrontate con pazienza l’ascolto di questo disco, non è semplice, non è immediato, ma vi ripagherà alla grande del tempo che gli avrete dedicato.
Premessa: ascolto i Boris da tanto tempo, mi sono sempre piaciuti, come tanti altri gruppi, ma poi sono stato fulminato da un loro concerto, che mi ha preso per i capelli in un vortice senza fine al quale non ho opposto resistenza e dal quale sono stato catturato. Dal quel giorno per me i giapponesi sono diventati una band superiore. Sarà il fascino del Sol Levante, sarà una pizza mangiata fianco a fianco al Magnolia qualche anno fa, sarà un carisma che cola a secchi dalle loro figure, ma rimane il fatto che quando ascolto la loro musica entro in una dimensione parallela. La dimensione Boris. Che fino a qualche tempo fa era fatta di grezzi riff metallici, molto rumore e tanto altro, ma che negli ultimi anni ha conosciuto sterzate verso la psichedelia, il post rock, lo shoegaze ed anche il pop. Di conseguenza, all’uscita di un loro nuovo album, non sai mai cosa aspettarti dagli eclettici giapponesi e Praparat, uscito un po’ in sordina, si discosta nettamente dal loro precedente Attention Please, (in verità uscito in contemporanea con il più robusto Heavy Rocks II, con il quale Praparat ha più cose in comune). Però, al solito, non tutto è così facile da spiegare, perché la partenza viene per esempio affidata a December e sembra di aver messo su un disco dei Mogwai, tanto rarefatti e delicati sono i tocchi della chitarra. Ancora mi stò chiedendo cosa aspettarmi che la pesantezza tipicamente melvinsiana di Elegy irrompe negli speakers: riff scuro dai contorni sfumati, la voce di Takeshi che pare rubata ad un manga, dolce e sensuale, completamente fuori contesto, ma talmente centrata che l’accelerazione tremenda del finale mi coglie clamorosamente di sorpresa. Monologue, così come Mirano, sono post rock puro, con spruzzate melodiche intriganti dettate dalla chitarra solista mentre le campane a festa su un ritmo lentissimo e cadenzato creano l’effetto straniante e fuori dalle regole che caratterizza Method Of Error. I Boris attraversano i generi musicali e li infilzano a sangue di traverso, raccogliendone gocce e pezzi triturati per poi ricurcirli insieme: a volte sclerano e si immettono nella velocità supersonica della brevissima Perforated Line, altre si imbattono nella pianola stonata e mortuaria di un tristissimo circo (Castle In The Air). Ma poi ci sono anche le fiamme dell’inferno e sono quelle che lasciano di più il segno: Canvas è l’apocalisse infernale dal tremebondo attacco chitarristico, duro urticante, quasi immobile eppur squassante. Bataille Soure è un durissimo mid tempo dai tetri riff, grancassa spaccatimpani, frequenze basse e voci che sembrano provenire dall’oltretomba, un incubo semi industriale dei peggiori. Prendere o lasciare: tra questo brano e l’iniziale December apparentemente c’è un’abisso, ma i giapponesi hanno il dono del tocco divino e ogni singola nota, pur sembrando distante anni luce da quella precedente, viene richiamata all’ordine e condotta sotto lo stesso tetto, vale a dire quello di un grande gruppo che ancora non ha finito di sperimentare. Sperimentazione che ancora li rende ostici ai più, ma una volta trovata la chiave per entrare nel loro mondo vi troverete circondati da un caleidoscopio musicale che vi farà girare la testa.
