CULTURA TRES “Camino De Brujos”

CULTURA TRES
Camino De Brujos
AJM/Bloodblast

Già una decina di anni fa i due fratelli chitarristi Alejandro e Juanma Montoya, nella piccola città di Maracay, Venezuela, avevano cominciato a suonare insieme, in maniera totalmente indipendente e senza nessun contratto pubblicando musica che li fece conoscere e che li spedì in tour pur non avendo nessun supporto alle spalle. Problemi finanziari (comprensibili) e tragedie personali portarono il duo ad accantonare i Cultura Tres e il loro sludge metal. Poi nel 2019 la svolta: Paulo Xisto Pinto Jr. (bassista dei Sepultura) ha offerto la sua collaborazione e con il reclutamento di Jerry Vergara Cevallos (batterista colombiano/venezuelano) il quartetto si è costituito per dare alle stampe il loro debutto. Ci sono voluti tre anni di pandemia ma alla fine il disco viene finalmente pubblicato ed è una piacevole sorpresa. Lo sludge iniziale si è trasformato, deviando con energia nel post hardcore e subendo rallentamenti che si avvicinano al doom. Una dicotomia ben controllata e fresca, le canzoni escono con naturale scioltezza, pesanti ma molto musicali, ricordando a tratti i Sepultura (The World and Its Lies per esempio si avvicina molto a Roots Bloody Roots) e a volte addirittura i Fear Factory, per via di quella scansione ritmica dall’aria un po’ industriale che ne caratterizza alcuni momenti. Non un capolavoro assoluto ma sicuramente un ascolto piacevole nel mezzo di un genere che nonostante qualche gemma mostra inevitabilmente un po’ la corda. I Cultura Tres ne risollevano con fierezza le sorti, portando le stigmate del passato verso nuovi orizzonti. (Daniele Ghiro)

GRADE 2 “Grade 2”

GRADE 2
Grade 2
Hellcat/Epitaph

I punk rockers britannici nativi dell’Isola di Wight hanno via via affinato le armi attraverso tre dischi in continua evoluzione ed ora il loro quarto omonimo album è la sintesi perfetta del percorso fatto fino a questo momento. Fresco, frizzante, potente e divertente, tutto quello che dovrebbe essere un disco di punk suonato ai giorni nostri perchè una canzone quale Under The Streetlight è veramente da un po’ di tempo che non l’ascoltavo, con quell’attacco oi!, con quel tiro militante e con un ritornello pazzesco da cantare a squarciagola (guardatevi il video qua sotto e ditemi se non vi viene voglia di uscire e di andare in quel club a divertirvi). Di certo la collaborazione con Tim Armstrong (Rancid) e la sua Hellcat ha dato linfa ska punk al gruppo e seppur le affinità possono essere evidenti lo sono solo in alcuni brani (It’s A Mad World, Baby) perchè i Grade 2 camminano, eccome, con le proprie gambe. Fast Pace ha sfumature glam rock (ma è un hammond quello che si sente qui dentro?), Doesn’t Matter Much Now See You Around sono confezionate in maniera sublime, veloci ed urticanti ma con una melodia pazzesca che ti si pianta in testa immediatamente, frutto di una ricerca e costruzione nei cori quasi maniacale e sempre ben riuscita. Poi quando si avvicinano all’hardcore (Gaslight) sono una macchina da guerra devastante. C’è ancora luce per il genere quando l’approccio è di questo tipo, un disco che si piazza inevitabilmente già tra le migliori uscite dell’anno. (Daniele Ghiro)

FAKE NAMES “Expendables”

