Best 2022 part 3: Lino Brunetti

Lo scriveva Luca Salmini nel suo pezzo, lo vado sostenendo anch’io già da qualche anno: chi si lamenta dell’assenza di buona musica è solo perché probabilmente non ha più molta voglia di andarla a cercare o perché è restio a lasciarsi andare nei confronti dei nomi nuovi che il panorama musicale ha da offrire. Per quello che riguarda il sottoscritto, il problema non è il fatto che ci sia poca roba buona in giro, è esattamente il contrario! Ce n’è troppa!!! 

Potrei fare copia e incolla dal post che avevo scritto per il 2021 e sostenere anche stavolta “di non essere mai stato investito da così tanti dischi come quest’anno. Un problema per certi versi, perché è diventato praticamente impossibile seguire tutto ciò che si desidererebbe, ma spesso anche frequentare come si deve i dischi che emergono dal marasma, pur dedicando alla musica un sacco del proprio tempo (è chiaro che a casa mia lo stereo non è mai spento)”.

Uno potrebbe legittimamente chiedere, però: ma ci sono autentici capolavori tra tutti questi dischi, lavori che resisteranno all’usura del tempo e che un domani, in qualche modo, ce lo sapranno ricordare e raccontare ancora? Boh, chissà, difficilissimo dirlo oggi. Probabilmente non saranno dischi rock a farlo: forse guardando al 2022, tra vent’anni, c’è chi lo identificherà col centrifugato iper pop di una figura sempre più ibrida quale Rosalìa, con l’hip hop colto e raffinato di Kendrick Lamar o magari con le canzoni classicissime, eppure capaci d’intercettare il gusto di un pubblico vastissimo (e che in linea di massima di quel tipo di sound se ne frega) come Taylor Swift, che nel momento in cui scrivo è responsabile del sorpasso del vinile sul CD grazie alle vendite del suo ultimo Midnight, non accadeva dai tempi di Bad di Michael Jackson, sei milioni di copie vendute dal 21 ottobre, giorno in cui è uscito, senza contare quegli 82 milioni e rotti di ascoltatori mensili stando solo a Spotify. Tutto ciò alla faccia della crisi dell’industria musicale, in realtà mai così florida, spesso alla faccia degli artisti, che ben lungi sono dall’avere il potere contrattuale della Swift.

Sui nomi appena citati sospendo il giudizio, sono dischi che ho ascoltato, ma non approfondito, probabilmente non sono riusciti a catturare abbastanza la mia attenzione, anche se almeno citarli mi pareva il minimo, giusto per non dare l’impressione di essere completamente fuori dal mondo. Perché poi, come sempre, nel tentativo sempre più futile e destinato alla sconfitta di provare ad arginare quello che è uscito di buono in un’intera annata, non si può che ricorrere al gusto personale, dando maggiore rilevanza a quello che in definitiva si è ascoltato di più.

Come gli altri anni, alla fine del pezzo troverete una mega playlist con dentro di tutto un po’, così da avere un riassunto, comunque ovviamente sempre incompleto, di quello che nel 2022 è accaduto. Al momento conta 226 brani per svariate ore di musica, ma diciamo che potenzialmente è destinata ad ingrandirsi, perché in realtà l’onda lunga di un’annata si prolunga anche in quella successiva e, proprio il periodo delle classifiche di fine anno è foriero di nuove scoperte. Non è per questo che si fanno?

Insomma, lo si dice sempre ed in effetti è così: questo delle classifiche è un gioco, magari anche un po’ sciocco, che tutti noi appassionati di musica però prendiamo abbastanza seriamente. Per tutte le cose che ho scritto sopra, non metterò in fila un elenco come gli altri anni, ma mi atterrò al formato discorsivo scelto dai mie due soci prima di me. Unica differenza, dividerò il tutto in sezioni, più che altro per una questione di comodità e leggibilità. Visto che citerò una marea di nomi, in neretto quelli più rilevanti. Buona lettura, ma soprattutto, buon ascolto!

SINGER-SONGWRITER (VOCI FEMMINILI)
Se la sezione dedicata ai singer-songwriter è divisa in due, non è tanto per marcare una vera differenziazione tra la canzone d’autore al femminile piuttosto che al maschile, ma nuovamente per una questione di comodità d’esposizione. Nessuna voglia di creare ghetti insomma, tanto più che, in questo caso, a finirci sarebbero i maschietti, decisamente minoritari nei miei ascolti rispetto alle femminucce. Quisqulie a parte, da tempo trovo che in ambito cantautorale (ma diciamocelo, non solo) le donne abbiano una marcia in più e quest’anno è parso evidente come non mai, sia in fatto di numeri, che per ciò che riguarda la qualità dei lavori. Particolarmente rilevanti, per me, sono stati i ritorni discografici di cantautrici quali Angel Olsen e Sharon Van Etten, la prima con Big Time a riabbracciare a modo suo il country in compagnia di Jonathan Wilson, la seconda col bellissimo We’ve Been Going About This All Wrong a regalarci quello che è probabilmente il suo miglior disco, di certo il più maturo. Tra i nomi più noti, dischi da ricordare sono anche quelli di Beth Orton, Aldous Harding, Weyes Blood, lo stupendo riaffacciarsi di Nina Nastasia e a seguire quelli di Julia Jacklin, Jesca Hoop, Janny Hval, Cate Le Bon, Nilufer Yanya, Courtney Marie Andrews, Joan Shelley, Laura Veirs, Tess Parks, Weather Station, Shilpa Ray. Tra i nomi più o meno nuovi, ho amato moltissimo il disco di Grace Cummings, voce e personalità straripante, ma anche quelli di Marina Allen, Tomberlin, Eve Adams, Aoife Nessa Frances, Indigo Sparke, Skullcruscher, Naima Bock. Tra le cose non del tutto (o non solo) ascrivibili al mondo del cantautorato, ottimi i dischi di Gwenno, Zola Jesus, Carla Dal Forno e quello distorto e metallico della bravissima A.A. Williams. Da citare almeno anche il bel lavoro di Leyla McCalla, mentre buono, ma non indimenticabile il nuovo Hurray For The Riff Raff. In playlist, ovviamente, trovate anche altro.