A tre anni di distanza dal precedente lavoro, i marchigiani EDIBLE WOMAN,tornano con il loro quarto disco, ancora una volta prodotto da Mattia Coletti e registrato praticamente in presa diretta. Di tutti i loro album, questo è probabilmente il più ambizioso ed il più lucido nel propugnare una forma canzone complessa ed originale, ormai ben oltre le radici post-punk evidenti all’inizio di carriera. Lo dimostra subito una canzone tra pop e post-rock come Heavy Skull e ancora di più l’andamento ben poco lineare, con organo, chitarre e ritmi ad intrecciarsi sapidamente con la voce, di un pezzo art-rock come Safe And Sound. Anche i pezzi che seguono proseguono lungo questo tracciato: vedi il piglio chitarristico wave di Psychic Surgery, l’incalzare allucinato della pianistica A Hate Supreme, il feeling prog di una lunga e vibrante Cancer. Un mood progressive, forse pure troppo, è riscontrabile anche in Money For Gold, mentre Nation ha un tocco più stilizzato ed inquieto, con un battito minimale ed una chitarra dai risvolti quasi blues, sotto un cantato Joy Division. Tutto ad altissimi livelli il finale di programma: Call Of The West/Black Merda è magistralmente ipnotica e visionaria, con una coda chitarristica pregnante, The Action Whirlpool è una ballata psichedelica, graziata da l’innesto di una tromba, subito bissata da un’altra psych-ballad, quasi a là Flaming Lips, come Will. Davvero un’ottima prova per gli Edible Woman, questa.
Quartetto formato da membri di The Death Of Anna Karina, Nicker Hill Orchestra e Workout, gli ORNAMENTS si erano fatti conoscere attraverso l’attività live ed un demo venduto ai concerti, stampato in mille copie. L’esordio vero e proprio arriva oggi con Pneumologic, disco assai interessante, a partire dalla curatissima confezione in cartoncino e dallo splendido artwork di Luca Zampriolo. In quasi un’ora di durata, i quattro – coadiuvati da qualche ospite – danno vita a sette, mediamente lunghe composizioni, fatta eccezione che per due episodi, interamente strumentali. Partiamo da questi ultimi: in Breath, il cantato scuro ed affascinante di Silvia Donati, dona sfumature notturne e fumose, quasi mitteleuropee, al sound del quartetto. Diverso il contributo di Tommaso Garavini, autore anche del testo, in L’ora Del Corpo Spaccato, un urlo neurosisiano in bilico tra potenza e rabbia trattenuta. I restanti pezzi stanno tra pesanti reminiscenze post-rock – genere a cui gli Ornaments senza dubbio appartengono – e deviazioni pulsanti in odor di doom: le cavalcate elettriche post sono in prima linea in pezzi ipnotici come Pulse, Aer e Galeno – le ultime due vicine anche a certa epica Godspeed You! Black Emperor – mentre soprattutto in Pneuma le chitarre si inspessiscono riffeggiando metalliche e plumbee. Non è un suono inedito quello degli Ornaments, ma la materia la sanno maneggiare bene, tanto che Pneumologic si rivela un must per gli appassionati dei generi citati.
Il debutto dei livornesi PLATONICK DIVE ci pone di fronte al più tipico dei dilemma critici: un’opera va valutata semplicemente per la qualità della musica che contiene o, piuttosto, per come essa viene inserita in un quadro più ampio? E’ una domanda retorica, ovviamente, che però ci aiuta a parlare del contenuto di Therapeutic Portrait. L’apertura dell’album è affidata ad un brano intitolato Meet Me In The Forest: l’inizio è all’insegna di un’elettronica pulsante, fino a che non entrano in scena le chitarre e tutto si muove verso il più classico crescendo post-rock. In linea di massima, queste sono le coordinate su cui si muoverà tutto il loro lavoro, tra momenti di stasi seguiti alle classiche detonazioni chitarristiche, inframmezzate da diversi momenti in cui ha un maggior predominio qualche passaggio d’elettronica al confine con la glitch music. Il tutto è ben fatto e non si può dire che le tracce – una per tutte, l’ottima Wall Gazing – lascino indifferenti. Nello stesso tempo, però, l’ascoltatore più smaliziato (ma forse neanche tanto) non potrà che ricondurre quanto ascoltato, in quel dato passaggio ai Mogwai, in quell’altro agli Explosion In The Sky, in quell’altro ancora ai 65DaysOfStatic, e così via discorrendo. Mancano un po’ della capacità di sorprendere, per farla breve, le canzoni dei Platonick Dive, rendendo il loro album più che un film già visto, il classico esempio di “disco di genere”. Ben fatto, ribadisco, ma ancora troppo prevedibile nelle soluzioni adottate e troppo ligio alle “regole”.