FAKE NAMES
Expendables
Epitaph Records

Se approcci l’ascolto di un secondo disco (dopo un ottimo primo) di una band che vede tra le sue fila Brian Baker (Minor Threat, Bad Religion, Dag Nasty), Michael Hampton (Embrace), Dennis Lyxzén (Refused, The [International] Noise Conspiracy), Johnny Temple (Girls Against Boys) e ora anche l’aggiunta addirittura di Brendan Canty(Fugazi) ti aspetti qualcosa di importante, ti aspetti un bel botto. E invece, lo dico subito, l’album rimane a metà, quasi trattenuto nell’esplosività, con una sensazione di incompiutezza che prevale sulla parte (che c’è) interessante e ben confezionata. Partiamo dalle note positive: Expendables Damage Done sono due schegge in puro stile Bad Religion che fanno scapocciare senza problemi, un territorio nel quale la band si muove a proprio agio, così come nella trascinante Targets che è un infuocato punk rock’n’roll. Purtroppo però il focus è che le melodie non sono sviluppate come ci avevano abituato (vedi il loro debutto) e il risultato è che Don’t Blame Yourself, ad esempio, potrebbe essere qualcosa di interessante ma alla fine, per qualche motivo, non lo è proprio, Can’t Take It fallisce completamente il bersaglio sperperando nello svolgimento un attacco interessante, Go è easy punk con poca verve. Poi la parte finale del disco vira decisamente sul lato più pop, Madtown è un sincopato rock dalle reminiscenze country elettriche, Caught In Between è una ballatona elettrica di rock tradizionale che non sfonda e Too Little Too Late ci saluta debolmente, pur avendo dentro di sè tutte le potenzialità per essere accattivante. Sia chiaro, i ragazzi (ehm..) sanno suonare e non lo scopriamo certo oggi ma sembra quasi che i Fake Names abbiano realizzato questa uscita con il freno a mano tirato, come se qualcosa in fase di registrazione gli sia rimasto in canna e per una formazione del genere è un difetto poco perdonabile. (Daniele Ghiro)

ROGOREDOFS “Retrovie Dello Stato”

RogoredoFS
Retrovie Dello Stato
Autoprodotto

I RogoredoFS nascono nel 2017 nell’omonima stazione della ferrovia milanese, punto di incontro tra il frontman Armando, il tastierista Jacopo, il chitarrista Nicholas, il bassista Riccardo e il batterista Andrea. Non tutti di Milano si spalmano anche sull’asse Pavia/Lodi e decidono di pubblicare alcuni singoli tra il 2020 e 2021 (supportati live) che a fine 2022 si trasformano in questo EP. Già il titolo è interessante e i giochi di parole non finiscono qui perchè, componente molto interessante del gruppo, sono dei testi molto belli e ben costruiti. Se avete dimestichezza con il luogo (Rogoredo e il suo “boschetto”) saprete che è tristemente famoso per essere un degradato luogo di prostituzione e droga: Narcan lo descrive brutalmente: Piangi e sbocchi l’anima/Ma io ti salverò/Stai attenta ai venditori di amore eterno/Resti in coda col tuo viso devastato/Sono entrato nel boschetto e il mio collo s’è allungato, su una base di ballata rock dove i fantasmi degli Afterhours la fanno da padrone. Non sono particolarmente spigolosi e prediligono muoversi su territori introspettivi (Pappagalli, Soporoso), sanno anche essere più energici (Psicosociale) e sono anche in grado di confezionare un’autentica perla con Mercanti, ballata di ampio respiro. Buon debutto, attendiamo riscontri successivi. (Daniele Ghiro)

INDIGO SPARKE “Hysteria”

Indigo Sparke
Hysteria

Sacred Bones Records

Per farsi largo nel music business, un peso sul cuore (come canta in Pressure In My Chest) e una testa piena di canzoni (ce ne sono ben 14 nel suo secondo album Hysteria) possono anche bastare, ma per raggiungere il successo servono talento, fascino, carisma, trovarsi nel posto giusto al momento giusto, una casa discografica che ci creda, i musicisti all’altezza, un produttore capace di interpretare quello che gira nell’aria e soprattutto il fatidico colpo di fortuna, che al momento è l’unica cosa che manca alla giovane cantautrice Indigo Sparke.

Trovare la propria strada non è stato del tutto semplice, perché a Sydney in Australia dove è nata, Indigo Sparke ha cominciato recitando come attrice, ma le sono bastati un paio di EP per ritrovarsi in tour come supporto dei Big Thief, un’esperienza che le ha fatto capire quale fosse il suo posto, l’ha spinta a trasferirsi a New York (quale luogo migliore per chi nutre sogni di rock’n’roll?) e l’ha portata al contratto con la statunitense Sacred Bones Records, che lo scorso anno ha pubblicato il debutto Echo, prodotto da Adrianne Lenker e Andrew Sarlo, e che oggi le da fiducia stampando il nuovo Hysteria, realizzato grazie ai contributi di Aaron Dessner dei The National in veste di produttore e musicista.

