MOOSTROO “Musica Per Adulti”

MOOSTROO

Musica Per Adulti

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Non certo dei novellini alle prime armi e già autori di un (bel) disco d’esordio, tornano i Moostroo da Bergamo con il loro nuovo lavoro. Ancora una volta, come già nel precedente, la band mette in campo tutta la propria maestria nel creare un suono che parte dal folk ma che poi si evolve e si ramifica verso varie direzioni, abbracciando con nonchalance vari generi musicali, tenendo ben presente un omogeneità di fondo che amalgama alla perfezione le varie sfumature con le quali è dipinta la loro musica. Dulco Mazzoleni (voce e chitarra), Francesco Pontiggia (basso) e Igor Malvestiti (batteria) immettono immediatamente nell’apertura del disco tutta la loro inquietudine: Meteora lascia sbalorditi con quell’arpeggio iniziale, qui il folk elettrico non è relax per figli dei fiori bensì viene virato in seppia e malinconicamente spostato verso peasaggi decisamente più bui (Tardiva o precoce la vita è veloce/Nel tempo fugace l’amore ci cuce). Spolpami ha ancora dalla sua la delicatezza della chitarra che però lascia rapidamente il passo a scudisciate elettriche. Se per voi le Murder Ballads di Nick Cave significano qualcosa andatevi ad ascoltare la malata malinconia di Regalami o la riproposizione in versione acustica di Umore Nero, già presente sul primo disco e qui posta in chiusura. Il trio non si ferma qui, andando ancora più in profondità, scendendo le scale tortuose della new wave italiana con Ostinato Amore, regalandoci una versione più pop del lato oscuro dal finale momorabile. In mezzo a tutto questo c’è spazio anche per il nervosismo e le chitarre ruggenti di Oblio che tra dissonanze, distorsioni e un testo cattivo quanto basta (Sono nessuno niente mi consola/Cane malato cappio alla gola) insieme a Sul Ciglio segna il lato ruvido del gruppo. A questo punto che ne dite di un breve viaggio verso il Neil Young capace di scrivere ballate elettriche di cruda bellezza? Eccoci arrivati a Cadavere, ricca di phatos e malinconica tristezza: un grande pezzo. Lacci è un noise dall’andamento indolente, Usura è caratterizzata dalla voce di Luca Barachetti e dai suoi testi allucinogeni (Usura, sterco del nulla, bolla che strozza, arte ragioniera che ti lecca e poi s’ingozza, tarlo della fame nella tela dell’umano, e tremore della mano che lavora e si inginocchia) con un basso pulsante che crea una trama marziale di funk spurio, avvicinandosi alle grida dei CSI. Che dire, come detto in apertura il loro maggior pregio è quello di tenere bene in mano tutte le varie componenti musicali, i loro brani sono declinati attraverso una sintassi che presenta numerose sfaccettature, per niente nostalgica e proprio per questo vitale, eclettica e ricca di personalità.

Daniele Ghiro

Buon compleanno Bruce!

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1. Baby I — The Castiles (recorded May 2, 1966, at Mr. Music, Bricktown, NJ; written by Bruce Springsteen and George Theiss; previously unreleased)
2. You Can’t Judge a Book by the Cover — The Castiles (recorded Sept. 16, 1967, at The Left Foot, Freehold, NJ; written by Willie Dixon; previously unreleased)
3. He’s Guilty (The Judge Song) — Steel Mill (recorded Feb. 22, 1970, at Pacific Recording Studio, San Mateo, CA; previously unreleased)
4. Ballad of Jesse James — The Bruce Springsteen Band (recorded March 14, 1972, at Challenger Eastern Surfboards, Highland, NJ; previously unreleased)
5. Henry Boy (recorded June 1972, at Mediasound Studios, New York, NY; previously unreleased)
6. Growin’ Up (recorded May 3, 1972, at Columbia Records Recordings Studios, New York, NY; previously appeared on ‘Tracks’)
7. 4th of July, Asbury Park (Sandy) (1973, ‘The Wild, The Innocent & the E Street Shuffle’)
8. Born to Run (1975, ‘Born to Run’)
9. Badlands (1977, ‘Darkness on the Edge of Town’)
10. The River (1980, ‘The River’)
11. My Father’s House (1982, ‘Nebraska’)
12. Born in the U.S.A. (1984, ‘Born in the U.S.A.’)
13. Brilliant Disguise (1987, ‘Tunnel of Love’)
14. Living Proof (1992, ‘Lucky Town’)
15. The Ghost of Tom Joad (1995, ‘The Ghost of Tom Joad’)
16. The Rising (2002, ‘The Rising’)
17. Long Time Comin’ (2005, ‘Devils & Dust’)
18. Wrecking Ball (2012, ‘Wrecking Ball’)

Una validissima recensione di questa ennesima antologia la trovate sul blog dell’amico Zambo,  qui.

Rimaniamo in attesa della biografia, il vero piatto forte!

JESUS FRANCO & THE DROGAS “Damage Reduction”

JESUS FRANCO & THE DROGAS
Damage Reduction Ep
Bloody Sound Fucktory

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È solo un EP di quattro brani – ovviamente unicamente in vinile – Damage Reduction, ma si merita tutta la vostra attenzione, specie se siete fan del rock’n’roll più distorto ed abrasivo, quello di etichette come la In The Red per intenderci, nel cui catalogo farebbe una porchissima figura. Del resto, Jesus Franco & The Drogas non sono mica dei novellini e già col precedente Alien Peyote avevano dimostrato di essere un gruppo coi controcazzi, potentissimo, visionario il giusto, inoltre giustamente celebrato quale imperdibile live band. Questo EP pone un ponte con quanto fatto precedentemente ed inizia a mostrare le possibili evoluzioni. In particolare il lato A pare essere ancora più cattivo e convulso che al solito: la lunga 6025 si stende come un carrarmato sonico fatto di feedback, dissonanze chitarristiche, ipnosi ritmica, un muro del suono inscalfibile contro cui lottano le urla belluine di Sonny Alabama. Più o meno sulla stessa linea la più concisa Money (Won’t Change Me), nuovamente oscura ed ennesimo calcio in culo alle belle maniere. Il lato B, lungi dal rallentare, è però più in linea con il sound di Alien Peyote, e quindi dalle parti di un punk’n’roll anfetaminico, con qualche screziatura vagamente psych e un bel tocco di sempre sana ironia. Se il rock ha ancora ragione d’essere, il suo spirito non può che vivere che in pezzi come The Wrong Side Of El Paso e Austin. Ottimo lavoro ragazzi, ci si vede (spero presto) nei pressi di qualche palco.

Lino Brunetti

RUBACAVA SESSIONS “No Middle Ground”

RUBACAVA SESSIONS
No Middle Ground
Lostunes Records/Goodfellas

Rubacava NMG cover

I RUBACAVA SESSIONS sono una band romana attiva dal 2012, inizialmente come duo acustico (chitarra 12 corde e banjo) formato da Carlo Mazzoli e J.Giovannercole, e poi, col tempo, rafforzata dall’ingresso in pianta stabile del bassista Rocco Pascale, del batterista Alberto Croce, del fisarmonicista Michele Focareta e del trombettista Leonardo Olivelli. È con questa line-up, la quale si è data una personalità suonando dal vivo e partecipando al Subiaco Rock Blues Festival, che arrivano oggi al disco d’esordio, prodotto da Francesco Giampaoli e con la supervisione artistica di Antonio Gramentieri, entrambi dei Sacri Cuori.

Nelle canzoni di No Middle Ground, i Rubacava Sessions danno vita ad una musica che guarda ai grandi spazi dell’Ovest americano, a quel crocevia di suoni in cui s’incontrano blues e folk, surf, rock’n’roll e speziature mexican e desert-rock. Il languido strumentale desertico che apre le danze (Adios Greytown) è il loro biglietto da visita, il varco d’ingresso ad un mondo onirico e cinematico, dove le pennellate di tromba tratteggiano scenari al confine col Mito. Ed in questo senso, i Rubacava Sessions sono bravi a non farsi fagocitare dalla musica americana, magari risultando come la solita versione de noantri di musiche che gli americani (generalmente) indubbiamente fanno meglio, dando al tutto (appunto) una patina che ha più a che fare col sogno e il mito, piuttosto che con la sterile adesione a certi modelli.

