GIANLUCA CHIARADIA “Sogni Al Microscopio”

GIANLUCA CHIARADIA
Sogni Al Microscopio
Babao Dischi

chiaradia

Gianluca Chiaradia, classe 1991, è un chitarrista e cantautore veneziano, esordiente qualche anno fa con Seriamente Ironico, ora giunto al secondo lavoro con l’album Sogni Al Microscopio. Il suo è un cantautorato molto classico, tutto basato su arrangiamenti precisi ed eleganti, sulla solidità di testi ben scritti e in equilibrio tra leggerezza e serietà dei sentimenti, su quel pizzico di varietà che rende l’ascolto sufficientemente eclettico e piacevole (Metodi dal substrato un po’ più rock; Lettera Da Londra che tra violino e fisarmonica ha trama e passo da folk popolare; le infiltrazioni jazz e funk di Cose Che Finiscono; quelle sottilmente reggae di Cinepanettone; una ballata notturna e pianistica come la toccante In Fondo A Me). Chiaradia scrive bene, ha un bel tocco sulla chitarra (acustica in particolare) ed è aiutato da una bella squadra di musicisti (rifulgono il piano di Marco Ponchiroli e le linee di basso di Alessandro Fedrigo). Se un appunto vogliamo fare, problema tra l’altro comune a moltissimi dischi di questo genere, è la constatazione di un’adesione fin troppo ligia agli stilemi dell’universo cantautorale, la mancanza di un pizzico d’azzardo, del coraggio (anche produttivo) di uscire dal seminato, dell’intenzione d’immetere l’elemento alieno capace di spiazzare, prendendosi il rischio di rovinare la perfezione formale. Così com’è è un buon disco, intendiamoci, e credo che tutti gli appassionati del cantautorato italiano ci si possano ritrovare facilmente.  Io, però, ho la netta sensazione che ci possano ancora essere ampi margini di manovra e le capacità per poter intraprendere un percorso ancor più personale.  Staremo a vedere.

Lino Brunetti

CHRISTOPHER PAUL STELLING “Labor Against Waste”

CHRISTOPHER PAUL STELLING
Labor Against Waste
Anti/Self

10723940-921955494493144-1660504926-n

Ha tutte le caratteristiche dell’hobo, del troubadour, del folksinger vecchio stampo Christopher Paul Stelling. Nato In Florida, a Daytona Beah, dopo aver mollato il college, s’è messo a vagabondare per gli Stati Uniti, soggiornando brevemente in posti quali il Colorado, Boston, Seattle, il North Carolina, per approdare infine a New York, Brooklyn per la precisione. Non che pure lì si sia fermato poi così tanto, visto l’enorme numero di concerti che si sciroppa ogni anno (quattrocento negli ultimi tre), ma diciamo che quello è il posto dove in teoria avrebbe casa. Vive on the road Stelling, ancora e sempre alla ricerca di qualcosa che dia un senso al suo vivere, che gli indichi la via per capire fino in fondo chi è se stesso. E cosa di meglio quindi della strada, dei mille incontri che offre, della necessità di adattamento a cui ti obbliga, del modo in cui ti costringe a guardare al fondo del tuo cuore e della tua anima. Musicalmente parlando, le radici da lui stesso dichiarate stanno dalle parti di bluesmen quali Skip James e Mississipi John Hurt, geni come John Fahey, grandi banjo players come Dock Boggs e Roscoe Holcomb. Noi, per buona misura, ci aggiungeremmo almeno il primo Dylan, giusto per far quadrare il cerchio. Prima di questo esordio su Anti, aveva già pubblicato due dischi, Songs Of Praise And Scorn del 2012 e False Cities del 2013, ma sarà probabilmente con questo Labor Against Waste che finirà con il lasciare il segno. E questo non perché la sua sia, come potete intuire, musica particolarmente originale, ma perché viva e pulsante, sincera nel suo amalgamare i suoni della grande tradizione americana pre war e folk con il cantautorato di personaggi come Bob Dylan e Van Morrison, sporcando il tutto con il country fuorilegge di Waylon Jennings, con un pizzico di giovanile furia punk, ma pure con quel necessario soffio “pop”, tanto da avere la possibilità di diventare beniamino anche di quanti amavano i primi Mumford & Sons. Dotato di grandissima tecnica chitarristica – ascoltare per credere – Christopher Paul Stelling ha una voce autentica e una buona mano nello scrivere canzoni efficaci, a partire dalle ruspanti Warm Enemy e Revenge, passando per una splendida ballata come Scarecrow, per un indiavolato bluegrass quale Horse, per una gotica e drammatica Death Of Influence (potreste immaginarvela nel repertorio di Dylan, come di Wovenhand o degli O’Death), per l’emozionante crescendo di corde e violino di Dear Beast. Il tutto con l’ausilio di voce, chitarre acustiche, un violino, qualche percussione e poco più. Disco fresco e pimpante, nel genere tra i migliori dell’anno.

Lino Brunetti

SHANE DE LEON/FABRIZIO TESTA + MISS MASSIVE SNOWFLAKE “So Sweet”

SHANE DE LEON/FABRIZIO TESTA
Untitled
Autoprodotto

MISS MASSIVE SNOWFLAKE
So Sweet

North Pole-Wallace

foto1

Il sempre impegnatissimo FABRIZIO TESTA, questo mese, lo troviamo in combutta con SHANE DE LEON dei Miss Massive Snowflake, in un singoletto contenente tre pezzi senza titolo nel quale il primo si occupa di chitarra acustica, clarinetto e field recordings, mentre il secondo scrive i testi e canta. Tre incantevoli canzoni acustiche che confermano la bravura come songwriter di De Leon ed il talento multiforme di Testa. Per saperne di più: testafabrizio.blogspot.fr A questo punto, cogliamo l’occasione per segnalarvi che, pochissimo tempo fa, gli stessi MISS MASSIVE SNOWFLAKE sono tornati nei negozi con un dischetto breve (sotto i 25 minuti) ma stipatissimo di canzoni pimpanti ed irresistibili. So Sweet vede il trio americano alle prese con otto canzoni (tra cui una cover di Turn Me On di Nina Simone) di cantautorato rock inventivo e dalla scrittura sempre sopraffina, ottimamente servito da trame strumentali avvolgenti ed opportunamente cangianti. È dai tempi dei mitici Rollerball – di cui per oltre un decennio ha fatto parte – che De Leon vive nei meandri della musica più di nicchia e laterale. Ed è un peccato vero perché, ve ne rendereste facilmente conto ascoltandole, innamorarsi delle sue canzoni è proprio questione di un attimo.

Lino Brunetti

a1239963049_10

So Sweet

IL LUNGO ADDIO “Pinarella Blues”

IL LUNGO ADDIO

Pinarella Blues

Wallace-TB/Audioglobe

pinarella-blues

Dal 2010 ad oggi, a nome Il Lungo Addio sono usciti la bellezza di 6 CDr ed un 7″, a dimostrazione di una prolificità difficilmente contenibile. Se poi consideriamo che dietro la sigla si nasconde quel Fabrizio Testa a sua volta intestatario di un paio di dischetti – con un terzo presto in arrivo – usciti anch’essi nello stesso periodo, la faccenda assume contorni ancora più chiari. Pinarella Blues è il suo primo disco ufficiale, nel senso che per la prima volta c’è una vera etichetta – o meglio, due – a sostenere il progetto. Il quale, nelle sue linee generali, non cambia, riproponendo una assai particolare canzone d’autore, plumbea e drammatica. Quello che c’è di fortemente diverso, rispetto al passato, è che anziché essere solo una faccenda di voce e chitarra, qui Testa è accompagnato da una band a basso e batteria, a dare una nuova spinta al suo suono, senza dubbio più rock che in passato. Per il resto, non cambia l’immaginario, fatto di storie ambientate lungo la riviera romagnola; non cambia il modo di raccontarle, in narrazioni che mescolano abilmente tristezza e dramma ad un’ironia esplicitata attraverso il ricorso a particolari fortemente visivi; non cambia il modo d’interpretarle, con una voce baritonale ed enfatica, a sua volta così carica da sottolineare ulteriormente quell’ironia di cui parlavamo poc’anzi. Sette tracce in diciotto minuti che portano titoli quali Pinarella BluesL’ultima FotografiaHotel Karim, giusto per citare le mie preferite. Sono canzoni stranianti, sia pur nella loro limpida chiarezza, che ancora una volta affascinano per la loro trasversale originalità. Per ulteriori info: www.illungoaddio.it