Non c’é dubbio che la fanciulla sia dotata di un certo buon gusto per quanto riguarda i produttori e anche la scelta dei musicisti lascia presagire che abbia le idee piuttosto chiare, dato che ad accompagnarla in Hysteria ci sono il chitarrista straordinario Shahzad Ismaily (basta ascoltare uno degli ultimi album di Sam Amidon per intuire le ragioni dell’aggettivo) e il batterista Matt Barrick (dei The Walkmen e Muzz), che scontornano le canzoni con tenui sfumature acustiche o incisivi movimenti elettrici assecondando l’alternanza di luci e ombre che riempie i testi.

A giudicare dalle tematiche delle canzoni che secondo la cartella stampa trattano di “...amore, perdita, la sua storia e il disordine emotivo che circonda quelle sensazioni…”, Indigo Sparke si direbbe una folksinger tutta intimismo e intensità e del resto è più o meno l’impressione che suscitano ballate in punta di dita come la romantica Pluto, i sospiri seducenti di confidenze elettroacustiche come l’incantevole Real, il cosmico folk della lirica titletrack o la malinconia di serenate dall’aura country come la splendida Sad Is Love, ma come ha dichiarato Aaron Dessner fin dalla prima volta che ha ascoltato questi brani, “…c’è già così tanto qui dentro…” che è difficile trovare punti di riferimento, se non quando i graffi della chitarra in orbita lo-fi di Blue evocano magari da lontano i malumori della prima PJ Harvey o quando la vaga fragranza pop di Pressure In My Chest e il tenore elettrico di God Is A Woman’s Name fanno venire in mente l’ispirazione di cantautrici come Angel Olsen o The Weather Station.

Impossibile non essere abbastanza d’accordo con Dessner, quando ragionando su Hysteria lo descrive come “…coeso, senza tempo e ispirato in un modo che so che continuerò a riascoltare…”, perché è difficile pensarla altrimenti quando partono l’urgenza emotiva e la livida ruvidezza indie di Hold On, l’ariosa spinta folk rock di Set Your Fire On Me, il circuitare elettroacustico di una meravigliosa Infinity Honey, la mestizia folkie di Why Do You Lie?, lo sferragliare alternative di Golden Ribbons o la sensualità di ballate da plenilunio come Time Gets Eaten.

Forse a breve Indigo Sparke diventerà la nuova voce di una generazione al pari delle artiste citate sopra o magari tirerà a campare come tante altre in attesa che qualcosa succeda, anche se a giudicare dalla bellezza di Hysteria si direbbe stia accadendo proprio qui e ora.

Luca Salmini

SKULLCRUSHER “Quiet The Room”

Skullcrusher
Quiet The Room

Secretly Canadian Records

Difficile credere che nel pieno dei vent’anni, già ci si possa ritrovare a rimuginare sul passato piuttosto che fantasticare sul futuro, ma forse succede quando si hanno delle canzoni da scrivere come la giovane cantautrice Helen Ballentine in arte Skullcrusher, che negli ultimi tempi non ha fatto altro che mettere insieme le memorie e le sensazioni della propria infanzia “...attraverso un’ondata di emozioni: rabbia, tristezza, pietà, confusione, il tutto cercando una sorta di compassione e ho provato a catturare le contraddizioni che compongono il mio passato per definire chi sono ora…”.

In realtà, non è la prima volta che Helen Ballentine mostra un comportamento piuttosto precoce rispetto alla media, dato che all’età di soli 5 anni comincia a suonare il piano e ha da poco concluso l’università, quando di punto in bianco abbandona la stabilità di un lavoro presso una galleria d’arte per dedicarsi alla musica a tempo pieno: le prime canzoni arrivano nel 2019 e nei due anni successivi escono un paio di EP e altrettanti singoli, inclusa una Song For Nick Drake, che lascia intendere quale sia il verso della sua musica.

In generale, la si direbbe una folksinger sensibile e introspettiva, ma, più che raccontare delle storie, il songwriting di Skullcrusher sembra mettere insieme i pezzi, che si tratti di frammenti di emozioni, di sentimenti inespressi, di lampi d’immaginazione, di solitarie note di pianoforte, di arpeggi di chitarra, del rollio di un banjo, d’interferenze d’elettronica o di campionamenti. “…È come strati di carta velina, come se qualcuno provasse a fare un disegno e si riuscisse a intravedere l’intero processo…” dichiara l’autrice riguardo il suo metodo compositivo e deve essere con questo sistema che ha realizzato il debutto Quiet The Room con l’aiuto del multistrumentista Noah Weinman e del produttore Andrew Sarlo presso il Chicken Shack studio, non lontano dai luoghi della sua infanzia che riaffiorano nelle canzoni.