Ecco allora la cover sinuosa di Per Un Pugno Di Dollari, quasi a voler ribadire l’italianità del progetto, ed il generale mood da “spaghetti western” rivisitati del lavoro. Il tutto si riscontra in certi suoni, ma pure nei possibili referenti rock, inglobati nel loro stile, che vengono alla mente sentendo le varie canzoni: nomi come Gun Club (Shaman’s Remedy), Grant Lee Phillips (la splendida No Middle Ground), Woven Hand (Skeleton Song, volendo anche caveiana), Giant Sand (Mayor’s Last Stand). Un pezzo come Western Psichedelico sta tutto nel suo titolo; Rope Of Sand è uno strumentale lungo e articolato, un bell’esempio delle capacità musicali della band; Rubacava Blues un buon boogie blues; We Have Come This Far una ballata di fine lignaggio.

È un disco fascinoso No Middle Ground, elegante e splendidamente suonato.  Se proprio dovessi dare un unico suggerimento, sarebbe quello di imprimere una maggior cattiveria nei pezzi più rock, ma in linea di massima trattasi davvero di un ottimo esordio.

Lino Brunetti

Qui sotto, potete sentire il disco dei Rubacava Sessions in esclusiva per Backstreets of Buscadero. Buon ascolto!

SHANE DE LEON/FABRIZIO TESTA + MISS MASSIVE SNOWFLAKE “So Sweet”

SHANE DE LEON/FABRIZIO TESTA
Untitled
Autoprodotto

MISS MASSIVE SNOWFLAKE
So Sweet

North Pole-Wallace

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Il sempre impegnatissimo FABRIZIO TESTA, questo mese, lo troviamo in combutta con SHANE DE LEON dei Miss Massive Snowflake, in un singoletto contenente tre pezzi senza titolo nel quale il primo si occupa di chitarra acustica, clarinetto e field recordings, mentre il secondo scrive i testi e canta. Tre incantevoli canzoni acustiche che confermano la bravura come songwriter di De Leon ed il talento multiforme di Testa. Per saperne di più: testafabrizio.blogspot.fr A questo punto, cogliamo l’occasione per segnalarvi che, pochissimo tempo fa, gli stessi MISS MASSIVE SNOWFLAKE sono tornati nei negozi con un dischetto breve (sotto i 25 minuti) ma stipatissimo di canzoni pimpanti ed irresistibili. So Sweet vede il trio americano alle prese con otto canzoni (tra cui una cover di Turn Me On di Nina Simone) di cantautorato rock inventivo e dalla scrittura sempre sopraffina, ottimamente servito da trame strumentali avvolgenti ed opportunamente cangianti. È dai tempi dei mitici Rollerball – di cui per oltre un decennio ha fatto parte – che De Leon vive nei meandri della musica più di nicchia e laterale. Ed è un peccato vero perché, ve ne rendereste facilmente conto ascoltandole, innamorarsi delle sue canzoni è proprio questione di un attimo.

Lino Brunetti

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So Sweet

PLUNK EXTEND “Prisma”

PLUNK EXTEND
Prisma
QB Music

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Nonostante una durata di poco più di venti minuti, i PLUNK EXTEND, una band comunque attiva fin dal 2006, considerano Prisma il loro vero e proprio disco d’esordio. Il loro rock in italiano poggia essenzialmente su tre gambe: su una di esse risiede il cuore del loro songwriting, che più d’una parentela ha col cantautorato, sia classico che moderno (a tal proposito qui il pezzo da analizzare è Bianco, ma indicativi sono anche i testi, originali e non sempre immediati e facili); sulla seconda c’è la loro capacità di prendere questo tipo di scrittura solida e matura e di alleggerirla con melodie pop, in modo da virare le loro canzoni in qualcosa di sempre inequivocabilmente pimpante e caleidoscopico, anche nei momenti in cui parrebbe farsi largo un pizzico d’introspezione; sulla terza gamba c’è il loro suono, epico, colmo di sonorità piene e luccicose, un attimo vibranti e spesse, quello dopo liquide e sognanti, rock verrebbe da dire, ma in un’accezione comunque non troppo ligia ai confini. Di tutti gli aspetti del loro far musica è alla fine quello pop quello che rimane più impresso. E se di pop-rock italiano non siete mai sazi, c’è in giro una nuova band che qualcosa da dirvi ce l’ha.

Lino Brunetti

DEAD BOUQUET “As Far As I Know”

DEAD BOUQUET
As Far As I Know
Seahorse/Audioglobe

Cover album As Far As I Know

Ad attirare come prima cosa verso l’esordio dei romani DEAD BOUQUET è il nome del produttore del disco, quel Paul Kimble che fu bassista e produttore dei mitici Grant Lee Buffalo, band oggi forse un po’ troppo ingiustamente dimenticata, ma tra le migliori venute fuori dagli Stati Uniti negli anni ’90. Sarebbe però ingiusto fermarsi lì perché, sia pur con qualcosa ancora da rivedere, il disco con cui il duo formato da Carlo Mazzoli (voce e chitarra acustica a 12 corde) e Daniele Toti (basso) – a cui va qui aggiunto il contributo del batterista Fabio De Angelis e di Kimble stesso – ha deciso di presentarsi al mondo, li segnala quale band di sicuro interesse e indirizzata sul sentiero giusto. In As Far As I Know, i Dead Bouquet si fanno portavoci di una canzone rock cantautorale dai continui echi folk e psichedelici, a tratti oscura e gotica, attraversata da stilizzate esplosioni elettriche. Ascoltando queste tredici canzoni, i nomi che vengono alla mente sono quelli dei Grant Lee Buffalo stessi (ovviamente), dei Gun Club, di Wovenhand. Riferimenti altissimi insomma, che i Dead Bouquet riescono ad onorare con una certa sicurezza. Sia pur senza effetti speciali – il songwriting è buono ma si può e deve fare di meglio, non foss’altro che per uscire dall’ombra dei riferimenti – non sono poche le canzoni che rimangono in mente, dalle ottime Barking At My Gate e Haven’t You Said It?, per arrivare alla lancinante Stories con cui l’album si chiude. Differenziando maggiormente i vari pezzi ed imprimendo una maggiore personalità alle loro sonorità, potrebbero farci vedere grandi cose. Per il momento, comunque, va bene anche così.

Lino Brunetti

Steve Albini sullo stato incredibilmente prospero dell’industria musicale

Il testo è la traduzione integrale e per quanto possibile letterale di un articolo apparso sul sito del quotidiano inglese THE GUARDIAN, lunedì 17 novembre 2014. Traduzione di LUCA SALMINI.

foto di Lino Brunetti

foto di Lino Brunetti

Il produttore discografico, frontman degli Shellac e autore del seminale saggio del ’93, Il problema della Musica, ha parlato a Melbourne dei vantaggi offerti da internet, della morte del sistema delle majors, della legge sul copyright e di quel “nano color porpora con le chiappe al vento”. Steve Albini è il produttore (lui preferisce il termine “recording engineer”) di parecchie centinaia di dischi. È anche un membro della band Shellac. Nel 1993, ha pubblicato Il problema della musica, un saggio in cui esponeva la sua convinzione che l’industria musicale del tempo, dominata dalle grandi corporazioni discografiche, fosse inefficiente, sfruttasse i musicisti e avesse portato ad un’impoverimento della musica stessa. Sabato (15 novembre 2004) ha dato la stoccata definitiva alla conferenza Face The Music di Melbourne, dove ha illustrato il fatto che internet ha sia smantellato il sistema sia reindirizzato le iniquità:

“Voglio prima spiegare alcune cose riguardo me stesso. Ho 52 anni, sono praticamente sempre stato in una band e, in un modo o nell’altro, sono attivo sulla scena musicale dal 1978 circa. Al momento sono parte di una band, lavoro anche come ingegnere del suono e possiedo uno studio di registrazione a Chicago. In passato sono stato inoltre redattore di fanzines, DJ radiofonico, promoter di concerti e ho gestito una piccola etichetta. Non ho riscosso un particolare successo in nessuna di queste attività, ma le ho fatte tutte, e in qualche modo costituiscono le qualifiche del mio CV.

