THEE OH SEES “A Weird Exit” + “An Odd Entrances”

THEE OH SEES
A Weird Exits
An Odd Entrances
Castle Face

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Finalmente, a inizio autunno, è giunta alla pubblicazione discografica la versione dei Thee Oh Sees che da ormai oltre un paio d’anni sta infiammando i palchi di mezzo mondo, quella con doppia batteria (Ryan Moutinho e Dan Rincon), Tim Hellman dei Sic Alps al basso e, ovviamente, il leader maximo John Dwyer a voce e chitarra, che fino ad oggi (su disco) avevamo potuto sentire solo su Live In San Francisco. Chi ha assistito ad un loro concerto sa più o meno cosa aspettarsi: un turbinio sonico apparentato a quanto fatto da Ty Segall coi Fuzz (l’iniziale Dead Man’s Gun); una bomba di ritmo e rumore chitarristico tale da non lasciare il tempo di riprendersi (Ticklish Warrior); un tuffo all’interno del groove più esaltante in circolazione (Plastic Plant). A Weird Exit, un disco perfetto per entrare nel mondo di Dwyer, nel caso non lo abbiate mai fatto, non è però un album monodimensionale: Jammed Entrance è una jam strumentale di gusto krauto degno dei migliori Can; Gelatinous Cube è un hard garage punkettoso, scuro e incattivito; Unwrap The Fiend Pt. 2 un altro strumentale ossessivo e ipnotico. Quando poi nel finale – complice il ritorno di Brigid Dawson e di altri ospiti al violoncello – prende piede il lato più psichedelico e space (dapprima con una splendida ed onirica Crawl Out Into The Fall Out, poi con una memorabile The Axis, mood sixties, abbraccio tra organo e chitarra, un solo finale acido/rumorista) il cerchio definitivamente si chiude, mostrando le varie facce di una formazione straordinaria, molto più eclettica di quanto i torridi live potrebbero far pensare. Consigliata la versione in vinile, doppia, a 45 giri.

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Ma il 2016 dei Thee Oh Sees non si è fermato con A Weird Exit, visto che proprio a all’inizio di dicembre è uscito anche An Odd Entrances, disco, per esplicita ammissione dei diretti interessati, a quello complementare e legato a doppio filo. Stessa formazione e, probabilmente, provenienza dalle stesse session del disco precedente, per queste nuove canzoni. Le quali dimostrano, ancora una volta, che Dwyer sarà anche prolifico ed inarrestabile, ma che tutto quello che pubblica, di finire su disco se lo merita proprio. Così a noi non resta che gioire per l’ennesima volta con brani ficcanti quale You Will Find It Here, con una ballata soave e lisergica come la bella The Poem; con la psichedelia groovata e liquida di Jammed Exit; con l’insolito tropicalismo rock di At The End, On The Stairs; con le melodiche chitarre fuzzate dello strumentale Unwrap The Fiend Pt.1; con l’acid-rock krauto della lunga improvvisazione Nervous Tech (Nah John). Più rilassato e moody del suo compagno, An Odd Entrances è anch’esso consigliabile in vinile, visto che vi troverete dentro un brano in più su un 7” flexydisc trasparente. Bellissimi gli artwork di entrambi gli album, opera del grande disegnatore Robert Beatty. Nel genere, tra i dischi più belli dell’anno che sta per chiudersi.

Lino Brunetti

JESUS FRANCO & THE DROGAS “Damage Reduction”