Sospeso tra i momenti più effimeri dei Big Thief e le atmosfere di un disco come For Emma, Forever Ago dei Bon Iver, Quiet The Room è un lavoro basico e dal tono confessionale, fatto dei sussurri di rarefatte ballate d’ispirazione folk dai tratti malinconici e a volte addirittura spettrali, che il giornalista Marc Beaumont del The Guardian descrive come “…inni alt-folk splendidamente diafani infestati dagli evanescenti fantasmi di piano e chitarre acustiche affogati molti anni fa in una laguna del Laurel Canyon…”.

Dal senso di malinconia che lo pervade, si direbbe che Quiet The Room nasca da un qualche dolore che tormenta l’animo sensibile dell’autrice e che la musicalità dolce e i parchi arrangiamenti delle canzoni abbiano fondamentalmente una funzione catartica e consolatoria trasformando l’ansia in quiete e la realtà in sogno o almeno è l’impressione che suscitano tenui acquerelli lo-fi come They Quiet The Room e la pianistica e struggente Window Somewhere, ariosi folk come Whatever Fits Togheter, disturbanti registrazioni sul campo come Whistle Of The Dead, minimali ballate dagli sfondi ambientali come la fantasmatica Lullaby In February, effimere nenie acustiche come Pass Through Me e l’onirica It’s Like A Secret, bucolici interludi strumentali come Outside, Playing o serenate shoegaze come la sulfurea Sticker.

In un primo momento il carattere tanto personale e in un certo senso privato delle canzoni di Skullcrusher potrebbe quasi mettere a disagio, ma una volta entrati nel mood, Quiet The Room è un disco che svela piccole meraviglie a ogni ascolto. 

Luca Salmini

ABISSI “Oltre”

ABISSI
OLTRE
AUTOPRODOTTO

Nonostante il grunge sia ormai un ricordo (inteso come scena, musicale, sociale, di attitudine) i semi buttati in quel fenomenale ed intenso movimento ancora sbocciano nel panoroma mondiale. Nonostante un comunicato stampa che cita stoner, punk, psichedelia e noise a me pare che gli Abissi siano maggiormente inquadrabili nel filone grunge.

Il richiamo agli Alice In Chains (il gruppo di quel genere più spostato verso il metal e l’oscurità) è evidente ma qui ci ho trovato lo spirito di una band minore, poco conosciuta, i Gruntruck. Canzoni quadrate, ottime melodie, potenza e aggressività a livelli alti, un metodo compositivo che scansiona la musica in maniera chirurgica.

Ma questi sono dettagli da recensore, il cuore non guarda dove ci si posiziona e si lascia fluire dagli speakers il magmatico intro di Bilocazione, ci si fa investire dalla brutale Demoni, ci si immerge nella pesantezza oscura dalle derive doom di Unica Realtà e Il Mago di OX. Poi arriva la sorprendente Spazzati Via, una ballata ultraelettrica, stratificata e sognante, con chitarre che volano quasi su lidi shoegaze e un finale dirompente, personalmente il vertice dell’album. Grunge Buddha e Interzona chiudono l’album avvicinandosi maggiormente allo stoner e alla psichedelia acida.

Francesco Menghi (già voce e chitarra nei Veracrash), Luca Ibba (già batterista di OdE) e Agostino Marino (Voce e chitarra nei Little Pig), milanesi, hanno sfornato un gran bel debutto.

Daniele Ghiro

HOOVERIII “A Round Of Applause”

HOVERIII
A ROUND OF APPLAUSE
THE REVERBERATION APPRECIATION SOCIETY

Inizialmente gli Hoveriii (da leggersi Hoover 3) erano una creatura del solo Bert Hoover, il quale pubblicava la sua musica su cassetta o solo in digitale su Bandcamp, all’incirca a partire dagli inizi degli anni 10. L’esordio vero e proprio lo possiamo datare al 2018 con un album omonimo, mentre è dell’anno scorso Water For The Frogs, disco che lodavamo anche sulle pagine del Busca e nel quale Hoover abbandonava l’approccio autarchico, facendosi attorniare da altri musicisti.