Lino Brunetti

BLESSED CHILD OPERA “The Darkest Sea”

BLESSED CHILD OPERA

The Darkest Sea

Seahorse Recordings/ Audioglobe

a0620875279_10

Da anni il napoletano Paolo Messere è figura importante dell’underground musicale italiano, nelle molteplici vesti di produttore, discografico (sua la Seahorse) e musicista, dapprima in formazioni quali Silken Barb Ulan Bator, poi, dal 2001, a capo dei Blessed Child Opera, senza ombra di dubbio la sua creatura più personale e sentita. In una discografia che, con quest’ultimo, consta ormai di ben sei dischi, Paolo ha costruito un corpus autoriale intenso e denso di grande musica, con una sua sempre marcata coerenza, pur tra i mille cambi di formazione. Il nuovo The Darkest Sea si presenta con una copertina nera ed espressionista, resa affascinante dai disegni di Felice Roscigno, i quali ben introducono ai contenuti dell’album. La base sarebbe come sempre il rock ed il folk americano, ovviamente visto da una prospettiva gotica e profondamente dark. I referenti possibili sono molteplici: da un David Eugene Edwards affiorante in più episodi, al cantautorato sofferto di Mark Kozelek, dalla malinconia folk dei Willard Grant Conspiracy, alle ombre blues di un Hugo Race. Spesso il cuore di queste canzoni è acustico, anche se poi, attorno ad esso, fiorisce un pulsare elettrico e rock, capace d’inglobare anche elementi wave. E se non sempre la scrittura è realmente memorabile, il tutto viene supplito dalla costruzione di un mood unitario ma ricco di sfumature, dal suono veramente evocativo e stellare. Si passa così da ballate dark quali I Had Removed Everything a stilettate rock a là Woven Hand come Blindfold, dalle distorsioni sature di A Lazy Shot In The Belly ad un pezzo degno del migliore Kozelek come In The Morning (I Do Upset The Plans), una delle cose migliori del disco, con un passo ipnotico e mantrico. Ma parlavamo di sfumature diverse: I Look At You (But I Already Know Your Answer) tra rintocchi di banjo ed electronics penetra in oscure ed abissali profondità, sfiorando la ieratica ed allucinata arte dei Current 93; per contro, Friends Faraway ha un più sereno e classico impianto folk, mentre December Wind chiude tra vibrante tensione wave. Registrato in Sicilia, The Darkest Sea guarda oltreoceano virando le musiche di quei lidi in suoni che fanno filtrare ben poca luce. Se gli artisti citati sono nelle vostre corde, una discesa fra queste onde dovrebbe essere di vostro gradimento.

Lino Brunetti

STONE JACK JONES “Ancestor”

STONE JACK JONES

Ancestor

Western Vinyl/Goodfellas

Stone-Jack-Jones-Ancestor-large

Chi è Stone Jack Jones? Forse l’uomo misterioso che, sulla copertina del suo ultimo disco, cammina verso un paesaggio sconosciuto, tra le brume di una sterminata pianura americana? Discendente di quattro generazioni di minatori di carbone, provenienti dalle rive del torrente Buffalo (WV), dopo essere stato respinto dal servizio militare al tempo della guerra del Vietnam a causa dell’epilessia, e dopo essere rimasto deluso dagli affari nell’ambiente minerario, scelse la vita da girovago. Questo lo portò a svolgere i lavori più disparati: giostraio, illusionista, ballerino, suonatore di liuto, fino ad avere un numero in un club notturno di Atlanta. Dopo tutto questo peregrinare, approdò infine a Nashville, dove incontrò le persone giuste per dare finalmente forma al suo talento artistico in personaggi quali il produttore Roger Moutenot e musicisti come Patty Griffin e Kurt Wagner. Il risultato di questo fruttuoso incontro è Ancestor, terzo disco di questo ancora sconosciuto artista. L’album si apre con poche precarie note di banjo che ci portano subito in un mondo fatto di vagabondi e cantastorie in piena tradizione folk, anche se il brano prende subito un andamento più cupo, vuoi per la voce che velatamente ricorda Mark Lanegan, vuoi per la lenta cavalcata notturna, quasi gotica, sostenuta da un coro di voci maschili. Questa era O Child, un’invocazione forse al bambino che è dentro di noi, punto di partenza e punto di arrivo di questo viaggio  che è l’esistenza. Stone Jack Jones ha scelto di realizzare questa ricerca attraverso un trip autobiografico introspettivo, servendosi dell’arte e, in questo caso, delle undici ballate di Ancestor. La romantica e nostalgica Jackson è la seconda tappa del nostro viaggio: le stelle non cadono dall’alto su Jackson è quello che il ritornello sostenuto da un controcanto femminile, in pieno ambiente country, tra chitarre acustiche, piano elettrico ed un organetto quasi circense, ci rammenta. Storie di sbornie e di sbandamenti e della speranza di una storia d’amore, a Jackson. Black Coil ci trascina invece giù nei sotterranei delle miniere di carbone, ambiente famigliare all’autore: cori e armoniche insieme ad un incedere pressante delle chitarre ci fanno esplorare le gallerie e le miserie di questa categoria di lavoratori. La tranquilla State I’m In ci conferma il carattere notturno di quest’opera: fa un’apparizione una tromba e un sottofondo di voci ricrea l’ambiente di un club fumoso. Voci e presenze si sovrappongono e contrastano col cantato intimo che è appena cessato. Ci si risveglia con Joy, più colorata e ottimistica: questa volta il banjo suona in maniera più netta, accompagnato dall’armonica e da un coro gospel.  Non si fa in tempo a credere a Joy, che la bella Red Red Rose, cantata a denti stretti, riporta un tono più drammatico e solenne; inevitabile qui un’accostamento a Wovenhand. Un rullante, sul finale, sottolinea questo sentimento, cadenzando una marcia che non lascia nell’aria buoni auspici. Way Gone Wrong, nonostante il titolo, fila via liscia: altra bella canzone, con un più sostanziale piglio rock, diurna se vogliamo contrapporla a quelle più oscure e crepuscolari. Se la notte segue il giorno, con Anyone vi ripiombiamo: introdotta da un organo, questa volta il dramma si fa più vicino, meno declamato, intimo. Anyone ha l’aria di essere una sorta di confessione, nonché il punto cruciale del percorso.  Pianoforte e organo per Good Enough For Me, insieme ad un coro per intonare un gospel sofferto e molto personale. Con  Marvellous ci avviciniamo alle pacate considerazioni finali, un chiaro inno all’amore nel rispetto della tradizione americana: ritorno verso casa, l’amore e cose semplici e buone. Chiude Petey’s Song che ha proprio l’aria di un commiato, in mezzo ad arpeggi acustici e nostalgiche armoniche in dissolvenza. Gli undici brani sono molto coerenti tra loro e fanno del disco un corpo unico, da ascoltare sempre dall’inizio alla fine. È grazie a dischi come questo che il genere folk rivive e si rinnova continuamente.