Lavoro quotidianamente con la musica e con i gruppi musicali e lo faccio ormai da più di 30 anni. Ho realizzato all’incirca 2000 dischi per gruppi indipendenti e rock stars, per grandi e piccole etichette. Ho fatto un disco due giorni fa e ne farò un’altro lunedì non appena scenderò dall’aereo. Credo tutto questo mi ponga in un’ottima posizione per valutare lo stato dell’attuale scena musicale, il modo in cui si relaziona con il passato e quanto è accaduto nel frattempo.

Siamo tutti qui per discutere dello stato della scena musicale e della salute della comunità musicale. Comincerò col dire che sono soddisfatto ed ottimista riguardo l’attuale stato della scena musicale. E accolgo benevolmente i cambiamenti sociali e tecnologici che l’hanno determinato. Spero che le mie osservazioni diano vita ad una conversazione e attraverso il dialogo si riesca ad apprezzare quanto elastica possa essere la scena musicale, quanto sostegno possa offrire e quanto accogliente debba essere.

Ho sentito da alcuni colleghi che questi sono tempi duri: che internet ha tagliato le gambe alla scena musicale e che molto presto nessuno produrrà più della musica perché non c’è più margine di guadagno. Virtualmente ovunque si tratti di musica, è contenuta una qualche versione di questa funesta prospettiva. Le persone che erano solite guadagnare bene grazie alle royalties, ne hanno visto l’inaridimento. E le persone che si guadagnavano da vivere vendendo dischi stanno avendo problemi a vendere downloads in sostituzione dei dischi e di conseguenza non producono più dischi.

Così esiste una tacita convinzione che quei soldi, soldi persi, debbano essere ricollocati e un sacco di energie sono state investite nella discussione riguardante l’effettiva provenienza di quel denaro. Puttanate al riguardo abbondano, con ognuno impegnato a pretendere che qualcun altro paghi per lui, ma allo stesso tempo convinto di non dover pagare per nessun altro. Mi piacerebbe che questo malcontento finisse.

Vale forse la pena ricordare da che situazione proveniamo, da dove provengono tutte queste puttanate. Dagli anni ’70 fino agli anni ’90, il periodo in cui sono stato più attivo con delle band nell’ambito della scena musicale – definiamola era pre-internet – l’industria musicale era essenzialmente l’industria discografica, i dischi e le radio erano i mezzi attraverso i quali la gente veniva a conoscenza della musica e attraverso cui ne faceva esperienza. Ad essi si è successivamente unita MTV e i video degli anni ’80 e ’90, ma la relazione principale che la gente aveva con la musica si basava sulle registrazioni. C’è stata un’esplosione di gruppi e tutte le band aspiravano ad arrivare in sala d’incisione, come fosse una sorta di legittimazione.

Ma le registrazioni costituivano un’impresa rara e molto costosa, tale da non essere un traguardo del tutto scontato. Anche un semplice nastro demo comportava un considerevole investimento. Quando ho cominciato a suonare nel corso degli anni ’70 e ’80, la maggior parte dei gruppi attraversava l’intero ciclo vitale senza incidere neppure una sola nota.

Ora descriverò la scena così come l’ho osservata in America, ma sono convinto che la maggior parte delle strutture e delle situazioni che ho colto, hanno dei paralleli con quelle di altri mercati. Forse qualcuno della mia generazione potrebbe aggiungere il locale colore australiano ai miei commenti – preferirei fosse urlato con il vostro accento più marcato.

Come unità di misura dell’economia di quei giorni o di quel periodo, bisogna pensare che nel 1979 si poteva acquistare un 45 giri per un dollaro, un nuovo album per 5 dollari, andare a vedere un concerto in un club per 1 dollaro o per 7 in uno stadio. So queste cose perché conservo ancora le matrici di vecchi biglietti e molti miei dischi hanno gli adesivi con il prezzo. Da notare la relativa corrispondenza tra i costi dei concerti e quelli dei dischi. Una graduale inflazione si è verificata nel corso degli anni ’90, elevando il costo dei dischi, che pur rimanevano il principale mezzo con cui gli ascoltatori avrebbero potuto fare esperienze.

L’intera industria discografica dipendeva dalle vendite, e le vendite dipendevano dall’esposizione che la musica riusciva ad ottenere. I gruppi che incidevano per grosse etichette andavano in tour per promuovere i propri dischi. E le etichette fornivano supporto tecnico e logistico in modo che le bands potessero continuare a fare concerti. Questo alimentava una rete di agenti e managers e roadies e staff promozionali, che faceva lievitare le spese.

I negozi al dettaglio offrivano inoltre collocazioni speciali e promozioni: displays, posters, menzioni in annunci su carta stampata, volantini, ninnoli e quelli che erano chiamati espositori. Le case discografiche pagavano generosamente per queste forme di promozione e i negozi utilizzavano la vendita di questi oggetti come ulteriore introito. Le grosse catene in particolar modo si affidavano a grandi promozioni corporative, incuranti di quello che i singoli negozi ritenevano fosse adatto al proprio tipo di clientela. Non era per niente insolito vedere enormi cartonati riguardanti gruppi di hair metal campeggianti in rivendite urbane dove non avrebbero potuto avere alcun riscontro, ma visto che l’etichetta li aveva pagati, perché non esporli comunque.

foto di Lino Brunetti

foto di Lino Brunetti

Le stazioni radio avevano un’influenza enorme sul pubblico. Le radio erano il solo mezzo con cui ascoltare musica di qualsiasi tipo e le compagnie discografiche pagavano profumatamente per pilotarle. Le bustarelle erano illegali ma questo era solo un triviale raggiro. I promotori di dischi che agivano da consulenti dei programmi costituivano il tramite. Pagavano le stazioni radio per raggiungere chi curava la programmazione e dirigevano incontri durante i quali spingere le ultime uscite.

Queste offerte promozionali erano parecchio lucrative. Ma la loro metrica dipendeva dal fatto che le stazioni radio avrebbero aggiunto quei dischi alla loro playlist. Per soddisfare questa richiesta e garantire il flusso di denaro, spesso le stazioni radio facevano girare minuscoli frammenti di canzoni impastate l’una con l’altra in un’incomprensibile sequenza durante le ore più tarde della programmazione, giusto per adempiere alla richiesta che determinati brani venissero aggiunti alle playlists. Le radio più popolari organizzavano anche enormi concerti, spesso non retribuiti o a copertura parziale in cui erano compresi i gruppi che le etichette stavano promuovendo. Per le bands queste esibizioni radiofoniche gratuite rappresentavano una spesa da detrarre dalle entrate dei tour, ma si supponeva che il valore promozionale ottenuto sarebbe valso la spesa.

Giornalisti ed editori che potevano piazzare delle recensioni, direttori di programmi e DJ indipendenti che potevano aggiungere i dischi alle loro playlist o suonarli nei locali, erano oggetto di ulteriori lusinghe. Gli venivano inviati ammennicoli e copie promozionali dei dischi. A volte per posta. Presumibilmente erano copie per l’ascolto o destinate all’archivio. Ma erano a tutti gli effetti una forma di corruzione. Le copie promozionali venivano immediatamente rivendute ai negozi di seconda mano e come risultato non era insolito che un negozio avesse sovrabbondanza di un disco addirittura prima della sua pubblicazione regolare. Mia moglie lavorava in un negozio che negli anni ’90 acquistava dischi di seconda mano. E i loro più assidui clienti, di gran lunga più fedeli di chiunque altro, erano le persone che figuravano nelle liste di nomi delle case discografiche. Per un certo periodo il personale del suo negozio ha tenuto un registro, da cui è risultato che l’editore della sezione musicale del settimanale locale riusciva a mettere insieme un secondo stipendio della cifra di 1000 dollari o più, solo vendendo quelle copie promozionali.

Era un sistema pieno di buchi, regolato dall’inefficienza, ma un sacco di gente sopravviveva grazie ad esso. Proprietari di negozi di dischi, compratori, impiegati, agenti pubblicitari, designers, proprietari di locali, rappresentanti delle etichette, A&R, produttori, studi di registrazione, pubblicisti, avvocati, giornalisti, direttori di programmi, distributori, tour managers, booking agents, band managers, e tutti i servizi accessori che richiedevano: servizi bancari, spedizioni, stampaggio, fotografia, agenzie di viaggio, limousine, guardaroba, spacciatori, prostitute. A causa di questo grosso carico l’industria aveva bisogno di sostenersi. Ogni aspetto dell’industria era cucito sartorialmente su misura per soddisfare questo bisogno.