JESUS FRANCO & THE DROGAS
Damage Reduction Ep
Bloody Sound Fucktory

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È solo un EP di quattro brani – ovviamente unicamente in vinile – Damage Reduction, ma si merita tutta la vostra attenzione, specie se siete fan del rock’n’roll più distorto ed abrasivo, quello di etichette come la In The Red per intenderci, nel cui catalogo farebbe una porchissima figura. Del resto, Jesus Franco & The Drogas non sono mica dei novellini e già col precedente Alien Peyote avevano dimostrato di essere un gruppo coi controcazzi, potentissimo, visionario il giusto, inoltre giustamente celebrato quale imperdibile live band. Questo EP pone un ponte con quanto fatto precedentemente ed inizia a mostrare le possibili evoluzioni. In particolare il lato A pare essere ancora più cattivo e convulso che al solito: la lunga 6025 si stende come un carrarmato sonico fatto di feedback, dissonanze chitarristiche, ipnosi ritmica, un muro del suono inscalfibile contro cui lottano le urla belluine di Sonny Alabama. Più o meno sulla stessa linea la più concisa Money (Won’t Change Me), nuovamente oscura ed ennesimo calcio in culo alle belle maniere. Il lato B, lungi dal rallentare, è però più in linea con il sound di Alien Peyote, e quindi dalle parti di un punk’n’roll anfetaminico, con qualche screziatura vagamente psych e un bel tocco di sempre sana ironia. Se il rock ha ancora ragione d’essere, il suo spirito non può che vivere che in pezzi come The Wrong Side Of El Paso e Austin. Ottimo lavoro ragazzi, ci si vede (spero presto) nei pressi di qualche palco.

Lino Brunetti

THE GREAT SAUNITES “Nero”

THE GREAT SAUNITES
Nero
Hypershape-Il Verso del Cinghiale-Hysm?-Neon Paralleli

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Un passo alla volta The Great Saunites, il duo lodigiano formato da Atros (bassi) e Leonard Layola (tamburi), continua nella ridefinizione della propria musica. Non che dagli esordi ad oggi siano cambiate le coordinate – che rimangono quelle di una heavy psichedelia con innesti stoner, kraut e space-rock, con punti di contatto con la musica degli Om – ma ogni disco ha saputo aggiungere un tassello in più, una nuova sfumatura di suono, ha evidenziato la voglia costante di continuare a sperimentare sulla propria essenza e sui propri moduli compositivi. Nero, che è il loro quarto album, è stato registrato, mixato e masterizzato da Riccardo “Rico” Gamondi di Uochi Toki e La Morte, personaggio che credo abbia dato al duo una mano nell’aggiungere quella che è la novità principale di questo nuovo lavoro, ovvero l’innesto di field recordings ed elettronica tra i loro tribalismi sonori. Sorta di unica suite divisa in tre parti, la musica di Nero consta infatti delle ipnotiche linee di basso e del tambureggiare della batteria, a cui s’aggiungono textures organiche di rumori d’ambiente, elettroniche infiltrazioni di suoni altri, messi a mò di completamento, ma pure di pausa e contrappunto allo srotolarsi ossessivo delle composizioni. Cangianti e fatti di pause e ripartenze i quasi 19 minuti della prima parte; attraversati da vibrazioni muezziniche i 9 della seconda; più concisi, duri e dritti al punto nella terza. Per i fan del genere, ma non solo, un bell’ascolto.

Lino Brunetti

GIÖBIA “Magnifier”

GIÖBIA
Magnifier
Sulatron

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Stefano Bazu Basurto (voce, chitarre, ouz, bouzouki, santhur, synth), Saffo Fontana (organo, Moog, voce), Paolo Dertji Basurto (basso) e Pianetgong (batteria e percussioni) sono i GIÖBIA, formazione milanese tra le veterane della scena psichedelica nazionale, anche se ormai dovremmo dire internazionale, visto che suonano regolarmente all’estero e i loro dischi sono da tempo pubblicati dalla tedesca Sulatron Records. Il loro nuovo album, Magnifier, non fa eccezione, è inscatolato in una splendida copertina psych-prog disegnata da Laura Giardino (autrice anche dei testi di alcuni brani) e rischia seriamente di manifestarsi quale il più potente, visionario e riuscito dei loro lavori. Il gorgo in cui ci risucchia fin dall’inizio This World Was Being Watched Closely, trova continuazione in una The Pond che farà impazzire tutti i fan dei White Hills; in una più ondivaga (e sabbathiana) The Stain; nelle allucinazioni space di Lentamente La Luce Svanirà, dalle più marcate striature seventies prog (grazie alle pennellate d’organo); nei riff heavy, comunque disciolti in acide drappeggiature lisergiche, di Devil’s Howl. È a questo punto che, a dare il definitivo colpo di grazia, arrivano i 15 pulsanti minuti di una Sun Spectre vero e proprio space trip in direzione dell’accecante bagliore solare, un groviglio di ipnosi e rilasci ambientali con cui spappolarsi le ultime sinapsi rimaste ancora in funzione. Meno oscura invece The Magnifier posta in chiusura, anche se sempre un prismatico rifrangersi di chitarre liquide, ritmi e tastiere. Noi questa navicella spaziale la prendiamo al volo, augurando anche a voi buon viaggio!