Il momento della consacrazione per Bert e la sua band – che oggi conta su di lui a voce e chitarra, Gabe Flores a lead guitar e voce, Kaz Mirblouk a basso e synth, James Novick ai synth e Owen Barrett alla batteria – potrebbe però arrivare proprio ora col nuovo A Round Of Applause – titolo ispirato da Click Your Fingers Applauding The Play di Roky Erickson – disco che ha tutte le carte in regola per imporre la band losangelina fra quanti apprezzano la psichedelia di artisti quali Oh Sees, Ty Segall, King Gizzard And The Lizard Wizard e affini.

Come avviene nella musica delle formazioni citate, anche in quella degli Hooveriii si assiste a un miscuglio di nuovo e vecchio tritato, rimescolato e sputato fuori in un sound eccitante, elettrico e prepotentemente lisergico e chitarristico. A rendere le potenzialità di A Round Of Applause maggiori rispetto ai suoi predecessori è non solo la qualità media delle canzoni, ma anche la loro tendenza a non sbrodolare allungandosi a dismisura in jam infinite, prediligendo piuttosto un approccio che in qualche modo potremmo definire persino pop.

A rendere poi particolarmente succosa la proposta c’è il fatto che Bert è compagni vanno ad attingere da fonti parecchio diverse, inglobando nei loro pezzi non solo le pagine migliori della tradizione psichedelica californiana e texana, ma anche scampoli di prog canterburiano, pop glam degno di David Bowie, affondi rock’n’roll iper classici, una certa weirdness di marca Castle Face e le geometrie ritmiche del kraut rock, allestendo infine un sound  cosmico, spaziale, retrofuturista, visionario eppur potentissimo.

Vi basterà sentirvi un pezzo inguaribilmente bowiano e sognante come The Pearl per capire che gli Hoveriii sanno sia suonare che scrivere canzoni, ma diciamo che se a questa aggiungerete l’ascolto di una clamorosa See, dell’affilata e potente Out Of My Time, di una Water Lily dalle aperture space, di una groovata e incalzante Stone Men, della fenomenale Iguana (con inserti di sax), di una The Runner allucinatamente a là John Dwyer e di tutte le rimanenti, il godimento sarà senza dubbio maggiore. In attesa di poterli vedere dal vivo, consumiamo questo disco. Ovviamente in vinile colorato! 

Lino Brunetti

DAVID MARTE “Parole di Baustelle”

DAVID MARTE
PAROLE DI BAUSTELLE
 Independently published (qui)

Lo dice chiaramente nella postfazione il suo autore: questo libro è un atto d’amore. Nei confronti di una band dotata di un’immaginario ampio e ben definito, ma forse soprattutto verso il proprio vissuto, nei confronti del modo in cui la musica dei Baustelle si è saputa intrecciare con i propri sentimenti e con importanti avvenimenti della propria vita.

A quello probabilmente si deve la dedizione maniacale messa in campo da David Marte – laureato in lettere antiche e specializzato in storia dell’arte, rocker con gli Alice In Sexland, Dj e già autore di un romanzo pubblicato da Editrice Zona – nell’analizzare i testi di tre degli album più importanti dei Baustelle, band (per il sottoscritto inspiegabilmente) divisiva, glorificata e osteggiata quasi in egual misura dagli appassionati di rock italiano.

Da che parte stia Marte è chiaro fin dalle prime battute, perché, come già si accennava, nello scandagliare i testi di La Malavita, Amen e I Mistici Dell’Occidente, ha estrapolato una mole enorme di riferimenti cinematografici, letterari, musicali, poetici ed artistici, la cui portata vi sarà immediatamente chiara anche solo buttando un occhio alle quasi 50 pagine di bibliografia/discografia etc, poste in coda al volume.

Il tutto, soprattutto a un non devoto alla band, potrebbe risultare fin troppo eccessivo, non solo per il massiccio ricorso a note che appesantiscono e rallentano un po’ la lettura, per una scrittura poco narrativa, ma assai più propensa all’esegesi da tesi universitaria, ma anche per il puntiglio con cui Marte si mette ad analizzare qualsiasi aspetto di ogni singolo testo, dedicando ampi passaggi anche alla loro analisi semantica.