Il più significativo esempio di questa manifattura sartoriale era un trucco contabile chiamato indennizzo dei costi. I costi che comportava la realizzazione di un disco non erano coperti dalla casa discografica, tranne nelle fasi iniziali. Quei costi erano indennizzati o detratti dalle entrate che le bands avrebbero ottenuto in termini di royalties. Lo stesso vale per tutte quelle copie promozionali, i posters, i promotori radiofonici e gli uomini delle bustarelle, produttori, pubblicitari, il supporto durante i tour, le immagini 8×10 su carta patinata, le spedizioni, le merci – in pratica qualsiasi cosa possa essere associata a una specifica band o a un disco era alla fine pagata dalla band, non dall’etichetta.

Quando si è passati dal vinile al CD quale formato predominante, le etichette hanno potuto vendere il CD come un modo di ascoltare musica più conveniente, compatto e privo di problemi. I margini di profitto sono esplosi e la quantità di denaro in gioco è diventata stupefacente. Il costo al dettaglio di un CD si era dimezzato eppure era due volte più alto di quello di un LP ma le spese di manifattura, spedizione e magazzino erano una minuscola parte. Le etichette hanno anche utilizzato l’eredità del vinile come strumento per incrementare i propri profitti addebitando alle band la realizzazione di confezioni uniche, per via del fatto che il contenitore del CD era stato appositamente progettato per essere sempre identico. O addebitando preventivamente l’eventuale rottura di CD ad un tasso tale da far pensare che qualcuno avesse assalito il magazzino armato di un’ascia.

Alle fine i gruppi che operavano all’interno di questo sistema guadagnavano molto poco dalle vendite dei dischi, a meno che non fossero delle assolute celebrità. Spesso un certo numero di bands ha trascorso l’intera carriera con la stessa etichetta e non ha mai accumulato abbastanza indennizzi da guadagnare alcunché. Le etichette facevano il loro profitto unitario su ogni singolo disco venduto. E potevano ammortizzare il costo di ogni disco invenduto. Tutte le altre persone venivano pagate usando i soldi che altrimenti sarebbero spettati alla band come royalties. Ovviamente, tutte le altre persone venivano pagate bene. La ragione è che se l’etichetta ti sta pagando con i soldi di qualcun’altro, non si preoccupa di quanto elevato sia l’importo dell’addebito.

Durante gli anni ’90 c’è stata una specie di braccio di ferro per stabilire chi avrebbe stipulato l’affare più grosso. Cioè, l’affare con la maggior quantità di denaro spesa sulle spalle della band. In un contesto particolarmente insensibile l’alternativa era tra il dare il denaro alla band come royalty, che avrebbe poi portato quella somma fuori dal sistema per investirlo in cose come case e alimentari e istruzione. Oppure usarlo per pagare altri operatori all’interno dell’industria, aumentando l’influenza e il prestigio della persona che operava l’investimento. Come se il vostro principale invece di pagarvi lo stipendio, desse quel denaro ai suoi amici e ai soci in affari, evocando il vostro nome nel momento in cui lo fa. Visto che il suo costo netto sarebbe identico e che i suoi amici e soci potrebbero rendergli il favore, perché dovrebbe lasciare che quel denaro finisca nelle vostre mani? Era un sistema che garantiva lo spreco ricompensando gli spendaccioni più dissoluti in un sistema specificamente progettato per sperperare il denaro delle bands.

foto di Lino Brunetti

foto di Lino Brunetti

Esistevano anche delle bands al di fuori di questo spettro. Le formazioni operaie del tipo di cui io ho sempre fatto parte, e per quelle bands è sempre stato tutto più piccolo e semplice. La promozione funzionava essenzialmente attraverso dei volantini attaccati ad un palo, qualche occasionale citazione nelle radio di college e nelle fanzines. Se avevi un concerto in un locale che non faceva pubblicità, allora dovevi affrontare la seria prospettiva di suonare di fronte ad una sala vuota. I mezzi di comunicazione locali non prendevano le bands sul serio fino al momento in cui non se ne parlava a livello nazionale così potevi scordarti una qualsiasi copertura stampa. E il circuito delle radio commerciali era precluso dal sistema guidato dalle bustarelle dei promotori e dei direttori di programmi.

L’esposizione internazionale era estremamente costosa. Affinché un tuo disco giungesse oltreoceano dovevi convincere un distributore ad esportarlo. Ed era piuttosto difficile senza mezzi attraverso i quali qualcuno potesse ascoltare il disco e decidere di comprarlo. Così si finiva con lo spedire copie promozionali oltreoceano a costi altissimi, senza alcuna certezza che venissero effettivamente ascoltate.

L’unica eccezione fu il brillante DJ della BBC John Peel. Ascoltava religiosamente ogni disco ricevuto per posta, dedicando diverse ore ogni giorno a questo compito. Gli ho mandato una copia del mio primo album in assoluto e non solo l’ha fatto sentire in trasmissione, ma mi ha inviato una cartolina con un suo personale ricordo di Chicago, di quando da bambino aveva fatto visita ad una zia a Evanston, il sobborgo dove tenevo la mia cassetta della posta. Ho fatto tesoro di quella nota come prima indicazione che John Peel fosse un grand’uomo.

Queste band indipendenti dovevano essere piene di risorse. Dovevano costruirsi una propria infrastruttura di locali indipendenti in cui suonare, promoters, fanzines e DJ. Avevano canali esclusivi di promozione, inclusi i prodromi della cultura di internet che prevale oggi – cioè spedizione di bollettini informativi e notiziari. Queste bands indipendenti hanno perfino fondato etichette proprie. Alcune erano collettive e quelle che non lo erano, erano disposte ad operare sulla base di una condivisione dei profitti che incoraggiava l’efficienza, piuttosto che un sistema basato su un patronato dell’ammortamento che incoraggiava l’indulgenza.

E’ dove mi sono fatto i denti, in quella scena indipendente piena di punks e strambi rumoristi e travestiti e compositori sperimentali e farneticanti poeti da strada. Bisogna ringraziare il punk rock per tutto questo. E’ dove la maggior parte di noi ha imparato che era possibile realizzare i propri dischi, dirigere i propri affari e mantenere il controllo della propria carriera. Se un branco di brufolosi sniffatori di colla ce l’ha fatta, ragionavamo, allora può farlo chiunque.

Il numero di dischi realizzati in questo modo è incredibile. Migliaia di piccole pubblicazioni trovarono la strada nei negozi specializzati a conduzione familiare, che cominciarono a formare un mercato per la distribuzione indipendente. Era l’inizio di un’alternativa al paradigma delle etichette. E’ stato un processo pieno d’impacci e piuttosto lento, ma è presto diventato più efficiente di un approccio lampo con le grosse etichette, la cui risposta ad ogni problema era aumentare la quantità di denaro spesa direttamente dalla tasche della band.

Era l’inizio di quella che chiameremo la rete paritaria. Nella meta degli anni ’90 c’erano etichette indipendenti e distributori capaci di muovere milioni di dollari di dischi e CD. E c’era una sana e sotterranea economia fatta da bands capaci di realizzare ragionevoli guadagni grazie alla maggiore efficienza del metodo indipendente. La mia band, per esempio, aveva un ritorno pari al 50% del profitto netto su ogni titolo pubblicato tramite la nostra etichetta. Ho elaborato questi valori e ne è risultata una royalty per ogni pezzo venduto superiore a quella incassata da Michael Jackson, Bruce Springsteen, Prince, Madonna o di qualsiasi altra superstar. E noi eravamo solo una tra le migliaia di bands.

Questo è il sistema com’era allora. Questo è quanto abbiamo perso quando internet ha reso tutto disponibile ovunque gratuitamente. E non vi sbagliate, l’abbiamo perduto. C’è ancora un circuito di etichette indipendenti ma è un segmento molto piccolo rispetto a com’era prima. Le etichette che sopravvivono, lo fanno proponendo musiche di nicchia ad un pubblico selezionato. E poiché si sono temprate nell’arte dell’efficienza, la loro costituzione gli consente di ridimensionare ogni cosa in modo da soddisfare l’esigua domanda.