Maurizio Misiano

 

FLASHBACK MAGAZINE: intervista a RICHARD MORTON JACK

Non occorre essere fini analisti delle faccende musicali, per rendersi conto dell’appeal che la musica del passato (e ci riferiamo ovviamente a sixties e seventies soprattutto) ha ancora oggi su miriadi di appassionati. I germi di quanto accaduto, grosso modo, fra i primi anni sessanta e la prima metà del decennio successivo, non solo sono facilmente riscontrabili nella musica di un buon 90% (probabilmente una stima per difetto) delle bands contemporanee, ma continua ad essere di scottante attualità grazie al remunerativo mercato delle ristampe, dei box retrospettivi, financo del disseppellimento e della (ri)scoperta di oscure e misconosciute pepite musicali risalenti all’epoca. Si, perché oltre alle celebrazioni ovvie nei confronti delle grandi e conosciutissime star, mai come in questi anni si era assistito ad una simile corsa alla ristampa e, in alcuni casi, addirittura alla riscrittura della storia. Se è vero, infatti, che le grosse Major campano rivendendo, per l’ennesima volta, gli stessi dischi ai soliti appassionati, che per qualche traccia in più farebbero follie, è anche vero che non è minimizzabile il successo, sia pur di nicchia, di etichette dedite alle ristampe di dischi e nomi, spesso di assoluto culto, quali Rhino, Sundazed, Sunbeam, Light In The Attic, Ace, Cherry Red, Munster e molte, molte altre. Labels, tra l’altro, che, è il caso di dirlo, mettono una cura nelle loro ristampe, il più delle volte superiore a quello di molte Major. Persino il mondo delle riviste musicali non è esente da questa fascinazione; e non parlo solo degli articoli presenti in un po’ tutte le riviste italiane, Busca compreso, o dei numeri monografici e degli speciali allestiti da magazines quali Uncut e Mojo, quanto di riviste dedite esclusivamente alla musica del passato, vedi l’inglese Shindig! o l’americana Ugly Things. Proprio in questo settore, da un paio d’anni, s’è inserita una nuova pubblicazione, anch’essa inglese, ovvero il semestrale Flashback. Concepita e diretta da Richard Morton Jack – giornalista, scrittore di tomi quali “Galactic Ramble”, “Endless Trip”, “I Led Zeppelin dalla A alla Z” (l’unico tradotto in italiano), co-fondatore della Sunbeam Records – Flashback è per molti versi una rivista speciale e diversa da tutte le altre. Basterebbe anche solo tenerla in mano per rendersene conto: un tomone di oltre ducento, fitte pagine, stampata su una bellissima carta lucida, tanto da sembrare più un libro di grosso formato che non una rivista. Come in qualche modo esplicita già il suo sottotitolo – Psych, prog, jazz, folk, blues & beyond! – Flashback è una rivista dall’identità ben definita: innanzitutto, a parte che nella rubrica Jukebox – nella quale un gruppo contemporaneo è invitato a parlare delle canzoni e dei dischi che lo hanno influenzato nel loro fare musica – le lancette del suo orologio si fermano agli anni ’70; poi, la sua attenzione è esclusivamente dedicata ad artisti di culto e nomi non certo a tutti conosciuti delle due favolose decadi. Le “Cover Story” dei primi quattro numeri fino ad ora usciti, sono state dedicate a bands quali Mad River, Tomorrow, Mighty Baby e, sull’ultimo, fresco di stampa, Trees. Altri articoli hanno visto come protagonisti Mandrake Memorial, Montage, Hunter Muskett, Morgen, Dragonfly, The Common People, Tripsichord Music Box, senza dimenticare articoli dedicati ai 50 singer-songwriters più sottovalutati, all’analisi fra le edizioni mono e stereo di alcuni dischi del passato, ad un’approfondita carrellata sulle biografie dei musicisti etc. etc. Diverse cose colpiscono di Flashback: l’incredibile qualità della scrittura (anche per via della presenza di alcune autorevolissime firme), l’accurata e dettagliata precisione e profondità dei suoi articoli (giusto un esempio: la disamina della storia e della musica dei Trees si stende sulla bellezza di 33 pagine, con interviste a tutti i membri della band!), il sorprendente apparato iconografico, con rare foto d’epoca, riproduzioni d’articoli tratte dalla stampa del tempo, materiali promozionali, persino la riproduzione dei contratti firmati dalle bands con le case discografiche! Per molti versi, uno schiaffo al giornalismo pressapochista che spesso si trova su Internet (ma non solo, purtroppo), Flashback è una testimonianza di passione ed amore assoluta nei confronti di un’era, della sua musica, dei suoi protagonisti. Ci è sembrato sano e giusto farla conoscere ad appassionati seri come voi lettori del Buscadero e, per fare ciò, abbiamo contattato Richard Morton Jack per porgergli qualche domanda.

 Cover

Qual è stata la molla che ti ha spinto a creare una nuova rivista musicale?

Alla base della nascita di Flashback, c’è la convinzione che ci fosse spazio per una rivista corposa che andasse a coprire, con spessore e profondità, la musica meno conosciuta dei sixties e dei seventies, concedendo alle sue storie tutto lo spazio necessario a sviscerarle, riproducendo inoltre documenti e materiali d’epoca molto rari. La maggior parte delle riviste musicali tendono a concentrarsi su un numero relativamente ridotto di artisti ben conosciuti, inoltre senza avere un’attenzione speciale e rigorosa ai dettagli e alla ricerca. Per questo motivo la scelta è stata quella di muoversi in un’altra direzione, di andare un bel po’ più in profondità, in modo da poter dare il maggior risalto possibile agli artisti di cui di volta in volta avremmo deciso di parlare. C’è un sacco di entusiasmo tra i giornalisti musicali nei confronti di questo periodo, però non altrettanto rigore. La mia idea, insomma, è stata quella di avere un approccio più erudito, mi auguro bypassando il rischio di sembrare sterile o accademico.

In questi primi quattro numeri, Flashback è stata caratterizzata da una struttura ben definita, con una serie di rubriche e tipologie d’articolo fisse. Pensi che verrà mantenuto questo assetto?

Si, credo proprio che le rubriche fisse rimarranno al loro posto.

Tra queste, una delle mie preferite è “First Person”…

Volevo dare, ad una serie di interessanti personalità, lo spazio per narrare le loro storie, attraverso le loro stesse parole (sull’ultimo numero, Beverley Martyn racconta di Woodstock, Monterey, della Swingin’ London e del matrimonio con John Martyn, NdA). E’ un modo per portare alla luce alcune intriganti informazioni, che non necessariamente riescono ad emergere da un’intervista convenzionale.

Un’altra bella rubrica è “Jukebox”, l’unico vago punto di contatto con la contemporaneità in Flashback…

Si, è così. Come dicevo prima, l’obiettivo di Flashback è quello di parlare approfonditamente di musica vintage. Mi arrivano costantemente album di nuovi artisti da recensire, ed ogni volta devo spiegare: “Mi dispiace, non è quello che facciamo”…

Una delle cose che maggiormente salta all’occhio è la qualità del materiale iconografico: rare foto d’epoca, memorabilia, riproduzione di articoli usciti al tempo e molto altro ancora! Immagino sia tutt’altro che facile reperire questo materiale…

Si, è senz’altro difficile, però una parte essenziale della rivista è proprio far circolare e condividere cose del genere. E’ una cosa che veramente mi sbalordisce il considerare che Flashback è più o meno l’unica rivista che, sistematicamente, fa ricerche per i suoi articoli nella stampa musicale dell’epoca di cui tratta. Quello che intendo è: la storia dovrebbe essere la fonte primaria, giusto? Ci sono delle altre persone che mi aiutano a reperire varie cose e, come loro, sono sempre stato ben felice di condividere con altri le cose rare che mi capita di trovare. Non ho mai avuto tempo, invece, per quei collezionisti che serbano i propri tesori.

flashback-issue-2-the-magazine-you-ve-been-waiting-for.-digital-pdf-download.-752-p

Come scegli gli artisti di cui scrivere?

La “Cover Story” è sempre dedicata ad una band con una storia interessante e, possibilmente, che non sia mai stata sulla copertina di una rivista prima di allora. Gli altri articoli sono dedicati ad artisti che ammiro o che sono stati proposti da qualcuno dei collaboratori. Credimi se ti dico che ho una lunga lista dei desideri di articoli che vorrei veder scritti…

Flashback è colma d’articoli dedicati a bands di culto, sconosciuti eroi del passato. Qual è il tipo di lettore che hai in mente? Pensi che in futuro ci saranno articoli dedicati anche ai grossi nomi della musica che amiamo?

Il lettore che ho in mente è qualcuno che abbia già una cultura di base circa gli acts più conosciuti dell’epoca, ma che al contempo abbia voglia di approfondire le sue conoscenze. Credo fermamente che non ci sia granché di nuovo che possa essere scritto circa i maggiori artisti dell’epoca. Ovviamente amerei moltissimo parlare con Paul McCartney o Jimmy Page, ma solo per porgli specifiche ed oscure domande e non per sapere qualcosa in più del loro ultimo progetto, mentre un PR della casa discografica si agita nell’angolo tenendo d’occhio il suo orologio.