Lino Brunetti

CARNENERA “Carnenera”

CARNENERA
Carnenera
Sinusite Records

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Con quel suono scuro e nervoso, l’omonimo debutto dei Carnenera parrebbe il frutto della produzione di Steve Albini, invece è tutta opera del trio composto da Lorenzo Sempio alle chitarre, Luca Pissavini al basso e Carlo Garof alla batteria: nuova interessante realtà della scena undergorund italiana. Se i Carnerera abitassero in California o facessero parte del catalogo della Tee Pee Records, il loro debutto avrebbe probabilmente già ricevuto entusiastici riscontri in ambito internazionale, ma, con l’augurio che presto succeda, nell’assopito panorama italiano rimane cosa per quei pochi ancora alla ricerca di una voce fuori dal coro: tra questi figurano certamente i discografici della coraggiosa Sinusite Records, che lo scorso marzo hanno pubblicato un lavoro davvero particolare e forse a tratti plumbeo e spigoloso, ma di certo creativo, quando non proprio originale. In forma quasi esclusivamente strumentale, il trio fluttua tra oppiati mantra psichedelici, acide sparate hard, riflussi noise, pulsioni avanguardistiche e variazioni post-rock e progressive, sviluppando una musicalità dura ed esplosiva, a tratti densa e melmosa, a tratti selvaggia e furiosa, fino a raggiungere astratti scenari atmosferici e visionari. In queste fasi più spaziose e cinematografiche della musica dei Carnenera affiora il lato più lirico e affascinante del loro suono, quando brani come la splendida Twenty-One Thounsand Leagues o la lisergica William Wallace paiono suggerire una certa sintonia con le fumose cavalcate degli Earth, oppure quando le nebulose e lunari traiettorie di una grandiosa Self-Harm evocano le vulcaniche esplorazioni space-rock degli anni ’70. Seppur quasi interamente virato al nero, Carnenera è tuttavia un disco piuttosto vario in termini di atmosfere, che a partire dall’urgenza math-rock di Tilikum, passa attraverso le stonate allucinazioni soniche di una riverberata e bellissima William Blake; attraverso le fughe progressive di Duello; attraverso sabbatici mantra come l’ipnotica La Marcia dei Triceratopi, su cui aleggia la vocalità inquieta di Dalila Kayròs; fino a composizioni sospese tra avanguardia e psych-rock come Nine and Then Some e la cacofonica Tre Gatti, che paiono sfuggite al repertorio dei Naked City di John Zorn. Come gli americani Earthless, i Carnenera segnano l’evoluzione estrema della concezione di power-trio, portandola verso territori ancora oscuri ed inesplorati, almeno dalle nostre parti.

Luca Salmini

MONTE NERO “Chrome EP”

MONTE NERO
Chrome EP
Goddess/Audioglobe

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Progetto composto da membri di altri gruppi della scena bergamasca (Gea, Spread, In The Howling Storm), i MONTE NERO esordiscono con Chrome EP, un mini album che è un ottimo biglietto da visita per far conoscere la loro idea di heavy sound. Sei brani chitarristici e potenti, compatti nel loro esplorare stoner (Green Stoned) e psichedelia hard memore del grunge (Blue Cyanide), in grado di spazzolare le orecchie con martellamenti strumentali (In Death Of Mr. Brown) o di diversificare con l’inserimento di elementi alieni (la parte flamencata dell’altro brano strumentale, Yellowsy), di essere lirici e fumosi (Schwarz) o di flirtare con la melodia (Purple, il pezzo che mi piace meno). Anche se non sempre originalissimi, se questo è il vostro genere, l’ascolto è consigliato. Quello che fanno, lo fanno già con grande autorevolezza.