D’altro canto, se queste sono tutte cose che potrebbero scoraggiare il lettore occasionale, allo stesso tempo sono invece cose preziose per chi voglia approfondire veramente l’immaginario di una band senz’altro colta e, probabilmente proprio per questo, a volte ritenuta insopportabilmente snob. Nel tourbillion di citazioni finiscono autori come Pasolini e Lee Masters, Baudelaire e Bianciardi, Gadda e De Andrè, questo giusto per citarne qualcuno, con gli accostamenti corroborati anche tramite brandelli d’interviste e articoli alla/sulla band.

Se curiosi e privi di preconcetti, potreste anche trovarlo come un modo per andare a scoprire o riscoprire film, libri, dischi e opere d’arte, magari distantissime fra loro, eppure in qualche modo legate inestricabilmente. Il lettore ideale di “Parole di Baustelle” rimane chiaramente il fan della band; i detrattori probabilmente non cambieranno idea (un testo di questo genere potrebbe anzi infastidirli ancor di più), ma magari ci sarà anche chi, incuriosito da queste pagine, ne andrà ancora più a fondo nella scoperta, anche perché, al netto dei difetti esposti, quello fatto da Marte è stato un lavoro di scavo analitico decisamente riuscito, che merita lode.

Un atto d’amore, come si diceva all’inizio.

Lino Brunetti

DANIEL ROSSEN “You Belong There”

DANIEL ROSSEN
YOU BELONG THERE
WARP

Con l’abbandono di Ed Droste, fuoriuscito dalla band per diventare un terapista, chissà se i Grizzly Bear andranno comunque avanti, dato che il musicista era uno dei due leader e songwriter della formazione. Scioglimenti non ne sono stati annunciati, ma con la band ferma dai tempi di Painted Ruins del 2017, qualche dubbio è lecito porserlo, tanto più che in questi giorni, l’altro frontman della formazione di Brooklyn, Daniel Rossen, si presenta nei negozi con il suo debutto da solista in lungo (c’era già stato un EP, risalente però a dieci anni fa).

Abbandonata da tempo l’originaria Brooklyn, ora Rossen vive a Santa Fe e, proprio nella sua casa nel bel mezzo del deserto del New Mexico, ha messo a punto, si può dire in solitaria, dato che solo in Tangle appare il compagno di band Chris Bear come ospite, le dieci canzoni di You Belong There. Disco tutt’altro che semplice e immediato che, nel suo riflettere sull’irrompere della maturità dopo gli anni selvaggi della giovinezza, anche dal punto di vista musicale mette in campo tutta l’esperienza e maturità, appunto, acquisita nel tempo dal suo autore.

Due cose colpiscono principalmente fin dal primo ascolto. Uno: la bravura di Rossen nel giostrare intricati e caleidoscopici arrangiamenti, tra l’altro eseguiti suonando praticamente tutti gli strumenti, ovvero chitarre, contrabbasso, violoncello, batteria e fiati vari. Due: il talento nel tratteggiare melodie e armonie vocali che non smarriscono un’anima pop, ma che in ben più complessi scenari s’adagiano.

Apre mettendo già in chiaro questi elementi la bella It’s A Passage, psych folk progressivo che scivola nella successiva Shadow In A Frame, non a caso scelta come primo singolo per via di una bella melodia sottolineata da una chitarra acustica, dagli archi, dal rullare di una sezione ritmica d’impronta jazz. La corale su un montare ritmico impro della titletrack forse avrebbe potuto essere sviluppata maggiormente, ma non c’è davvero il tempo per dispiacersene viste le volte intarsiate e pulsanti che abbelliscono una Unpeopled Space di gusto prog folk. E se Celia pare un minuetto medievaleggiante e Tangle un’avant folk che avrebbe potuto essere interpretato anche dal tardo Scott Walker, è a I’ll Wait For Your Visit che spetta il compito d’incarnare il capolavoro del disco, attraverso il suo incrociarsi di frasi melodiche, le sue pause e le sue ripartenze, l’affastellarsi di suono e ritmo.

Ancora ad alti livelli il terzetto che chiude il tutto, a partire da una Keeper And Kin che vi farà pensare alle cose avant folk degli Animal Collective, intrise però di fatalistica malinconia, passando per una radiohediana The Last One, per poi chiudere con grazia con Repeat The Pattern.

Come dicevamo, non sempre facile e immediato, You Belong There ripaga quel minimo di sforzo per penetrarlo con una musica di rara pregnanza e spessore. Soprattutto, non esaurisce il suo fascino in un battito di ciglia.

Lino Brunetti