Nello staff di Flashback ci sono alcuni grandissimi scrittori. Giusto per nominarne qualcuno: Richie Unterberger, Aaron Milenski, David Wells o Patrick Lundborg. Come sei entrato in contatto con loro?

Faceva parte delle mie intenzioni pubblicare gli scritti di alcuni dei giornalisti che considero i migliori del campo e che hanno lo stesso occhio per il dettaglio che ho io. Quando ammiro gli scritti di qualcuno, generalmente cerco di entrarci in contatto. Conosco Richie da anni, all’incirca da quando ero uno studente all’università; ho conosciuto per la prima volta Patrick a causa della nostra comune ammirazione nei confronti della genialità dei COB (scrisse una lunga recensione del loro secondo album sul suo sito, Lama Review – http://www.lysergia.com/LamaReviews/lamaMain.htm). Quando iniziai a lavorare al mio libro “Galactic Ramble”, chiesi a Patrick di contribuire e lui mi mise in contatto con Aaron (che considero il più arguto ed autorevole critico d’album al mondo). Con David c’è sempre stata una relazione, probabilmente perché entrambi abbiamo un’etichetta che si occupa di ristampe. Con Scott D. Wilkinson, invece, entrai in contatto quando vidi il suo blog e gli chiesi di collaborare al mio libro “Endless Trip”.

Quanto è difficile ogni volta mettere insieme un numero di Flashback? Qual è la cosa che ti mette in maggiore difficoltà?

E’ uno sforzo ogni volta! A volte è difficile trovare abbastanza materiale illustrativo della qualità appropriata, anche se devo dire che è molto più un piacere che non un’incombenza. Probabilmente, in caso contrario, non lo farei. La parte più difficile è armonizzare le immagini con il testo; fortunatamente, il grafico con cui lavoro, Tony Marks, è un mago, ed è lui che si occupa di tutto questo genere di problemi!

C’è qualche articolo di cui sei particolarmente orgoglioso?

Tra quelli scritti direttamente da me, direi l’articolo dedicato ai Mighty Baby sul numero 3; ha necessitato di un sacco di ricerca e lavoro e ha avuto dettagliati input da tutti i membri della band, che è stato davvero un piacere conoscere personalmente, sono tutte persone fascinose.

Mighty Baby Flashback Issue 3 The Action From Mods to Mecca

Tu sei anche il fondatore della favolosa Sunbeam Records (http://www.sunbeamrecords.com)! Le due attività sono in qualche modo connesse?

Non sono connesse in alcun modo, eccetto per il fatto che entrambe si occupano della musica di uno stesso periodo.

Le ristampe della Sunbeam svettano per l’estrema cura con cui sono realizzate. Quali sono le cose che ti guidano nella scelta di ristampare un disco piuttosto che un altro?

Ovviamente devono essere dischi che mi piacciono in particolar modo. Devono poi essere album che non sono mai stati ristampati prima o, al massimo, la cui ristampa precedente era stata fatta con approssimazione e poca cura. Inoltre, su tutto, amo molto lavorare a stretto contatto con gli artisti stessi, perciò, idealmente, devono essere ancora in giro!

C’è qualche progetto in vista di cui vuoi anticiparci qualcosa?

Attualmente sto preparando una seconda edizione di “Galactic Ramble”, che sarà enorme, e sto compiendo i primi passi nella realizzazione di un nuovo libro, di cui al momento non posso dirti di più…

Cosa pensi della cosiddetta crisi del disco? Credi ci sia un futuro per l’industria musicale?

Io credo che la gente comprerà sempre i dischi in vinile, anche per via del loro intrinseco fascino estetico, mentre probabilmente le vendite dei CD si contrarranno sempre più, nello stesso modo col quale si sono contratte quelle delle cassette (tranne forse per quello che riguarda il mercato degli audiofili). Penso che continuerà ad esserci un’industria musicale fino a che ci sarà qualcuno che continuerà a voler ascoltare della musica. Certo, le basi attraverso cui avverrà quest’operazione continueranno a cambiare. Anche il diverso rapporto tra artisti e fan avrà il suo effetto: oggi è più diretto ed ha senz’altro meno bisogno di una grossa etichetta per concretizzarsi.

Il tuo amore per la musica del passato è evidente, ma qual è il tuo rapporto con il rock contemporaneo? C’è qualcosa che ti piace?

Delle bands contemporanee, mi piacciono Wolf People, Howlin Rain, White Denim, Wooden Shjips ed un pugno d’altre, anche se tendo a ritenere i loro concerti più soddisfacenti dei loro dischi. Andando un po’ indietro, mi piacciono parecchio i Belle And Sebastian e i Voice Of The Seven Woods (non sono sicuro di cosa gli sia accaduto, prova però a cercare The Fire In My Head su YouTube!). Penso che Stephen Malkmus sia un ottimo songwriter e che Luke Haines abbia molto talento. Potrei andare avanti a lungo, con molti e molti nomi. La maggior parte della musica che amo profondamente, però, è quella emersa da quell’esplosione di creatività avvenuta tra il 1964 e il 1973.

Ultima domanda! Puoi segnalarci cinque album pubblicati dalla Sunbeam da avere assolutamente?

Mi stai chiedendo di scegliere fra i miei bambini!! Non c’è nulla di quello che è stato o sarà pubblicato su Sunbeam, che io non giudichi di assoluto valore e meritevole di stare sull’etichetta. Sceglierò pertanto un pugno di album fra i miei preferiti, scelti secondo ragioni del tutto arbitrarie: Dedicated To The Bird We Love degli Oriental Sunshine, A Jug Of Love dei Mighty Baby, Moyshe McStiff And The Tartan Lancers Of The Sacred Heart dei COB, Lily And Maria di Lily And Maria e Volume One degli Human Beast.

Flashback, che ovviamente necessita di una certa conoscenza della lingua inglese per essere letta, non è distribuita in Italia; può essere però facilmente ordinata ed acquistata dal sito http://www.flashbackmag.com/index.html

Un ringraziamento particolare, infine, a Carlo Bordone, che per primo me l’ha fatta conoscere.

blocks_image_0_1

BEST OF THE YEAR 2013 – LINO BRUNETTI

E così eccoci qui anche quest’anno, proprio appena s’affaccia il 2014, impegnati nel solito giochetto dei migliori dischi usciti nei dodici mesi appena passati. Una rassegna – così come sottolineato nella propria dall’amico Zambo – che non può che essere che la risultante dei gusti e degli ascolti solo di chi scrive. Non rappresentativa quindi del Buscadero – quella la troverete sul numero di gennaio della rivista – e alla fine neppure di questo blog – auspico però, che almeno il buon Daniele Ghiro voglia dire la sua su questa pagina. Che anno è stato, musicalmente parlando, dunque, il 2013? Per quel che mi riguarda, molto buono direi. Non sono mancati i dischi belli e, anzi, il problema è stato il solito di questi tempi impazziti, ovvero il districarsi tra le mille uscite che invadono un mercato, magari asfittico dal punto di vista delle vendite, ma sicuramente vivace per numero e qualità delle uscite. E se è vero che manca il disco rappresentativo e che i capolavori veri latitano – ma è così facile poi riconoscere all’istante un disco che rimarrà nel tempo? – e che la musica del presente mai era sembrata così pesantemente rivolta ai vari passati della popular music, è anche vero che un appassionato curioso di muoversi fra i generi, di dischi in cui perdersi, nel 2013, ne ha potuti trovare molti.