Avrete certamente notato che nella mia analisi della scena musicale di massa e dell’industria dell’era pre-internet ho menzionato poco sia il pubblico che le bands. Queste due estremità dello spettro erano infatti poco considerate del resto degli affari. Ci si aspettava che i fans ascoltassero la radio e comprassero i dischi e che le band li facessero e andassero in tour per promuoverli. E queste erano le uniche preoccupazioni che riguardassero entrambe. Ma il pubblico era la fonte di tutto il denaro e le bands la sorgente di tutta la musica.

Attraverso internet, che più di ogni altra cosa offre libero accesso alle cose, illimitate quantità di musica sono disponibili gratuitamente. Le grosse compagnie discografiche non sono riuscite a capire come fare denaro dalla distribuzione in rete così l’hanno del tutto ignorata, lasciando che gli hackers e gli ascoltatori generassero un nuovo scenario attraverso il downloading. Chi preferisce la convenienza del CD sull’LP di conseguenza apprezzerà ancora di più il downloading. E’ possibile scaricare musica, ascoltarla in streaming o da YouTube oppure i tuoi amici o conoscenti possono inviarti dei file compressi. In un batter d’occhi la musica si è trasformata dall’essere rara, costosa e disponibile attraverso supporti fisici venduti in specifici negozi all’essere ubiqua e gratuita in tutto il mondo. Che evoluzione fantastica.

foto di Lino Brunetti

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C’è un sacco d’ombra gettata dalle persone dell’industria discografica riguardo quanto sia terribile la libera condivisione della musica, quanto sia l’equivalente di un furto, ecc… Sono tutte stronzate e ce ne occuperemo tra un minuto. Ma per un minuto vorrei che consideraste l’esperienza musicale dal punto di vista dell’appassionato post-internet. Musica difficile da trovare è ora alla portata di tutti. Musica che soddisfa i miei gusti personali, per quanto strampalati possano essere, è ora disponibile con pochi click oppure inviando una richiesta ad una casella di posta. Al momento è disponibile quanta più musica abbia mai immaginato. Curata da altri appassionati, pronti a convertirmi alla roba buona, persone, che come me, desiderano che anche gli altri possano ascoltare la miglior musica di sempre.

Questa distribuzione musicale gestita dal pubblico stesso ha altri benefici. Musica ormai dimenticata da tempo sta avendo una seconda vita. E i gruppi la cui musica era in netto anticipo sui tempi ha ora la possibilità di raggiungere un pubblico di nicchia che la vecchia distribuzione massificata non è riuscita a trovargli, visto che ogni entusiasta ne attira altri e alla fine questa musica dimenticata riceve quanto dovuto. Esiste un bellissimo documentario a riguardo, il caso della band di Detroit Death, il cui unico album è stato pubblicato in un’edizione marginale nel 1975, credo, e scomparso fino a quando una copia non è stata digitalizzata e resa pubblica su internet. Gradualmente la band ha trovato un pubblico, la musica è stata amorevolmente ristampata, e la band è risorta, con tanto di concerti di fronte a platee esaurite. E tali bands hanno oggi la possibilità di quella carriera che il vecchio star-system gli ha negato. Ci sono centinaia di storie come questa e ci sono etichette specializzate che non fanno altro che pubblicare classici perduti nel momento stesso in cui riaffiorano.

A questo punto consideriamo le attuali condizioni dal punto di vista di una band, le condizioni a cui una band si trova di fronte. In contrasto con quanto accadeva un tempo, gli impianti di registrazione e la tecnologia si sono semplificati e sono diventati disponibili all’istante. I computer escono con pre-caricati dei programmi che consentono la registrazione di un demo decente e i negozi di strumenti vendono microfoni e altre attrezzature a prezzi irrisori che precedentemente erano disponibili solo ad una qualità elevata presso arcani e specialistici fornitori. Fondamentalmente ogni band oggi dispone delle risorse per effettuare delle registrazioni.

E possono anche fare altre cose con quelle registrazioni. Possono postarle in rete su un’innumerevole quantità di siti: Bandcamp, YouTube, SoundCloud, il loro sito web. Possono creare dei collegamenti sui forum in rete, Reddit, Instagram, Twitter e anche nei commenti della loro musica. “LOL”, “fa schifo”, “molto meglio”, “a morte il falso metallo”, “LOL”. Invece di spendere una fortuna in chiamate internazionali per trovare qualcuno in ogni territorio disposto ad ascoltare la loro musica, ogni band del pianeta ha libero, immediato accesso al mondo sotto i suoi polpastrelli.

Non credo di esagerare sottolineando l’importanza di un tale sviluppo. Precedentemente, il paradigma dall’alto verso il basso consentiva all’industria locale di dettare legge riguardo a quale musica potesse essere resa disponibile in mercati remoti o isolati, mercati isolati per posizione geografica o linguaggio. Era inconcepibile che una piccola band indipendente potesse operare penetrazione di mercato in, diciamo, Grecia o Turchia, Giappone o Cina, Sud America, Africa o nei Balcani. A chi si sarebbe potuto chiedere di commercializzare la propria musica? Come si sarebbe potuto conoscere qualcuno in grado di farlo? E come si sarebbero potute giustificare le complicazioni relative agli affari o alla valuta che sarebbero sorte con l’invio di quattro o cinque copie di un disco in quei paesi?

Oggi quei luoghi sono serviti quanto New York o Londra. I fans sono in grado di trovare una musica che a loro piace e sviluppare relazioni direttamente con i gruppi. É del tutto possibile – sono sicuro accada ogni giorno – che un ragazzino che abita in uno di questi posti decentrati possa scoprire una sua nuova band preferita, mandi un messaggio alla band, che il cantante di quella band legge e a cui risponde personalmente dal suo cellulare dall’altra parte del mondo. Quanto è meglio così? Ve lo svelerò, è infinitamente meglio che avere un rapporto con una band limitato alla lettura delle note di retrocopertina dei dischi. Se una cosa così fosse stata possibile quando ero adolescente, sono certo che sarei diventato un bel fastidio per i Ramones.

Un paio d’anni fa la mia band ha messo insieme un tour nell’Europa dell’Est. Abbiamo suonato in tutte le principali nazioni: Repubblica Ceca, Polonia, Croazia, Slovenia, Macedonia, Bulgaria, fino ad arrivare ad Istanbul in Turchia. É stata un’esperienza magica, suonare di fronte ad un pubblico relativamente estraneo alla routine delle bands in tour, da cui siamo stati accolti come amici. Abbiamo suonato in locali pieni e delle stesse dimensioni del resto d’Europa. Le stesse dimensioni che troveremmo se suonassimo qui in Australia. E il pubblico aveva una certa familiarità con la nostra musica. Con l’unica differenza che in quei luoghi non abbiamo letteralmente mai venduto un solo disco. Praticamente il 100% della nostra esposizione mediatica era avvenuta tramite mezzi informali su internet o attraverso il passaparola.

Nel corso di quel viaggio abbiamo stabilito contatti con promotori locali e organizzatori di eventi artistici e il pubblico ha maturato una passione per la nostra musica e da allora abbiamo cominciato a vendere qualche disco anche in quelle zone. Il nostro tour successivo è stato più facile grazie a quelle conoscenze e torneremo di nuovo a Istanbul la prossima primavera, utilizzando i contatti sbocciati durante quel primo viaggio d’esplorazione. Mi aspetto di trascorrere momenti meravigliosi.

In breve, internet ha reso molto più facile amministrare tutti gli affari correlati all’essere in una band ed ha incrementato l’efficienza. Tutto dal programmare le prove attraverso calendari on-line, fino alla raccolta di fondi per la realizzazione di un disco è di una tale inedita semplicità per cui le bands dell’era pre-internet avrebbero sbavato. Il vecchio sistema è stato costruito dall’industria per servire quei musicisti che stavano all’interno dell’industria. Il nuovo sistema dove la musica è condivisa in maniera informale e le bands hanno un rapporto diretto con i propri fans, è stato costruito dalle band e dai fans alla stessa maniera del vecchio underground. Salta tutti i livelli intermedi.

foto di Lino Brunetti

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I gruppi hanno il controllo diretto della propria esposizione mediatica. Non c’è più bisogno di pagare qualcuno che paga qualcun altro per suonare i tuoi dischi alla radio, ottenendo come risultato una menzogna. Non è più necessario spendere dei soldi perché qualcuno possa sentire la tua band. Accade spontaneamente.

