GOD DAMN “Everything Ever”

GOD DAMN
Everything Ever
One Little Indian/Audioglobe

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Considerando che solo solamente un duo – Thom Edward a chitarra e voce e Ash Weaver alla batteria – i God Damn riversano sugli ascoltatori una tempesta elettrica d’incomparabile violenza. Ci avevano colpito con il loro esordio dell’anno scorso, Vultures, rilanciano facendo ancora meglio col nuovo Everything Ever, un disco più riuscito sotto tutti gli aspetti. Prodotte da Ross Orton (Fall, Drenge, Tricky), le tredici nuove canzoni non perdono minimamente in potenza – quel paio di ballate che ci sono, I’ll Bury You e Oh No, sono comunque torturate e seppellite dalla distorsione e solo la conclusiva Easily Misbled ha sonorità più acustiche – ma guadagnano in cura generale, mostrano una scrittura viscerale, ma più consapevole e rifinita e nell’insieme non lasciano indifferenti, soprattutto se siete fan della musica degli anni ’90. Si, perché è agli anni del grunge che guardano i due God Damn, agli ovvi Nirvana, agli Smashing Pumpkins, infilandoci un pizzico di sensibilità garage odierna, dello stoner, qualche riff sabbathiano e un po’ di psichedelia, nel tentativo di mescolare ulteriormente le carte. A rendere particolarmente rimarchevole ciascun brano, c’è poi il fatto che, nonostante il tutto sia rabbioso, abrasivo, metallico e autenticamente devastante, sia evidente una pur perversa qualità pop che, come ai tempi di Nevermind, potrebbe rivelarsi il viatico per una notorietà sempre maggiore. Intanto prossimamente passeranno dall’Italia: varrebbe la pena andare a vederli.

Lino Brunetti

LUMINANCE RATIO “Honey Ant Dreaming”

LUMINANCE RATIO
Honey Ant Dreaming
Alt.Vinyl

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Accantonata (momentaneamente?) la serie di 7” split che li ha visti affiancarsi a personaggi quali Steve Roden, Oren Ambarchi e Yannis Kyriakides, i Luminance Ratio tornano con il loro terzo album, pubblicato solo in vinile in una confezione bellissima dalla prestigiosa etichetta inglese Alt.Vinyl, a definitiva testimonianza che le nostre cose più sperimentali sono conosciute ed apprezzate anche all’estero. Honey Ant Dreaming vede il quartetto trarre ispirazione dal quasi omonimo dipinto effettuato dagli aborigeni Papunya nel 1971. Forse la loro cosa migliore di sempre, è un disco visionario e potentissimo, un autentico trip oscuro e luminoso allo stesso tempo, miscuglio di drones, elettronica, rumorismo, ritmi e chitarre. Apre il viaggio la psichedelia etno ritualista di Honey Ant Dreaming; I Am HE And She Is SHE But You Are The Only YOU è un drone maestoso ed abbagliante come un fiume in piena; Splinters Of Rain è più rarefatta e circospetta, mi fa venire in mente la profondità di un foresta pluviale, la sua vita brulicante, spezzata da bruitiste distorsioni a spezzare la quiete, a dar corpo ai pericoli nascosti; Passage D’Enfer ci porta tra scansioni industrial noise, con squarci free; Great White’s All Around mette un battito sordo a tenere assieme i layers sonori, le lamine perfettamente orchestrate con dronico moto ascensionale verso la luce più pura; infine Blood Vessels proietta un’elettronica afasica e singultante nel selvaggio tripudio percussivo finale. Tra le cose migliori sentite nel genere da un bel po’ di tempo a questa parte. Ottimo!