Seasons-of-Your-Day-Vinile-lp2

I RITORNANTI

Parallelamente all’immenso mercato di ristampe e box retrospettivi – vera e propria gallina dalle uova d’oro per l’industria musicale nell’ultimo decennio, ne parleremo brevemente più avanti – il 2013 ha visto il ritorno discografico di un nutritissimo numero d’artisti e bands che, chi più chi meno, mancavano dalle scene da tempo innumerevole. Uno dei dischi più favoleggiati degli ultimi vent’anni, il terzo album dei My Bloody Valentine, ha finalmente visto la luce: MBV non ha deluso le apettative, proponendosi sia quale sunto della ventennale attività misteriosa della band di Kevin Shields, che come punto di ripartenza, nuovamente ardito ed originalissimo (gli ultimi tre, quattro pezzi). Altro gruppo di culto, i Mazzy Star, con Seasons Of Your Day, hanno ripreso il discorso interrotto diciassette anni fa, facendoci riprecipitare fra le loro ballate oppiacee, fatte di country, folk e psichedelia velvettiana. Gran disco! Che dire poi di The Argument dell’ex Hüsker Dü Grant Hart, se non che è un’opera coi controfiocchi? Hart, rispetto all’ex compagno Bob Mould, è sempre stato visto come il “Brutto Anatroccolo”, quello sfortunato, il junkie: il suo nuovo album è invece un disco ambizioso e creativo, colmo di bellissime canzoni, servite tramite un mix di raffinata ruvidezza, che come non mai ci mostra Hart autore vario e sopraffino. Mai stato un grande fan di David Bowie, eppure devo dire che il suo The Next Day l’ho apprezzato non poco. Probabilmente non lo metterei tra i miei dischi dell’anno, ma almeno tre/quattro delle sue canzoni svettano in una scaletta che comunque non ha cadute di tono. Uno su cui invece non ho mai avuto dubbi è Roy Harper: il suo nuovo album, parzialmente prodotto da Jonathan Wilson, è un gioiello, magari non per tutti, però dal fascino senza tempo e disco di quelli che non si trovano tutti i giorni. Devo ammetterlo, non ci avrei scommesso un euro circa la bontà del rientro discografico dei riformati Black Sabbath: invece 13 è davvero niente male! I riff, le atmosfere, in parte anche la voce di Ozzy, sono quelli dei primi lavori; nessuna vera novità, però una scrittura ben più che dignitosa, al servizio di un sound che ha fatto epoca ed è ormai leggendario. Come diceva qualcuno, nessuno fa i Black Sabbath meglio dei Black Sabbath stessi! Potremmo aggiungere, nessuno fa gli Stooges come gli Stooges: il loro Ready To Die non è un capolavoro, però è l’ennesimo sputacchio punk che ha permesso ad Iggy e compagni di tornare a sculettare selvaggiamente sui palchi di mezzo mondo e questo ci basta. Mi aspettavo grandi cose invece dai rinnovati Crime & The City Solution e così è stato: American Twilight è un ottimo album di rock vetriolitico e di blues allucinato, in cui il contributo prezioso di Mr. Woven Hand si sente e accresce il feeling gotico emanato da questi solchi. La palma di ritorno più inaspettato e bizzarro è però quello di Dot Wiggin, un tempo nelle famigerate Shaggs, la “peggior band della Storia del Rock”. Garage rock intinto di irresistibile freschezza naif, che ha fatto felice i cultori di questa favolosa leggenda underground. Che altro rimane da citare in questa sezione? Il fascinoso libro/CD delle Throwing Muses, Purgatory/Paradise e, alla voce mezze delusioni, lo sciapo, nuovo EP dei Pixies ed il dignitoso, ma lontano dai vecchi fasti, Defend Yourself dei Sebadoh.

Push-The-Sky-Away-PACKSHOT3-768x768

SINGER SONGWRITERS

Poche esitazioni, il 2013, sul versante cantautorale, ha dato non poche soddisfazioni. Eletto da più parti (a ragione) disco dell’anno, Push The Sky Away è uno dei migliori Nick Cave degli ultimi tempi. Un disco di ballate straordinarie, intense, toccanti; soprattutto un disco che ci mostra un Cave ancora in movimento, ancora desideroso di cercare strade nuove, fortunatamente lontano dal manierismo che iniziava a far capolino in alcuni dei suoi più recenti lavori. Altro nome capace di mettere d’accordo pubblici anche diversi fra loro, il già citato precedentemente Jonathan Wilson. Vecchio? Prolisso? Può darsi, però anche incredibilmente creativo ed evocativo, il suo Fanfare è un vero tuffo in un verbo rock d’altri tempi, ancora affascinante oggi, grazie soprattutto a grandi canzoni, un suono strabiliante e arrangiamenti sofisticati, serviti inoltre da una band che sa decisamente il fatto suo. Mathew Houck aka Phosphorescent se n’è uscito con quello che è forse il suo miglior lavoro, Muchacho, ottima sintesi di tradizione e modernità, quindi con un occhio al classico ed uno al pubblico independente. Altro grandissimo lavoro è Dream River di Bill Callahan: l’uomo un tempo conosciuto come Smog, è tornato con un disco asciutto ma caldo, fatto di vivide ballate segnate dalla sua inconfondibile personalità e da un’autorevolezza qui al meglio della sua forma. Niente male anche il nuovo Kurt Vile, Wakin On A Pretty Daze, disco fluviale sempre in bilico tra scrittura classica e retaggio indie. Forse giusto solo un po’ monocorde, ma da sentire. Ancora più interessanti mi son sembrati due dischi usciti (forse) sul finire del 2012, ma di cui tutti hanno finito col parlarne nel 2013: Big Inner di Matthew E. White ci ha rivelato tutto il talento di un cantautore con molto da dire e decisamente originale, protagonista tra l’altro di un paio dei più bei momenti live vissuti quest’anno dal sottoscritto; le ballate tormentate di John Murry e del suo The Graceless Age sono uno dei passaggi obbligati di quest’annata, straordinarie per intensità, scrittura e sincerità, la classica situazione in cui la vita vera pare prendere forma sul pentagramma. Ben due i dischi di Mark Lanegan usciti nel 2013, ma mentre il Black Pudding fatto in coppia con Duke Garwood è un disco crudo, disossato e denso di nudo pathos, meno convincente è parso Imitations, secondo disco di covers della sua carriera, purtroppo del tutto privo della potenza di I’ll Take Care Of You e, in più d’un passaggio, piuttosto di maniera e un po’ bolso, quasi come quel jazz da salotto che viene ancora scambiato per musica. Nella migliore delle ipotesi, abbastanza inutile. Il nome è quello di una band, Willard Grant Conspiracy, ma si sa che è quasi interamente sempre stata faccenda del solo Robert Fisher: l’ultimo Ghost Republic è un disco scarno e forse per pochi, però è anche uno di quelli che, se opportunamente sintonizzati su malinconiche frequenze, capace di elargire magia pura. Tutti lo conoscevano quale uno dei più visionari ed originali registi degli ultimi trent’anni: da un po’ di tempo a questa parte, pare però sia diventata l’attività di musicista quella principale per David Lynch. The Big Dream è il suo secondo lavoro, un disco di blues mesmerico e sognante, ovviamente profondamente lynchiano nelle sue conturbanti movenze. Per quello che riguarda le voci femminili, è stata probabilmente Lisa Germano quella che ha allestito il disco più particolare dell’annata, No Elephants, album in cui il suo cantautorato intimo si palesa attraversa un suono minimale e un pizzico di intrigante lateralità. Altro nome che ha avuto un certo eco nel 2013 è stato quello di Julia Holter: il suo Loud City Song se ne sta in bilico tra carnalità e sonorità eteree, tra scampoli di reminiscenze 4AD, pop, qualche inserto cameristico ed un pizzico d’elettronica. Un nome che, per certi versi, potrebbe esserle affiancato è quello di Zola Jesus, il cui passato sperimentale ed underground si riverbera oggi nelle reinterpretazioni ben più pop e “classiche” di Versions. Ma sono altri i dischi da ricordare veramente: il definitivo ritorno a standard altissimi di Josephine Foster con I’m A Dreamer, la brillantezza di Personal Record di Eleanor Friedberger, l’intensa maturità della Laura Marling di Once I Was An Eagle, lo sfavillio di Pushin’ Against The Stone di Valerie June, le ruvidezze di Shannon Wright in In Film Sound, nonché quelle di Scout Niblett in It’s Up To Emma o, per contro, la dolcezza folk-pop delle esordienti Lily And Madeleine.