C’è un ulteriore e più sottile mutamento innescato da tutto questo. Dal momento in cui le persone non sono più obbligate ad ascoltare solo quanto figura nelle playlist delle radio o non hanno più alcun limite imposto dal solo materiale che i rivenditori hanno in stock, sono diventati molto più indulgenti riguardo i propri gusti. I miei amici ascoltano normalmente delle esotiche playlist che hanno ideato da soli, piene di scelte controintuitive e contrastanti che sono comunque unicamente le loro.

Il responsabile del nostro ufficio ha un impianto stereo nel suo studio ed è tanto probabile che lui stia suonando il nuovo singolo della band hardcore Leather o l’electro drone di Tim Hecker quanto un oscuro soul di Cincinnati o disco music da supermercato o improvvisati scarabocchi di chitarra, sia che essi provengano da una nuova pubblicazione di Oren Ambarchi sia che abbiano 30 anni e provengano da incisioni Takoma. La gente può ora ascoltare solo la musica che li manda in estasi, sempre.

Ci sono comunità attive online per ogni tipo di musica e i suoi sottogeneri. Che ascoltiate il reggae di Dusty’s Deep Cut, l’elettronica minimale, il pop sinfonico, il Texas blues, il noise giapponese, l’elettronica dura, la musica per bambini, le musiche di natale, Raymond Scott o Burl Ives, esiste una comunità in rete dove potete entrare in contatto con altri entusiasti del genere e indulgere nella più minuziosa specificità dei vostri gusti.

Queste comunità di rete sono ormai una parte vitale della scena e dibattiti come questo ed altri ancora sono contemplati quotidianamente. Probabilmente ho maturato inconsciamente alcune delle posizioni contenute in queste mie osservazioni nel corso di discussioni che ho avuto in rete e mi fa piacere confessare questo plagio ora, in modo da incoraggiarvi a lasciarvi coinvolgere in questi forum dove hanno luogo tutte le conversazioni più interessanti riguardo alla musica.

Immaginate una enorme sala piena di feticci dove sia racchiusa qualsiasi cosa vi faccia immaginare il sesso attivo o quello passivo, perché comunque spesso i vostri gusti possono cambiare, non importa di quale attrezzatura o protezione abbiate bisogno, potete spalancare le porte e avere tutto lì su un comodo materasso a qualsiasi ora del giorno. Questo è quello che è diventato internet per gli appassionati di musica. In più candidi posti a sedere riservati alla sezione applausi.

Come risultato i fans mostrano una passione più profonda per la musica. Desiderano trascorrere più tempo a vederla suonare dal vivo. Desiderano acquistare più frivolezze e smaniano per stabilire una relazione personale con coloro che fanno musica. Di conseguenza i prezzi dei concerti sono lievitati. E i tavoli del merchandising sono universalmente oberati di lavoro. Da noi, concerti che costavano 5 o 6 dollari ora ne costano 20 o 30. Oggi l’inflazione dei biglietti è più pronunciata, con concerti in piccoli locali che arrivano agli 80 dollari. Di conseguenza gli incassi dei concerti sono aumentati esponenzialmente per i gruppi. La mia band ha perlopiù suonato negli stessi posti per gran parte della sua esistenza, oltre i 20 anni per ora. Si potrebbe dire che abbiamo già in qualche modo saturato tutto il nostro pubblico, non importa per quanto tempo andremo avanti ancora. Alcuni di questi concerti in locali ormai noti stanno ora offrendo un incremento nettamente superiore a quello di 10 o 15 anni fa. Alcuni locali in cui guadagnavamo 400 o 500 dollari adesso ci rendono 4000 o 5000 dollari.

La facilità d’accesso, l’interesse raddoppiato e l’aumento degli introiti hanno creato una nuova partnership e nuove possibilità tra gli individui, bands e artisti del video, chi realizza film on line, coreografi e altro genere di personaggi pubblici. Le collaborazioni avvengono in tempo reale o dislocate su internet, dove le parti non si incontrano neppure. Ho un caro amico che l’anno scorso si è ritrovato con del tempo libero e ha formato un paio di gruppi nuovi. Una di queste band era formata esclusivamente da persone che conosceva solo in rete e tutta la loro musica è stata realizzata attraverso collaborazioni accadute in rete. Quella musica è il mero risultato dell’interconnettività di internet.

Tutto questo, tutte queste caratteristiche, tutte queste opportunità sono scaturite e rese possibili dalla condivisione in rete della musica. Se non direttamente, come nel caso di dover creare un pubblico per la band Death e nel caso della mia band di doverlo trovare nei Balcani e oltre, allora indirettamente cambiando le aspettative degli ascoltatori e dei musicisti.

Questo spiega il mio entusiasmo per i cambiamenti occorsi alla scena musicale, ma che dire riguardo il mio ottimismo? Vorrei sottolineare un luogo comune che riguarda l’esposizione in rete della musica. Oggi lo si sente sempre più spesso citato dalle parti in gioco, questo è il luogo comune: “Dobbiamo capire come fare in modo che la distribuzione via internet sia funzionale per tutti”. Utilizzo dei gesti delle dita per indicare la mia distanza da questa citazione. Ho un amico, Tim Midgett, che usa tre dita per indicare una dose esagerata di ironia. In questo caso ne servirebbero almeno due.

Non sono d’accordo con questo luogo comune piuttosto innocuo. É innocuo e insulso e comincia ad aleggiare non appena qualcuno domanda: “Com’è la scena musicale contemporanea?”. Inoltre mantiene viva la speranza che al momento il summenzionato stato degli affari, che si presume tragico, possa essere migliorato. Per “tutti”. La parola tutti è importante per le persone che usano quella frase. Nella loro mente il sistema di distribuzione fisico funzionava per tutti. Il nuovo non funziona. Non ancora almeno, non ancora. Non fino al momento in cui “capiamo”. Sono sicuro che ci annoieremo presto provando a capire (serie di gesti)

Non sono d’accordo che il vecchio sistema sia migliore. E non credo che questa frase abbia alcun fondamento: “Dobbiamo capire come far funzionare per tutti questa distribuzione digitale”. Sono contrariato perché nella banalità dell’assunto sono nascosti taciti presupposti: la struttura di un sistema speculativo con cui ho lottato una vita intera. In quella frase scontata “Dobbiamo capire come farlo funzionare per tutti”, si nasconde lo scheletro di un mostro.

Cominciamo dall’inizio “Dobbiamo capire”: il soggetto della frase, la prima persona plurale, suona inclusivo ma il contesto demolisce questo presupposto. Chi avrebbe le potenzialità per rendere operativo un nuovo modello di distribuzione? Chi siederebbe al tavolo nel caso dovessimo discuterne la pianificazione? Chi analizzerebbe i termini della comprensione che si suppone dovremmo ottenere? L’industria e i consumatori? I consumatori sarebbe una risposta probabile, ma i consumatori hanno mai avuto alcuna possibilità di voto riguardo a come la loro musica dovrebbe essere compressa o etichettata o protetta da copia o resa volatile? Qualcuno ne ha mai avuto l’opportunità? Il consumatore ha avuto la capacità di scegliere se la Apple dovesse o meno piazzare un disco degli U2 nella sua libreria di iTunes? Naturalmente no. Queste cose sono state fatte e abbiamo dovuto confrontarci con esse come fatto acquisito. I consumatori che si ribellano o si lamentano delle cose – “rifiuto del mercato” – non è la stessa cosa che essere coinvolti nella decisione di fare una determinata azione. Chiaramente il “noi” della frase non include gli ascoltatori. Penso che ogni tentativo di organizzare la scena musicale che non tenga conto degli ascoltatori sia destinato all’insuccesso.

Che ne dite dei gruppi allora? Pensate che le bands debbano prendere posto al tavole del “noi”, mentre si confrontano i nostri bisogni di comprensione? Naturalmente no. Se chiedete ad una band cosa vuole – lo so perché sono in una band e ho a che fare con altre bands ogni giorno – è solo la possibilità che la propria musica abbia un’esposizione e la possibilità di venir retribuita dal proprio pubblico. Penso che l’attuale modus-operandi soddisfi in pieno la prima di queste condizioni e la seconda almeno in pari misura al vecchio modello delle etichette discografiche.