Lino Brunetti

MONTE NERO “Chrome EP”

MONTE NERO
Chrome EP
Goddess/Audioglobe

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Progetto composto da membri di altri gruppi della scena bergamasca (Gea, Spread, In The Howling Storm), i MONTE NERO esordiscono con Chrome EP, un mini album che è un ottimo biglietto da visita per far conoscere la loro idea di heavy sound. Sei brani chitarristici e potenti, compatti nel loro esplorare stoner (Green Stoned) e psichedelia hard memore del grunge (Blue Cyanide), in grado di spazzolare le orecchie con martellamenti strumentali (In Death Of Mr. Brown) o di diversificare con l’inserimento di elementi alieni (la parte flamencata dell’altro brano strumentale, Yellowsy), di essere lirici e fumosi (Schwarz) o di flirtare con la melodia (Purple, il pezzo che mi piace meno). Anche se non sempre originalissimi, se questo è il vostro genere, l’ascolto è consigliato. Quello che fanno, lo fanno già con grande autorevolezza.

Lino Brunetti

DEAD BOUQUET “As Far As I Know”

DEAD BOUQUET
As Far As I Know
Seahorse/Audioglobe

Cover album As Far As I Know

Ad attirare come prima cosa verso l’esordio dei romani DEAD BOUQUET è il nome del produttore del disco, quel Paul Kimble che fu bassista e produttore dei mitici Grant Lee Buffalo, band oggi forse un po’ troppo ingiustamente dimenticata, ma tra le migliori venute fuori dagli Stati Uniti negli anni ’90. Sarebbe però ingiusto fermarsi lì perché, sia pur con qualcosa ancora da rivedere, il disco con cui il duo formato da Carlo Mazzoli (voce e chitarra acustica a 12 corde) e Daniele Toti (basso) – a cui va qui aggiunto il contributo del batterista Fabio De Angelis e di Kimble stesso – ha deciso di presentarsi al mondo, li segnala quale band di sicuro interesse e indirizzata sul sentiero giusto. In As Far As I Know, i Dead Bouquet si fanno portavoci di una canzone rock cantautorale dai continui echi folk e psichedelici, a tratti oscura e gotica, attraversata da stilizzate esplosioni elettriche. Ascoltando queste tredici canzoni, i nomi che vengono alla mente sono quelli dei Grant Lee Buffalo stessi (ovviamente), dei Gun Club, di Wovenhand. Riferimenti altissimi insomma, che i Dead Bouquet riescono ad onorare con una certa sicurezza. Sia pur senza effetti speciali – il songwriting è buono ma si può e deve fare di meglio, non foss’altro che per uscire dall’ombra dei riferimenti – non sono poche le canzoni che rimangono in mente, dalle ottime Barking At My Gate e Haven’t You Said It?, per arrivare alla lancinante Stories con cui l’album si chiude. Differenziando maggiormente i vari pezzi ed imprimendo una maggiore personalità alle loro sonorità, potrebbero farci vedere grandi cose. Per il momento, comunque, va bene anche così.

Lino Brunetti

KALI YUGA “KY”