Lino Brunetti

PLUNK EXTEND “Prisma”

PLUNK EXTEND
Prisma
QB Music

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Nonostante una durata di poco più di venti minuti, i PLUNK EXTEND, una band comunque attiva fin dal 2006, considerano Prisma il loro vero e proprio disco d’esordio. Il loro rock in italiano poggia essenzialmente su tre gambe: su una di esse risiede il cuore del loro songwriting, che più d’una parentela ha col cantautorato, sia classico che moderno (a tal proposito qui il pezzo da analizzare è Bianco, ma indicativi sono anche i testi, originali e non sempre immediati e facili); sulla seconda c’è la loro capacità di prendere questo tipo di scrittura solida e matura e di alleggerirla con melodie pop, in modo da virare le loro canzoni in qualcosa di sempre inequivocabilmente pimpante e caleidoscopico, anche nei momenti in cui parrebbe farsi largo un pizzico d’introspezione; sulla terza gamba c’è il loro suono, epico, colmo di sonorità piene e luccicose, un attimo vibranti e spesse, quello dopo liquide e sognanti, rock verrebbe da dire, ma in un’accezione comunque non troppo ligia ai confini. Di tutti gli aspetti del loro far musica è alla fine quello pop quello che rimane più impresso. E se di pop-rock italiano non siete mai sazi, c’è in giro una nuova band che qualcosa da dirvi ce l’ha.

Lino Brunetti

DEAD BOUQUET “As Far As I Know”

DEAD BOUQUET
As Far As I Know
Seahorse/Audioglobe

Cover album As Far As I Know

Ad attirare come prima cosa verso l’esordio dei romani DEAD BOUQUET è il nome del produttore del disco, quel Paul Kimble che fu bassista e produttore dei mitici Grant Lee Buffalo, band oggi forse un po’ troppo ingiustamente dimenticata, ma tra le migliori venute fuori dagli Stati Uniti negli anni ’90. Sarebbe però ingiusto fermarsi lì perché, sia pur con qualcosa ancora da rivedere, il disco con cui il duo formato da Carlo Mazzoli (voce e chitarra acustica a 12 corde) e Daniele Toti (basso) – a cui va qui aggiunto il contributo del batterista Fabio De Angelis e di Kimble stesso – ha deciso di presentarsi al mondo, li segnala quale band di sicuro interesse e indirizzata sul sentiero giusto. In As Far As I Know, i Dead Bouquet si fanno portavoci di una canzone rock cantautorale dai continui echi folk e psichedelici, a tratti oscura e gotica, attraversata da stilizzate esplosioni elettriche. Ascoltando queste tredici canzoni, i nomi che vengono alla mente sono quelli dei Grant Lee Buffalo stessi (ovviamente), dei Gun Club, di Wovenhand. Riferimenti altissimi insomma, che i Dead Bouquet riescono ad onorare con una certa sicurezza. Sia pur senza effetti speciali – il songwriting è buono ma si può e deve fare di meglio, non foss’altro che per uscire dall’ombra dei riferimenti – non sono poche le canzoni che rimangono in mente, dalle ottime Barking At My Gate e Haven’t You Said It?, per arrivare alla lancinante Stories con cui l’album si chiude. Differenziando maggiormente i vari pezzi ed imprimendo una maggiore personalità alle loro sonorità, potrebbero farci vedere grandi cose. Per il momento, comunque, va bene anche così.

Lino Brunetti

EVA’S MILK “Eva’s Milk”

EVA’S MILK

Eva’s Milk

Fuego Records

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Novaresi, cantano in italiano e sono al terzo disco per questa label tedesca, imperscrutabili viaggi tortuosi del music business. Ma poco importa il contorno quando nella musica c’è la sostanza, che agli Eva’s Milk non fa certo difetto. Se li conoscete già, magari con il precedente Zorn, vi dico subito che le cose in questo nuovo lavoro sono decisamente cambiate. Basta ascoltare la prima canzone, Pendulum, per rendersi immediatamente conto di qualcosa di diverso in questa ballata dal sapore western, un’apertura certo non usuale per chi ci ha abituato a ben altri volumi e pesantezze. Niente di cui preoccuparsi, la canzona è bellissima e poi l’ipnotico martellamento percussivo della seguente Io Odio i Rockets rimette in pista la consueta carica stoner grunge. Ma dopo Patti Coi Luciferi (ancora dolcemente sospesa tra tradizione psichedelica americana e la canzone d’autore) e Consolamentum (nuovamente dura e melvinsiana) si ha quasi la certezza che i tre si sono spostati su un territorio musicale di più ampio respiro e in grado di dare loro maggiore libertà d’espressione. La scelta dell’autoproduzione va sicuramente in questa direzione ma attenzione: il mastering è di un guru di Seattle, Chris Hanzsek, che ha lavorato con il meglio della scena alternativa di quella città. Justine è delicata ma con un super ritornello che esplode violento e melodico, Il mare sordo viaggia su territori più pop, Toy Boy e L’Orrore si veste sottile martellano tra noise e punk vecchia scuola. Doombooh è guarda caso un doom lento e melmoso che viene stemperato dalla tranquilla Fontanelle e poi chiudono la confezione con Lì è il domani, nervosamente sospesa tra delicatezze acustiche e fragorosi crescendo. Di certo una strada non semplice quella intrapresa dal terzetto, cioè quella di una chiara intenzione di diversificare ed ampliare il proprio repertorio. Ma il bello sta proprio qui, quando ci si evolve senza snaturare la propria essenza è un gran bel colpo e gli Eva’s Milk ci sono riusciti alla grandissima.