Allora chi sarebbe questo “noi”? Le parti amministrative della vecchia industria discografica, ecco chi. Le etichette a sistema verticale che detengono i diritti di molta musica. Loro vogliono capire. Vogliono stabilire l’agenda. E vogliono armeggiare a livello strutturale. Le bands, il pubblico, chi fa la musica e chi la compra – sono palesemente fuori discussione.

foto di Lino Brunetti

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Che dire della parola “dobbiamo”, noi “dobbiamo” capire? Dobbiamo significa in effetti “vogliamo”, una preferenza. Questi avanzi dell’industria discografica sono chiaramente insoddisfatti di come internet, le bands e il pubblico possano fare del tutto a meno di loro. Così preferirebbero cambiare le cose in modo da ristabilire la loro importanza. Lo si può notare nell’ondata di contratti a 360 gradi che si stanno offrendo ultimamente, secondo cui ogni cosa fatta dalla band, dalla musica alle magliette fino agli account di Twitter, sono proprietà della casa discografica. In cambio l’etichetta offre una somma iniziale. Credo che questo sistema sia destinato al fallimento per via dell’esistenza di siti come Kickstarter, che si è dimostrato più efficace ed efficiente nel raccogliere fondi direttamente dal pubblico che vuole sostenere la musica.

Vogliamo parlare anche del verbo infinito “capire”? Dobbiamo “capire”. Si suppone che dovremmo sapere come attaccare un’impresa di distribuzione globale molto tempo dopo che internet ha autofinanziato una maniera efficiente ed indolore per fare esattamente la stessa cosa. C’è una ragione perché il rubinetto dell’acqua non è cambiato radicalmente nel corso degli anni. Il tempo e l’esperienza hanno dimostrato che il modo migliore e più semplice per regolare l’acqua calda è la rotazione di una manopola. Risolto il problema, non esistono altri problemi da risolvere riguardo il rubinetto dell’acqua. Non credo di essere il solo ad essere costantemente infastidito dal frequente mancato allineamento dei rubinetti nei bagni pubblici. Provate ad immaginare se l’ascolto della musica fosse altrettanto frustrante.

La parte successiva della frase: “far” funzionare la distribuzione. Questo implica che si abbia il controllo della distribuzione, che si abbia la possibilità di fargli fare determinate cose e non altre. Internet prova che questa è una fallace illusione. Una volta che abbiamo rilasciato della musica, essa è al di fuori del nostro controllo. Uso il termine “rilasciare” perché è parte del gergo comune. Ma penso sia la parola perfetta. Ancora più appropriata, se si pensa a cosa accade quando si rilasciano altre cose, diciamo un uccello o un peto. Quando li si rilascia essi sono liberi nel mondo e il mondo reagirà alla loro presenza o li utilizzerà come meglio conviene. Il peto farà arricciare il naso fino al momento in cui non svanisce. L’uccello potrebbe volare all’esterno e cacare su qualche parabrezza; qualche contadino potrebbe perfino sparargli. E’ stato rilasciato così non abbiamo più alcun controllo su di lui. Non si può far tornare il peto, per quanto lo si desideri. Non è possibile proteggere l’uccello.

Distribuzione è una parola problematica. Il suo significato primario implica scarsità e stanziamento di prodotti fisici. Li si può inventariare, li si potrebbe tassare, sdoganare e si potrebbe cercare qualcuno che li imballi. Nessuna di queste azioni è valida per i files digitali. Se fosse possibile ricondurre i files digitali allo stretto controllo delle case discografiche (è possibile, non preoccupatevi), quale sarebbe il loro incentivo per rimanere onesti nel calcolo? Nel modello di distribuzione fisica era possibile inventariare i titoli in magazzino con una verifica e compararli con i documenti di consegna dell’impianto di stampaggio dei dischi, e sapere con un buon grado di accuratezza quante copie erano state vendute. Come si può pensare di inventariare dei files digitali? Contare quanti ne sono rimasti sullo scaffale?

Quella è una parola problematica. Ma il termine più problematico della frase è “funzionare”: dobbiamo capire come farla “funzionare”. Funzionare è un termine impossibile applicato a questo contesto. A seconda di chi lo utilizza, può avere significati contraddittori. Per un’etichetta il sistema funziona se genera un profitto per ogni riproduzione, accesso controllato alla musica per consentire alle compagnie pubblicitarie di arrivare al pubblico e quindi generare ulteriori profitti, e permettere l’applicazione di un marketing di spinta per le promozioni. Per l’ascoltatore “funzionare” significherebbe invece libero accesso, possibilità di trovare musica specifica o di nicchia, assenza di limiti alla riproduzione, mancanza di disturbi, facilità d’uso, libertà dallo spionaggio, costi minimi o del tutto assenti, possibilità di utilizzo su diversi apparecchi, assenza del marketing di spinta e della pubblicità. Per una band il termine significherebbe scovare un pubblico e non avere barriere che ne ostacolino il coinvolgimento, e nessun limite alla quantità di materiale reso disponibile. Si può osservare chiaramente in che termini tutto questo sia problematico. Per un sistema è letteralmente impossibile soddisfare contemporaneamente tutte queste esigenze quando sono in contraddizione tra loro.

E gli approcci ibridi finora tentati sono goffi e offensivi. Recentemente ho provato ad ascoltare in streaming un podcast su un sito con una licenza ufficiale. Quando i miei gatti hanno cominciato a litigare mi sono assentato per un momento, costretto a separarli e poi nutrirli e infine calmarli. Quando sono tornato al computer, ho provato a ri-suonare gli ultimi minuti del podcast che mi ero perso ma mi è comparso un messaggio che specificava che a causa di accordi sul copyright, il player non era autorizzato a tornare indietro col podcast. Mi è sembrato inimmaginabile che chi aveva postato il podcast volesse che quella opzione fosse disabilitata. E il sito assicurava che non avrei più avuto problemi con il loro prodotto.

La conclusione della frase, “per tutti” è altrettanto problematica. Non penso sia necessario o perlomeno preferibile coinvolgere chiunque nella definizione dell’esperienza con la musica o più in generale del rapporto tra una band e il suo pubblico. Accettiamo di norma che i negozi di dischi, che erano il volto benevolo dell’industria e il recipiente per tutto il supporto promozionale descritto in precedenza, non si stanno adeguando allo sviluppo dell’era digitale. Il fattore d’attrazione dei negozi di dischi adesso risiede nel mercato dei dischi di seconda mano, qualcosa che l’industria discografica considerava come spazzatura. E trattando materiale specifico e di nicchia che è troppo marginale per l’attenzione delle corporazioni, non sono chiaramente parte del “tutti” citato nella frase.

Così non c’è alcuna ragione di insistere affinché altre agenzie ed uffici ormai obsoleti di un’era estinta siano traghettati nella nuova. L’industria musicale si è ridotta. Nell’opera di restringimento ha perso il baricentro, lasciando che le bands e il pubblico consolidassero la propria relazione dalle proprie posizioni estreme. Lo considero un processo salutare e al tempo stesso eccitante. Se abbiamo imparato qualcosa nel corso degli ultimi 30 anni, è che, abbandonati ai propri mezzi, le bands e il proprio pubblico possono intendersi a meraviglia: le bands sono riuscite a capire come esporre la propria musica ad un pubblico e il pubblico capirà come ricompensarle.

Internet ha facilitato l’instaurarsi di un rapporto tra gruppi e pubblico, che è il più diretto, efficiente e compatto di sempre. E non rimpiango la perdita di tutti quegli uffici dediti all’inefficienza che sono scomparsi nell’attuarsi del processo. Suppongo che della gente sia senza lavoro. Ma la stessa cosa è successa quando l’automobile ha sostituito il cavallo, e tutti i fabbri hanno dovuto adattarsi, trascorrendo il loro tempo facendo cancelli da giardino anziché ferri di cavallo.

Stamattina in aereo mentre rileggevo queste note mi sono accorto di aver impiegato troppo tempo facendo una conta delle proteste e non voglio concludere senza ribadire quanto terribile sia l’attuale ambiente musicale. Vedo sempre più gruppi e ascolto sempre più musica come mai mi era capitato prima nella vita. Ci sono più concerti, più canzoni disponibili di quante ce ne siamo mai state, le bands sono trattate con maggior rispetto, e hanno maggiore controllo sulle loro carriere e il loro destino. Le vedo andare avanti come una costellazione di imprese alcune grandi, alcune piccole – piccole perlopiù ma con una risposta più immediata da parte del pubblico e un’accresciuta opportunità di successo. Sinceramente è eccitante.