KALI YUGA

KY

800A Records/Audioglobe

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Nati a Palermo agli inizi degli anni ’90, riappaiono come dal nulla i KALI YUGA, formazione dalle ruvide sonorità tra stoner ed hardcore che chi seguiva le vicende del rock italiano nei nineties forse ricorderà. Proprio alla fine di quel decennio decidevano di sciogliersi, dopo aver dato alle stampe un CD per Vacation House, The Underwater Snake Is Waiting, un 7” in tandem con i One Dimensional Man, ed aver lasciato un segno indelebile nella memoria di chi li aveva visti dal vivo grazie alle loro infuocate esibizioni live. Un paio d’anni fa, uno special radiofonico dedicatogli dal musicista/produttore Marco Monterosso e la presentazione del libro “Palermo al tempo del vinile” li riportava letteralmente in vita. Agli storici Bizio Rizzo (voce e chitarra), Giancarlo Pirrone (chitarra) e Fabrizio Vittorietti (bassista della band nel triennio ‘97/’99), si aggiunge oggi il nuovo batterista Alessandro Guccione e, dopo aver dato alle stampe il ghost album Stoned Without The Sun, tornano nei negozi con un vero e proprio nuovo disco, KY, disponibile solo in vinile 12” o in digitale. Ed è davvero un bel sentire, nessun dubbio in proposito. Contenente otto canzoni inedite scritte lungo l’arco di vent’anni, l’album si riallaccia alle ultime fasi di carriera prima dello scioglimento, ma pure segna una decisa ripartenza con nuove prospettive e nuove energie messe in campo. Rispetto al passato, i Kali Yuga di oggi sono decisamente più melodici e “pop”, meno ottundenti e più propensi ad offrire una più ampia gamma di sensazioni sonore. Non che il loro sound non rimanga ruvido e colmo di riff ed affondi chitarristici distorti ma, complice pure l’espressività vocale di Rizzo, molti dei pezzi trovano il loro quid nella brillantezza delle melodie. A completare il quadro, ci pensano poi le canzoni, classiche nel loro aderire sostanzialmente a stilemi anni ’90, ma sempre personali e, quel che più conta, ottimamente scritte. 9:04 (Here She Comes) pare un mix loureediano/bowiano in salsa Dinosaur Jr; B Love S prende le forme di una ballata tardo grunge dalle ampie striature psichedeliche; The World Outside sta in bilico tra i riff di chitarra di Pirrone e la sostanza melodica delle parte vocale; lo stesso si può dire di Where I Used To Go, la cui ariosità melodica, vagamente velata di dolce malinconia, fa pensare alle pagine migliori dei Nada Surf. Picchiano senza requie Idols e Drunk’n’Sad, la prima tramite un fulgido hard-rock’n’roll stradaiolo, la seconda tornando a frequentare i lidi stoner, sia pur più QOTSA che Kyuss. So Are You, con la sua melodia strascicata, non poco ricorda gli Strokes del primo album, mentre la conclusione è affidata alla lunga e visionaria Siren (Fuck Like A Motorpsycho), oscillante tra martellanti attacchi al fulmicotone e più lisergici ed ossessivi passaggi (la band norvegese citata nel titolo è ben più che un indizio). Un ottimo rientro in pista, che contiamo di festeggiare ulteriormente cercando di intercettarli in concerto al più presto.

Lino Brunetti

BLESSED CHILD OPERA “The Darkest Sea”

BLESSED CHILD OPERA

The Darkest Sea

Seahorse Recordings/ Audioglobe

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Da anni il napoletano Paolo Messere è figura importante dell’underground musicale italiano, nelle molteplici vesti di produttore, discografico (sua la Seahorse) e musicista, dapprima in formazioni quali Silken Barb Ulan Bator, poi, dal 2001, a capo dei Blessed Child Opera, senza ombra di dubbio la sua creatura più personale e sentita. In una discografia che, con quest’ultimo, consta ormai di ben sei dischi, Paolo ha costruito un corpus autoriale intenso e denso di grande musica, con una sua sempre marcata coerenza, pur tra i mille cambi di formazione. Il nuovo The Darkest Sea si presenta con una copertina nera ed espressionista, resa affascinante dai disegni di Felice Roscigno, i quali ben introducono ai contenuti dell’album. La base sarebbe come sempre il rock ed il folk americano, ovviamente visto da una prospettiva gotica e profondamente dark. I referenti possibili sono molteplici: da un David Eugene Edwards affiorante in più episodi, al cantautorato sofferto di Mark Kozelek, dalla malinconia folk dei Willard Grant Conspiracy, alle ombre blues di un Hugo Race. Spesso il cuore di queste canzoni è acustico, anche se poi, attorno ad esso, fiorisce un pulsare elettrico e rock, capace d’inglobare anche elementi wave. E se non sempre la scrittura è realmente memorabile, il tutto viene supplito dalla costruzione di un mood unitario ma ricco di sfumature, dal suono veramente evocativo e stellare. Si passa così da ballate dark quali I Had Removed Everything a stilettate rock a là Woven Hand come Blindfold, dalle distorsioni sature di A Lazy Shot In The Belly ad un pezzo degno del migliore Kozelek come In The Morning (I Do Upset The Plans), una delle cose migliori del disco, con un passo ipnotico e mantrico. Ma parlavamo di sfumature diverse: I Look At You (But I Already Know Your Answer) tra rintocchi di banjo ed electronics penetra in oscure ed abissali profondità, sfiorando la ieratica ed allucinata arte dei Current 93; per contro, Friends Faraway ha un più sereno e classico impianto folk, mentre December Wind chiude tra vibrante tensione wave. Registrato in Sicilia, The Darkest Sea guarda oltreoceano virando le musiche di quei lidi in suoni che fanno filtrare ben poca luce. Se gli artisti citati sono nelle vostre corde, una discesa fra queste onde dovrebbe essere di vostro gradimento.