Daniele Ghiro

KALI YUGA “KY”

KALI YUGA

KY

800A Records/Audioglobe

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Nati a Palermo agli inizi degli anni ’90, riappaiono come dal nulla i KALI YUGA, formazione dalle ruvide sonorità tra stoner ed hardcore che chi seguiva le vicende del rock italiano nei nineties forse ricorderà. Proprio alla fine di quel decennio decidevano di sciogliersi, dopo aver dato alle stampe un CD per Vacation House, The Underwater Snake Is Waiting, un 7” in tandem con i One Dimensional Man, ed aver lasciato un segno indelebile nella memoria di chi li aveva visti dal vivo grazie alle loro infuocate esibizioni live. Un paio d’anni fa, uno special radiofonico dedicatogli dal musicista/produttore Marco Monterosso e la presentazione del libro “Palermo al tempo del vinile” li riportava letteralmente in vita. Agli storici Bizio Rizzo (voce e chitarra), Giancarlo Pirrone (chitarra) e Fabrizio Vittorietti (bassista della band nel triennio ‘97/’99), si aggiunge oggi il nuovo batterista Alessandro Guccione e, dopo aver dato alle stampe il ghost album Stoned Without The Sun, tornano nei negozi con un vero e proprio nuovo disco, KY, disponibile solo in vinile 12” o in digitale. Ed è davvero un bel sentire, nessun dubbio in proposito. Contenente otto canzoni inedite scritte lungo l’arco di vent’anni, l’album si riallaccia alle ultime fasi di carriera prima dello scioglimento, ma pure segna una decisa ripartenza con nuove prospettive e nuove energie messe in campo. Rispetto al passato, i Kali Yuga di oggi sono decisamente più melodici e “pop”, meno ottundenti e più propensi ad offrire una più ampia gamma di sensazioni sonore. Non che il loro sound non rimanga ruvido e colmo di riff ed affondi chitarristici distorti ma, complice pure l’espressività vocale di Rizzo, molti dei pezzi trovano il loro quid nella brillantezza delle melodie. A completare il quadro, ci pensano poi le canzoni, classiche nel loro aderire sostanzialmente a stilemi anni ’90, ma sempre personali e, quel che più conta, ottimamente scritte. 9:04 (Here She Comes) pare un mix loureediano/bowiano in salsa Dinosaur Jr; B Love S prende le forme di una ballata tardo grunge dalle ampie striature psichedeliche; The World Outside sta in bilico tra i riff di chitarra di Pirrone e la sostanza melodica delle parte vocale; lo stesso si può dire di Where I Used To Go, la cui ariosità melodica, vagamente velata di dolce malinconia, fa pensare alle pagine migliori dei Nada Surf. Picchiano senza requie Idols e Drunk’n’Sad, la prima tramite un fulgido hard-rock’n’roll stradaiolo, la seconda tornando a frequentare i lidi stoner, sia pur più QOTSA che Kyuss. So Are You, con la sua melodia strascicata, non poco ricorda gli Strokes del primo album, mentre la conclusione è affidata alla lunga e visionaria Siren (Fuck Like A Motorpsycho), oscillante tra martellanti attacchi al fulmicotone e più lisergici ed ossessivi passaggi (la band norvegese citata nel titolo è ben più che un indizio). Un ottimo rientro in pista, che contiamo di festeggiare ulteriormente cercando di intercettarli in concerto al più presto.

Lino Brunetti