Ho parlato scandalosamente a lungo, ma non ho ancora menzionato il dibattito sulla proprietà intellettuale. Proverò a sviscerarlo brevemente ora. Vorrei lasciare spazio alle domande dopo aver concluso, e nonostante ciò sto escludendo un sacco di cose – l’editoria, furti di crediti, campionamento, uso equo, l’ispirazione – sospetto che ci sarà una sana discussione al termine e penso sia necessaria e doverosa.

Da parte mia, credo che il vero concetto di proprietà intellettuale esclusiva in relazione alla musica incisa sia giunto ad un naturale termine, o qualcosa che assomiglia molto ad una fine. La tecnologia ha trasformato in primario il bisogno di estendere alla musica il significato della parola “rilasciare”, valida nel caso di un uccello o di un peto. Non è più possibile mantenere il controllo sul materiale digitale e non credo sia di pubblica utilità tentare di farlo.

Sarebbe di grande utilità pubblica, lasciare che la materia creativa venga consegnata alla pubblica proprietà. La legge sul copyright è stata modificata in maniera tanto estesa nel corso dei passati decenni che attualmente non viene praticamente mai applicata, creando situazioni assurde ogni volta che i diritti di copyright vengono impugnati. Esiste un’enorme quantità di materiale che non è di pubblico dominio, benché i detentori dei diritti, gli autori e i creatori siano morti o scomparsi dal mondo degli affari. E questo materiale, da un punto di vista legale ora rimosso dalla nostra cultura – nessuno può copiarlo o ripubblicarlo perché ancora soggetto a copyright.

Altre situazioni assurde abbondano: tecnicamente l’uso innocuo della musica come sottofondo a video fatti in casa o a progetti realizzati da studenti costituisce una violazione e ostacoli ufficiali sono stati istituiti per prevenirla. Se volete un video del ricevimento del vostro matrimonio – il primo ballo di vostro padre con la sposa – è vietato a meno che non sia silenzioso. Se vostra figlia piccola balla in maniera stravagante una canzone di Prince non pensate nemmeno di mettere il filmato su YouTube in modo che i nonni possano guardarlo altrimenti un nano color porpora con le chiappe al vento vi farà un’ingiunzione. Ho per caso offeso il piccino? Fanculo. La sua musica è veleno.

La musica pervade l’ambiente come un elemento atmosferico, come il vento, e per via di questa capacità non dovrebbe essere soggetta a controllo e ricompensa. Certo, non fino al momento in cui i detentori dei diritti mi concederanno di prendermi una rivincita a riguardo. Pensate che le mie capacità di ascoltatore valgano qualcosa, OK allora, anch’io. Suona una canzone di Phil Collins mentre faccio la spesa? Pagatemi 20 dollari. Def Leppard? Facciamo 100 dollari. Miley Cyrus? Non stampano banconote di valore alto abbastanza”.

EVA’S MILK “Eva’s Milk”

EVA’S MILK

Eva’s Milk

Fuego Records

evasmilk2014

Novaresi, cantano in italiano e sono al terzo disco per questa label tedesca, imperscrutabili viaggi tortuosi del music business. Ma poco importa il contorno quando nella musica c’è la sostanza, che agli Eva’s Milk non fa certo difetto. Se li conoscete già, magari con il precedente Zorn, vi dico subito che le cose in questo nuovo lavoro sono decisamente cambiate. Basta ascoltare la prima canzone, Pendulum, per rendersi immediatamente conto di qualcosa di diverso in questa ballata dal sapore western, un’apertura certo non usuale per chi ci ha abituato a ben altri volumi e pesantezze. Niente di cui preoccuparsi, la canzona è bellissima e poi l’ipnotico martellamento percussivo della seguente Io Odio i Rockets rimette in pista la consueta carica stoner grunge. Ma dopo Patti Coi Luciferi (ancora dolcemente sospesa tra tradizione psichedelica americana e la canzone d’autore) e Consolamentum (nuovamente dura e melvinsiana) si ha quasi la certezza che i tre si sono spostati su un territorio musicale di più ampio respiro e in grado di dare loro maggiore libertà d’espressione. La scelta dell’autoproduzione va sicuramente in questa direzione ma attenzione: il mastering è di un guru di Seattle, Chris Hanzsek, che ha lavorato con il meglio della scena alternativa di quella città. Justine è delicata ma con un super ritornello che esplode violento e melodico, Il mare sordo viaggia su territori più pop, Toy Boy e L’Orrore si veste sottile martellano tra noise e punk vecchia scuola. Doombooh è guarda caso un doom lento e melmoso che viene stemperato dalla tranquilla Fontanelle e poi chiudono la confezione con Lì è il domani, nervosamente sospesa tra delicatezze acustiche e fragorosi crescendo. Di certo una strada non semplice quella intrapresa dal terzetto, cioè quella di una chiara intenzione di diversificare ed ampliare il proprio repertorio. Ma il bello sta proprio qui, quando ci si evolve senza snaturare la propria essenza è un gran bel colpo e gli Eva’s Milk ci sono riusciti alla grandissima.

Daniele Ghiro

SULA VENTREBIANCO “Furente”

Furente-cd-cover

Furente è il nuovo album dei SULA VENTREBIANCO (Ikebana Records). E’ un bel titolo. Ed è anche un assist perfetto, perché non esiste parola migliore per descrivere il furente avvio della tribale Notre Dame: un’assalto all’arma bianca tra possenti riff di chitarra e rabbiose scudisciate della sezione ritmica. Il fatto è che terminata la canzone e ripresi un’attimo dalla sorpresa parte Mani di Piuma che incredibilmente è ancora meglio, atmosfera cupa, tesa, ma nello stesso tempo delicata nel suo contorcere melodie sopraffine e durezze metalliche. E’ qui che i Sula Ventrebianco fanno la differenza, hanno l’indubbia capacità di rimanere melodici e ancorati alla tradizione cantautorale italiana pur muovendosi in un contesto musicale assolutamente all’opposto, fa testo a questo proposito la melodia sudista (intesa come Sud Italia) che pervade Di Striscio che pur rimanendo in territori ultra elettrici rimanda spesso a quei ritornelli solari tipici della tradizione partenopea. Parte in maniera più tradizionale Cumulonembo che porta lo stoner in oriente e mette in luce lo strano ma efficacissimo modo di cantare di Sasio Carannante, ma poi ha ancora la capacità di trasformarsi in altro. L’unica cosa che a volte lascia perplessi sono gli arrangiamenti, al primo ascolto spiazzano e paiono esageratamente spinti in qualche occasione, vedi la comunque bella Lingua Gonfia che mette in gioco tanta (forse troppa) roba ma che è solidamente costruita sul desiderio di spingersi un gradino più in là e Subito Prima delle Onde che si adagia su una chitarra fin troppo caratterizzata ed un dolcissimo finale. Ma sono solo sfumature, che si stemperano man mano che il disco entra in circolo e che nulla tolgono al valore della loro musica, anzi fanno capire quanto siano in grado di mettere sul piatto i quattro napoletani, alzando sempre la posta, quasi incapaci di andare via lisci e tranquilli accontentandosi. Ma si sa, chi non risica non rosica, questo alla fine è un punto a favore perché poi, quando nessun orpello si manifesta, si materializzano alla grande Glory Hole e Allo Specchio che vanno giù dirette e pesantissime. Grano è la colonna sonora di un deserto nostrano che non c’è (o forse si, fatto di lava vulcanica) con psichedelia e distorsioni che pervadono l’intenso finale. Spazio anche per una super ballatona, Cornelio, mai melensa e capace di donare perle di struggente malinconia, costruita su una melodia blueseggiante e cristallina. Stupisce veramente constatare che i Sula Ventrebianco hanno così tanti punti di riferimento mischiati ed amalgamati alla perfezione da risultare per assurdo talmente originali da faticare probabilmente a trovare un proprio specifico pubblico. Concludono in gloria con il roboante finale di Così Finta. Furenti, sensibili, bravi.

Daniele Ghiro