Lino Brunetti

ABOVE THE TREE & DRUM ENSEMBLE DU BEAT “Cave_Man”

ABOVE THE TREE & DRUM ENSEMBLE DU BEAT

Cave_Man

Bloody Sound FucktoryLocomotiv Records/Audioglobe

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Dopo aver diffuso la sua musica attraverso cassette, vinili e i formati più disparati, il mascherato chitarrista ABOVE THE TREE – al secolo Marco Bernacchia da Senigallia – torna con un album che prosegue ed aggiorna il discorso del precedente Wild. Mentre quello era stato realizzato con la collaborazione di E-Side, stavolta Bernacchia collabora col DRUM ENSEMBLE DU BEAT, ovverosia Enrico “Mao” Bocchini alle percussioni e Edoardo Grisogani agli electronics. Quella approntata dai tre è una musica ipnotica e dai marcati accenti ritualistici. La struttura dei loro pezzi è più o meno sempre la stessa: la chitarra elettrica disegna liquide ed effettate figure reiterative dalle poche e minime variazioni, a volte utilizzando anche la registrazione multitraccia; la voce, quando c’è , è usata come ulteriore strumento musicale; gli strumenti di Bocchini e Grisogani creano un adeguato e pulsante tappeto ritmico, capace di tenere ancorato al terreno il sound tutto. Quello che ne viene fuori è una sorta di trance music dove si intrecciano suggestioni etno, estatici deliri psichedelici, fantasmatici rituali persi nel tempo, sprazzi di visionaria ambient e un pizzico di pulsazione dance. Bellissima la rarefatta e desertica Down Wind Song, abbellita dal banjo essiccato di Glauco Salvo, e limpida materializzazione di un crudele sole a picco sulle nostre teste; in People From The Cave s’insinua subdolamente il sax di Roberto VillaBlack Spirits evoca invece le danze rituali degli indiani d’America, andando a ripescare delle registrazioni pubblicate su cassetta nel 1972 dalla Canyon Records (Kyowa: forty-nine & round dance songs); End Of Era, aperta dal suono delle chitarre in reverse, grazie agli archi apportati da Nicola Manzan, assume toni più platealmente cinematici e, in piccola parte, post-rock. Col suo mood stonato, oppiaceo, fumoso e dai confini poco definiti, Cave_Man è senza dubbio un ascolto affascinante, l’ennesima brillante variazione sul concetto di psichedelia in questi psichedelissimi anni.

Lino Brunetti

SACRI CUORI “Zoran” + FRANCESCO GIAMPAOLI “Danza Del Ventre”