(PS devo sentire ancora in modo appropriato il nuovo Billy Bragg, di cui ho letto un gran bene; mentre da ciò che ho orecchiato, John Grant non fa proprio per me).

primalcov-1

BANDS

E’ sempre difficile essere categorici, ma la mia Palma di disco dell’anno se la beccano i Primal Scream di More Light, creativi e potenti come non gli capitava da tempo, calati nei nostri tempi tramite testi ultra politicizzati e musicalmente vari ed esaltanti. Un capolavoro! Politicizzati lo sono sempre stati anche gli svedesi The Knife, di ritorno quest’anno con un mastodontico triplo LP di elettronica livida, oscura ed ostica, che solo labili tracce del loro passato pop continua a mantenere. Disco coraggiosissimo, così come a suo modo coraggioso era il loro spettacolo “live”, di cui potete leggere le mie tutt’altro che entusiastiche impressioni qui sul blog. Livido, oscuro ed ostico sono ottimi aggettivi per un altro album amatissimo dell’anno appena trascorso, il visionario The Terror dei Flaming Lips, recentemente ancora nei negozi anche con l’EP Peace Sword, ennesima dimostrazione dell’inarrestabile stato di grazia della formazione americana. Stato di grazia che continuano ad avere anche i Low con The Invisible Way: è il loro disco più sereno, più arioso, in larga parte costruito sul pianoforte, un disco che non smette di perpetrare l’incanto tipico di buona parte della loro produzione. Non sono gli unici veterani ad aver fatto vedere belle cose: non male, anche se a mio parere inferiore alle loro ultime uscite, Change Becomes Us dei Wire, Re-Mit dei Fall, Fade degli Yo La Tengo, Vanishing Point dei Mudhoney e, soprattutto, Tres Cabrones firmato da dei Melvins in grandissima forma. Uno dei dischi più discussi è stato l’ultimo Arcade Fire, Reflektor: chi lo ha valutato quale capolavoro, ha dovuto scontrarsi con quanti l’hanno visto quale ciofeca inenarrabile. Io mi metto nel mezzo, nel senso che lo considero un album discreto, con qualche buona canzone, un paio ottime e un bel po’ di roba di grana un po’ grossa. Ammetto anche, però, di non avergli ancora dedicato la giusta attenzione, prendete quindi queste considerazioni per quello che sono, impressioni più che altro. Grande credito presso la critica hanno avuto pure AM degli Arctic Monkeys e Trouble Will Find Me dei National, due band che apprezzo ma per cui non stravedo. Non sono invece rimasto deluso dall’evoluzione e dai cambiamenti in casa Midlake: è vero, in Antiphon il prog è pericolosamente protagonista, ma l’insieme mi piace parecchio e, anzi, penso sia questo il miglior lavoro della band americana. Bello ed ambizioso anche l’ultimo Okkervil River, The Silver Gymnasium, così come da sentire è anche il disco di cover dei loro cugini Shearwater, Fellow Travellers. Come sempre di grande livello il ritorno dei Califone con Stitches, mentre il poco invidiabile primato di schifezza dell’anno se lo beccano senza esitazione i Pearl Jam: il loro Lightning Bolt non si può proprio sentire! Come sempre, grandi soddisfazioni arrivano dalle bands dedite alla psichedelia: dagli immensi Arbouretum di Coming Out Of The Fog ai Black Angels di Indigo Meadows, dalle molte incarnazioni di Ty Segall (Fuzz in testa) ai soliti ma sempre esaltanti Wooden Shijps, passando poi per Grim Tower, Dead Meadow e White Hills fra le tante cose sentite. Tra i gruppi più o meno nuovi, da non dimenticare New Moon  dei The Men, i debutti delle Savages, dei Rose Windows e degli Strypes, l’ottimo General Dome di Buke And Gase, Threace dei CAVE e il folle Make Memories dei Foot Village. Tra le cose, diciamo così, più sperimentali o comunque meno rock, l’immenso Colin Stetson di New History Warfare Vol.3 – To See More Light, le doppietta Fire!/Fire! Orchestra, (without noticing)/Exit!, All My Relations di Black Pus, i Boards Of Canada di Tomorrow’s Harvest, i Wolf Eyes di No Answer: Lower Floor, i Matmos di The Marriage Of True Minds e i Fuck Buttons di Slow Focus.

massimovolume_aspettandoibarbari-1440x1440px-72-rgb

ITALIANI

Nessun italiano in questa classifica? Eccoli qui! Per il sottoscritto il titolo italiano dell’anno è Aspettando I Barbari dei Massimo Volume, intenso, scuro e potente. Bellissimo come sempre il nuovo Cesare Basile (con un disco omonimo), così come anche Quintale dei Bachi Da Pietra, sorta di svolta “rock” per il duo. Ambiziosissimo, monumentale, straordinario, il nuovo Baustelle, Fantasma. Tra le altre cose da recuperare assolutamente, lo splendido esordio dei Blue Willa, il recente album di Saluti Da Saturno, Post Krieg di Simona Gretchen, Without dei There Will Be Blood, il nuovo Sparkle In Grey e Hazy Lights di Be My Delay.

WATERBOYS

RISTAMPE

Se possibile, escono ancora più ristampe e cofanetti retrospettivi che dischi nuovi. Questa sezione potrebbe pertanto essere la più lunga di tutte. Voglio però limitarmi a citarne solo due, perché sono state quelle per me più importanti e significative dell’annata. Non potrebbero essere più diverse l’una dall’altra e questa è un’altra cosa che mi stuzzica non poco. Inanzitutto il box in sei CD sulle session di Fisherman’s Blues dei Waterboys: Fisherman’s Box è uno scrigno colmo di tesori, un oggetto a cui tornare e ritornare più e più volte, con tanta di quella musica immensa dentro che quasi non ci si crede. A lui affianco la ristampa (rigorosamente in vinile) di ½ Gentlemen/Not Beasts degli Half Japanese, uno dei dischi più rumorosi, grezzi, folli, infantili, per molti versi agghiacciante dell’intera storia del rock. Per farla breve, un capolavoro!

Qui sotto i miei venti dischi dell’anno, in rigoroso ordine alfabetico. E’ tutto, buon 2014!

ARBOURETUM – COMING OUT OF THE FOG

BLACK ANGELS – INDIGO MEADOWS

BILL CALLAHAN – DREAM RIVER

NICK CAVE & THE BAD SEEDS – PUSH THE SKY AWAY

THE FLAMING LIPS – THE TERROR

FUZZ – FUZZ

LISA GERMANO – NO ELEPHANTS

ROY HARPER – MAN AND MYTH

GRANT HART – THE ARGUMENT

THE KNIFE – SHAKING THE HABITUAL

LOW – THE INVISIBLE WAY

MASSIMO VOLUME – ASPETTANDO I BARBARI

MAZZY STAR – SEASONS OF YOUR DAY

MELVINS – TRES CABRONES

JOHN MURRY – THE GRACELESS AGE

MY BLOODY VALENTINE – MBV

PHOSPHORESCENT – MUCHACHO

PRIMAL SCREAM – MORE LIGHT

MATTHEW E. WHITE – BIG INNER

JONATHAN WILSON – FANFARE

BOX SET: THE WATERBOYS – FISHERMAN’S BOX

SALUTI DA SATURNO: intervista a MIRCO MARIANI

SALUTI DA SATURNO

Intervista a MIRCO MARIANI

di Lino Brunetti

foto © Pietro Bondi

Dancing Polonia, il terzo disco di Saluti da Saturno, progetto musicale del multistrumentista Mirco Mariani – un passato, per lui, nella band di Vinicio Capossela ed in formazioni quali Mazapegul e Daunbailò – è per il sottoscritto uno dei dischi italiani più belli dell’anno. Nelle sue canzoni, un cantautorato classico, per certi versi rimandante alla tradizione dei Paoli, degli Endrigo, dei Tenco, s’ibrida con un gusto musicale più visionario, in cui arrangiamenti inusuali spostano il tutto verso una lateralità mai spocchiosa, ma solo limpidamente specchio della fantasia al potere. Mirco stesso ha presentato la sua musica quale “free jazz cantautorale”. Ci è parso quasi un obbligo, ma soprattutto un piacere, approfondire con lui le ragioni della sua musica.

 phoca_thumb_l_foto pietro bondi lipsia 04

Presentando Dancing Polonia, hai parlato del passaggio dal “pianobar futuristico elettromeccanico” dei dischi precedenti, al “free jazz cantautorale” di questo. Descrizioni suggestive senz’altro, ma più nel dettaglio, in cosa è profondamente diverso il nuovo album dal tuo punto di vista? Qual’era l’idea forte che gli sta alla base?