SACRI CUORI

Zoran, Il Mio Nipote Scemo

Brutture Moderne/Audioglobe

FRANCESCO GIAMPAOLI

Danza Del Ventre

Brutture Moderne/Audioglobe

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Non contenti di essere stati in giro per mezzo mondo a promuovere il loro Rosario, di aver fornito i propri strumenti a musicisti quali Hugo Race e Dan Stuart (fra gli altri), i Sacri Cuori di Antonio Gramentieri hanno trovato il tempo di dedicarsi alla scrittura di una colonna sonora, quella di Zoran, Il Mio Nipote Scemo, primo lungometraggio di Matteo Oleotto, giovane regista di Gorizia, interpretato da Giuseppe Battiston. Del resto, che i Sacri Cuori sarebbero un giorno arrivati a musicare un film era scritto nel loro stesso dna; incredibilmente cinematica di per sé la loro musica, capace di narrare storie anche solo attraverso le suggestioni portate dai loro suoni, senza alcun bisogno di aggiungere parole. Ancora prima di vedere il film, l’ascolto del disco m’aveva fatto venire voglia di farlo, anche solo per verificare come le musiche qui contenute si sposavano con le immagini (l’ho visto giusto ieri e devo dire due cose: il film è incantevole e la colonna sonora lo serve alla grande!). Le musiche contenute in Zoran l’album, funzionano comunque di per sé, diciamolo subito. Certo, non è del tutto identificabile come un nuovo album vero e proprio, questo: le tracce sono numerose e brevi, di solito intorno al minuto o al massimo due, ma hanno dalla loro l’immenso potere suggestivo di una musica capace di prendere la musica americana – sia essa folk, blues, country o rock – e di trasporla in un sound in bilico tra i Calexico, il Ry Cooder delle soundtracks e la tradizione delle colonne sonore italiane. Disegnano insomma una geografia immaginaria, innestandovi inoltre un po’ di sgangherata ironia serpeggiante, immagino contraltare musicale della storia raccontata dal film. Qualche dialogo tratto dalla pellicola, un paio di pezzi cantati dal Gruppo Vocale Farra ed una suonata dai Musicanti di San Crispino, aggiungono ulteriore carne al fuoco ad un disco, magari minore, ma che continua a farci ritenere i Sacri Cuori uno dei più grandi tesori della musica italiana e non solo.

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Quasi in contemporanea a Zoran, esce pure il terzo disco solista di Francesco Giampaoli, che dei Sacri Cuori è il contrabbassista. Come avviene per la band principale, anche Giampaoli, in Danza Del Ventre, è intento a costruire mondi e triangolazioni impossibili. Nuovamente strumentale e dall’incantatoria evocatività cinematica, la sua musica ondeggia tra suggestioni jazzate, blues notturni e misteriosi, tanghi vissuti nella mente, spy story intinte nell’ironia,canzone francese e molte altre bizzarie. Lega il tutto un gusto per la lateralità, che gli permette di non adagiarsi su nessuno di questi generi, riletti sempre secondo un insolito mood. Scritto interamente di suo pugno, Danza Del Ventre vede la collaborazione di numerosi ospiti, tra cui ovviamente anche i Sacri Cuori al completo in due pezzi, Rosa, che una fisarmonica ci fa immaginare ambientata tra i panni stesi al sole di una campagna francese, e la quasi caposselliana Firma. Minimale ed ellittico, non sempre così immediato come sembrerebbe, Danza Del Ventre è un disco curioso e particolare, sicuramente piacevolmente insolito.

Lino Brunetti

RUE ROYALE “Remedies Ahead”

RUE ROYALE

Remedies Ahead

Sinnbus/Audioglobe

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E’ evidente ascoltando le canzoni di questo terzo album dei RUE ROYALE, duo composto dai coniugi Ruth e Brookln Dekker, come nella loro musica le radici americane si fondano con una sensibilità che verrebbe da definire maggiormente europea. In Remedies Ahead, finanziato grazie ad una campagna su Kickstarter, la loro canzone d’autore basilarmente folk, si tinge di pennellate autunnali, fa sua la malinconia di una campagna piovosa vista dai vetri rigati di una casa solitaria. Qui e là paiono voler sfociare in territori folktronici se non addirittura pop (Shouldn’t Have Closed My Eyes, ad esempio), oppure smuovono con fare più conturbante le acque (Pull Me Like A String), ma è soprattutto nelle ballate acustiche, tratteggiate con pochi ma sapidi tocchi sonori e da un pugno di melodie intimiste (alla voce troviamo entrambi) che i Rue Royale si giocano in maniera più sostanziale le loro carte. Lo fanno senza troppi effetti scenici, quasi in punta di piedi, con dolcezza, solo con la timida forza di un pugno di canzoni carezzevoli ed avvolgenti. Potrebbero piacere ai fan di gruppi come Tunng (un paragone non così campato per aria) e persino a quelli dei Walkabouts più inclini alla ballata.

Lino Brunetti