L’idea era quella di partire da una forma canzone più definita, che può stare in piedi anche con solo il pianoforte, per poi vestirla con sfumature di free jazz romantico, leggeri disturbi, rumori o tensioni. Ti confesso che questo passaggio è risultato più difficile del previsto, perché  inserire dei disturbi sulla forma canzone, a volte, mi suonava banale e scontato; allora è nato il Free Jazz Cantautorale, che prevede di potersi muovere su delle note non sempre giuste, ma che descrivono lo stato d’animo della canzone. Ora forse sarei più consapevole di questo processo e prevedo un secondo capitolo.

In maniera trasversale lo erano anche i tuoi dischi precedenti, però Dancing Polonia è infatti un disco dalla più forte e marcata impronta cantautorale, forse meno “pop” e senza dubbio più “classica”. Sei d’accordo con questa affermazione?

Dancing Polonia, a mio avviso, ha delle storie da raccontare più visionarie e cinematografiche, là dove nulla c’è ma tutto può accadere, dove si incontrano personaggi spettinati ma con uno sguardo bruciante e dove ci si ritrova all’interno di un bar trattoria e ad un certo punto si spostano i tavoli al lato della stanza e ci si mette a ballare abbracciandosi. È un disco che ha bisogno di unione, condivisione e divertimento sincero, di rompere dei canoni a volte troppo autoreferenziali del concerto standard.

Credo infatti che il classicismo delle canzoni di Dancing Polonia sia in qualche modo ingannevole… Mi spiego: se le melodie, le parti cantate, rimandano senz’altro alla tradizione cantautorale italiana degli anni sessanta – ti pare un azzardo se ti dico che a tratti mi è venuto in mente anche Gino Paoli, per fare un nome? – dal punto di vista musicale, il disco è tutt’altro che tradizionale, con arrangiamenti insoliti e brulicanti di suoni. Faceva parte delle tue intenzioni creare una tale dicotomia?

La canzone italiana di Paoli, Tenco, Endrigo ma anche Celentano sono senza ombra di dubbio la mia grande passione insieme a quella per il Jazz bianco di Paul Desmond, Chet Baker o Charlie Haden fino al  Free Jazz, senza dimenticare l’insegnamento più importante: quello della musica Romagnola dei miei inizi dove fondamentale è la figura del capo orchestra, che deve capire qual è il momento del walzer o della polka. Insomma da tutto questo miscuglio è evidente che la sonorità può soffrire di qualche disturbo di bipolarità. E’ però un miscuglio sincero e sentito, non ricreato per inseguire chissà mai quale ultima moda.

Avevi in mente dei modelli quando sei partito a scrivere le canzoni di questo disco, oppure è stato un processo più spontaneo e naturale?

Le storie che viaggiano all’interno di questo disco sono storie semplici, come una passeggiata in piena estate sul monte Fumaiolo (dove nasce il Tevere)  con le mie due bambine dove improvvisamente veniamo colti da un freddo imprevisto e ci si ritrova attorno ad un tavolo con una candela accesa e ci sembra di avere tutto e mentre si ritorna verso casa si canticchia la nascita di una Canzone di Cera. L’altra forte ispirazione è il cinema spettinato di Aki Kaurismaki, con i suoi colori saturi e una poesia quasi sfacciata o la tanta neve bianca  di Hiner Saleem in “Vodka Lemon”, dove la miseria è vissuta con dignità e ti costringe a dover vendere tutto: l’armadio, l’uniforme militare, il televisore, il pianoforte… ma no! Il pianoforte no! Quello non si può vendere, serve per sognare e in questo caso fa anche viaggiare.

Anche se poi, nell’economia generale del disco, non è neppure lo strumento predominante, ho avuto la sensazione che queste siano canzoni nate essenzialmente proprio al pianoforte… E’ così?

Si, è proprio cosi. Sono brani nati tutti al pianoforte ed è proprio il pianoforte il responsabile della struttura. Gli strumenti che uso con maggiore frequenza, li sento e li vedo un po’ come le stagioni che cambiano il colore del paesaggio e che fanno vestire le persone in maniera più o meno pesante. Il loro ruolo è molto importante, rivestono  i brani e regalano un immaginario, una personalità, anche grazie alle infinite possibilità sonore che ti mettono a disposizione.

cef09c4dc3d0d8d265ab7ea9482b510d_XL

Vorrei che mi parlassi un po’ del lavoro con i musicisti che hanno suonato con te nel disco, tra i quali figurano molti nomi importanti… Quanto sei aperto alle idee da loro apportate? Porti delle parti già scritte o è un lavoro che viene fatto tutti assieme quello degli arrangiamenti?

Alla base della mia idea di Saluti da Saturno c’è la ricerca della  libertà più assoluta, visto che in passato mi è capitato di dover mettere in discussione la mia più grande passione, che mi ha investito fin da bambino, che è quel gioco meraviglioso della musica. Proprio quando si passa dalla passione, istintiva e incosciente e la si trasforma in professione, si rischia di entrare in formule ripetitive e chiuse per garantirsi un applauso sicuro. Penso invece che il rischio e l’improvvisazione inserite in un idea ben definita  siano degli elementi che donano una vita più lunga ad un’ esecuzione. Per quando riguarda i musicisti che suonano spesso nei miei dischi, c’è sempre un passato alle spalle di nottate passate insieme in piccoli Jazz Club o su palchi più grandi, ma dove è successo sempre qualcosa e che crea uno spazio dove navigare magari senza neppure il bisogno di dover spiegare o parlare più di tanto.

Mi puoi raccontare come è avvenuto il coinvolgimento nelle sessions di un grande quale Arto Lindsay?

Tutto il merito è di Massimo Simonini. Io gli dissi che sarebbe stato il mio sogno poter collaborare con Arto Lindsay, che reputo un genio su vari aspetti musicali. Alla mia richiesta Massimo mi risponde dicendo: “guarda, da quello che so, Arto non accetta di fare collaborazioni cosi, però ci proviamo”, e così gli abbiamo spedito due brani. Nel giro di una settimana ci sono ritornati indietro con le sue chitarre! EVVIVA! È la musica a volte… ma la cosa ancor più importante, per me, è stata quando pochi mesi dopo è venuto in concerto a Bologna e ha voluto incontrarmi. Abbiamo passato tre giorni insieme a suonare, parlare ed addirittura abbiamo festeggiato il suo sessantesimo compleanno al ristorante, con torta e candeline! Quei giorni mi hanno regalato consapevolezza e fiducia, ho compreso ancor di più l’importanza di calarsi fino in fondo dentro ogni idea, senza cercare le mezze misure… per accontentare chi?

Mi ha molto incuriosito la dedica del disco a Casadei ed Ornette Coleman, anche perché non è certo così evidente la loro influenza su queste canzoni. In cosa il loro spirito è secondo te presente in esse?

Ornette Coleman è la libertà di far diventare ogni strada da percorrere quella giusta, dove la regola a volte può essere solo un limite per chi sta sognando e magari in quel momento sta guardando molto più lontano della regola stessa. Per quanto riguarda Secondo Casadei, io ci vedo l’aspetto più alto della musica fatta da chi suona per la gente che ascolta o che balla. E i ricordi che mi vengono in mente di quando suonavo nelle orchestre da ballo, sono che si suonava fino a delle ore impensabili e fin che c’era gente che si divertiva non si smetteva, un brano poteva durare tre minuti come quindici. Uno dei miei primi capo orchestra (che la sapeva molto lunga) mi disse: “tutti hanno diritto di cantare, ma sottovoce”! Questo mi sembra un aspetto di grande libertà e di grande divertimento, che è quello che io vorrei rivivere con la mia Orchestra.

Mi piace davvero molto anche il modo in cui hai interpretato, dal punto di vista canoro, queste canzoni. Perché all’inizio eri restio a cantare le tue canzoni in prima persona?

Sinceramente penso di non essere un bravo cantante, ma penso di poter cantare le mie canzoni, soprattutto quando queste raccontano delle emozioni vissute sulla mia pelle. E’ una fiducia che sto raccogliendo ultimamente, anche per quanto riguarda i concerti, e la  chiave di questa porta penso proprio me l’abbia data  Arto Lindsay, per il discorso che si faceva prima della ricerca della assoluta sincerità con pregi e difetti.

Anche i testi mi piacciono molto. Mi piace il modo in cui procedono per immagini che sono quasi pennellate impressioniste; non si palesano in forma di racconto ma, inevitabilmente, comunicano in maniera forte. Quali sono le cose che maggiormente ti ispirano?

La semplicità è senza dubbio il mio punto fermo, anche perché non posso troppo allontanarmi per paura di perdermi. La vita delle persone nella realtà o nella finzione del cinema. Mi piace anche partire da un granello di sabbia, per trasformarlo poi in una piccola montagna completamente inventata.  A volte capita che sia proprio un inizio di storia a raccontarti la storia stessa e a far nascere qualcosa di cui solo alla fine scopri il significato; penso che il caso non esista e che spesso i viaggi più belli siano quelli dove si decide solo la partenza.

phoca_thumb_l_dday five cracovia 28

Alcune canzoni sono ispirate da film, e questo si ricollega a quanto ti chiedevo nella domanda precedente. Immagino quindi tu sia un appassionato di cinema. Quanto la componente “visiva” è fondamentale nella tua musica?

Spesso penso che più che una passione sia un’ossessione, tanto è il mio accanimento nel guardare e riguardare un solo film, tanto da liberarmi della storia e concentrarmi di volta in volta su mille altri aspetti che ci girano attorno. Spesso quando parlo di Dancing Polonia, penso più a delle immagini che a dei suoni, un pò come una musica da vedere, dove si può sognare liberamente, e chissà mai se un giorno si potranno mai fare dei dischi muti con delle immagini che suonano.

Volevo farti una domanda su Vinicio Capossela, con cui in passato hai suonato, che ha cantato sul tuo primo album e che in qualche modo aleggia su alcune delle canzoni del disco. Quali sono i maggiori insegnamenti che hai tratto dal collaborare con lui?

Vinicio è da molti anni un amico, mio e della mia famiglia, è il mio primo grande maestro,  mi ha insegnato tante cose e gli sarò sempre grato.  Abbiamo passato molte notti insieme ad ascoltare musica e a parlare della bellezza del suono, una grande passione che ci ha sempre legato… L’ultima volta che ci siamo visti,  ci siamo scambiati dei titoli di film da vedere….

Hai fatto parte di bands quali Mazapegul e Daunbailò, hai suonato con altri musicisti: pensi che Saluti da Saturno si ponga sulla scia di una storia musicale evolutiva, la tua, il cui approdo non poteva che essere questo, oppure credi di esserti mosso più per scarti e seguendo un percorso più rabdomantico?

La differenza è che Saluti da Saturno è il mio primo progetto pensato e creato tutto da me, mentre i progetti passati erano fatti insieme al mio amico Valerio Corzani, dove io mi occupavo della musica e lui dei testi. Con Saluti da Saturno, sono riuscito ad entrare dentro una mia visione più personale, sia musicale che di vita.

Quanto è difficile, al giorno d’oggi, portare avanti un progetto musicale di sostanza ed indipendente quale Saluti da Saturno? Sei soddisfatto dei riscontri avuto fino ad ora?

Ero più contento prima di tornare da un piccolo Tour Europeo, che ha toccato nel mese di ottobre Lipsia, Berlino e Cracovia. Li è avvenuto un pò l’impensabile per una piccola realtà come la nostra; ho avvertito un rispetto, una curiosità sana ed entusiasta. Nessuno ci conosceva e non capivano la nostra lingua ma…  volevano conoscere, sapere, partecipare, farsi coinvolgere dalla nostra follia, in concerti dove l’improvvisazione e lo spettacolo la fanno da padroni. In Italia spesso si sente e si avverte l’idea che tutti sanno tutto di tutto, ma non è mica vero!

phoca_thumb_l_foto pietro bondi lipsia giorno ii  17

L’ultima domanda è una piccola curiosità: ho notato che tra la penultima e l’ultima canzone dei tuoi dischi, lasci una ventina di secondi di silenzio. C’è una ragione precisa?

Si, in effetti è una caratteristica di tutti e tre i dischi. E’ venuta per caso e mi è piaciuto ripeterla, un pò come un marchio di fabbrica, visto che io mi ritengo un artigiano della musica… Le cose come vedi non vengono mai per caso. Ti ringrazio tanto Lino, per l’amore che mi hanno trasmesso le tue domande.

THREELAKES & THE FLATLAND EAGLES “War Tales”

THREELAKES & THE FLATLAND EAGLES

War Tales

Upupa

album_art

War Tales nasce dall’incontro fra due diverse e complementari personalità: la prima è quella di Luca Righi, novello cantautore con un EP alle spalle intestato ai Threelakes, in realtà non un gruppo ma lo pseudonimo attraverso il quale pubblicare la propria musica; la seconda quella di Andrea Sologni, già membro dei Gazebo Penguins, musicista, produttore, a suo modo un visionario. L’incontro fra i due avviene nel 2011, durante il party di presentazione di Legna dei Gazebo Penguins, occasione in cui anche Threelakes suona: Sologni subisce fortemente il fascino delle canzoni di Righi e si propone come produttore. Da lì al mettere insieme una vera e propria band, i Flatland Eagles (oltre a Sologni, Raffaele MarchettiLorenzo CattalaniMarco ChiussiPaolo Polacchini), il passo è breve, così come diventa facile coinvolgere altri amici quali Francesca Amati dei Comaneci, Emanuele Reverberi dei Giardini di Mirò, Luciano Ermondi dei Tempelhof e Capra dei Gazebo Penguins. War Talesle cui canzoni sono scritte da Righi e poi arrangiate dalla band, è una sorta di concept album ed un disco molto personale: le canzoni sono in qualche modo legate l’una alle altre da un comune sentire e sono state messe in sequenza in modo da formare un percorso. Nonostante il titolo, la guerra comunemente intesa è protagonista delle liriche giusto in D-Day, rievocazione dei momenti precedenti lo sbarco in Normandia. Per il resto, è più la guerra che giornalmente combattiamo con noi stessi e con la vita ad essere al centro di questi testi: il senso d’incertezza che ci troviamo a provare in talune situazioni, la lontananza da casa e dagli affetti, le incomprensioni e il non detto fra padre e figlio, la morte solitaria di un’altro simbolico padre, il mitico Hank Williams. Come ogni percorso però, anche queste canzoni ci portano verso una conclusione, qui rappresentata dalle aperture più speranzose degli ultimi pezzi, dove le nubi si diradano, i cavalli galoppano, dove l’amore torna a riempire i cuori. Mi sono lungamente dilungato sui contenuti lirici dell’album, ma non meno interessante è quello musicale: Sologni è compagni hanno saputo interpretare in maniera assolutamente magistrale le canzoni di Threelakes, allestendo arrangiamenti ricchi e calibratissimi, in bilico tra alt-country visionario, folk e rock. La voce, leggermente lamentosa e monocorde di Righi, si trova quindi calata in sapidi intrecci di chitarre, tastiere, ritmi, trombe ed altri strumenti, capaci di dar vita a sontuose ballate, così come a pezzi dalla più vibrante tensione rock. Bellissima The Walk, così come pure The Lonesome Death Of Mr Hank Williams, dalle chitarre affilate By My Side, con una drum machine a tenere il tempo The Day My Father Cried, quasi a là Okkervil River Horses Slowly Ride. E’ un disco da scoprire un pezzetto per volta War Tales, a cui dedicare tempo è davvero un piacere.

Lino Brunetti