SINGER-SONGWRITER (VOCI MASCHILI)
In questa sezione sono soprattutto tre gli album che più mi hanno appassionato: il grandioso This Is A Photograph di Kevin Morby, il Bill Callahan in formissima di Ytilaer, l’idiosincratica canzone sperimentale messa a punto da Eric Chenaux in Say Laura. Bravo Ty Segall in versione acustica in Hello, Hi, buona la doppietta di Jack White (soprattutto, anche in questo caso, l’acustico Entering Heaven Alive), mentre altre cose da ricordare sono gli album di Fantastic Negrito, Ezra Furman, Kurt Vile, Richard Dawson, Cass McCombs, Jake Xerses Fussell. Stando sui super classici, anche piacevole, ma sostanzialmente inutile e comunque un’occasione persa l’Only The Strong Survive di Bruce Springsteen, mentre al momento non ho ancora sentito il nuovo Neil Young, come sempre strabordante anche nella sezione ristampe/archivi.

BAND
In questo caso l’invito è quello di mettervi a spulciare la playlist, perché se citassi tutti il rischio sarebbe quello di fare un elenco lunghissimo. Mi limiterò quindi a segnalare le cose per me veramente da non perdere, ben sapendo che ce ne sarebbero in realtà molte altre oltre quelle qui elencate. Innanzitutto i Black Country, New Road di Ants From Up There, probabilmente il mio disco dell’anno in un anno in cui il disco dell’anno in realtà non ce l’ho (scusate se vi sembro contorto). E poi, i Fontaines D.C. sempre più maturi con Skinty Fia, i Big Thief del doppio Dragon New Warm Mountain I Believe In You, gli imprevedibili Horse Lords di Comradely Objects, l’esordio degli Smile, i nuovi album di band amatissime come Black Angels, Wilco, Calexico, Beach House, Spiritualized, la conferma da parte di band come Dry Cleaning, Bodega, The Cool Greenhouse, Viagra Boys. Tra le cose più o meno nuove, il graffiante album dei Party Dozen ha sicuramente il posto d’onore assieme a quello dei King Hannah, ma non meno interessanti sono i Caroline, i Moin, gli Special Interest, gli Yard Act, il pop contagioso delle Wet Leg, il classico indie rock degli Horsegirl, l’assalto dei Gnod e… basta, mi fermo qui. Anzi no, almeno una citazione la devo agli irriducibili King Gizzard & The Lizard Wizard, che nel 2022 hanno pubblicato ben cinque album (ne volete solo uno? Scegliete Omnium Gatherum, non foss’altro che per i 18 minuti del pezzo che lo apre).

JAZZ/BLACK/HIP HOP
In ambito jazz le cose migliori continuano a dividersi, per chi vi scrive, tra quello che viene pubblicato da etichette come International Anthem o Brownswood e quello che ha da offrire la scena londinese, guidata ovviamente da uno come Shabaka Hutchings, quest’anno presente con un breve album a suo nome e il pulsante ritorno dei Comet Is Coming. Ottimi i dischi intestati a due batteristi, quello di Makaya McCraven e quello di Tom Skinner, mentre altri lavori da ricordare sono quelli di Alabaster DePlume, KOKOROKO, Binker & Moses e quello degli Anteloper della compianta jamie branch.
In ambito black/hip hop da non perdere sono il plumbeo Conduit di Coby Sey, Aethiopes di Billy Woods, il più rockettaro Loggerhead di Wu Lu, i vari album dei Sault (con preferenza per 11) e i dischi nuovi di Moor Mother, Little Simz, Kae Tempest, quest’ultimo forse più orientato alla sound poetry.

ALTRO
Per ciò che concerne i territori più sperimentali, scelgo quattro album su tutti: lo straordinario The Liquified Throne Of Simplicity degli sloveni Širom, la mai così devota al formato canzone Lucrecia Dalt di ¡Ay!, il cantautorato destrutturato ed ermetico di Kee Avil in Crease, il lavoro sulle tradizioni est europee e non solo dei redivivi Black Ox Orkestar. In realtà ce ne sarebbe un quinto almeno che merita tutta la vostra attenzione, ovvero Canti di guerra, di lavoro e d’amore di Silvia Tarozzi e Deborah Walker, con quale ci spostiamo in…

ITALIA
Non che non abbia ascoltato anche i lavori di artisti ormai storici come Manuel Agnelli, Verdena, Marlene Kuntz o Edda, o che non mi sia dedicato ai dischi di alcuni nomi segnalati da tutti (dal pop Tutti Fenomeni, ai mesmerici Post Nebbia, fino all’elettronica stilizzata di Whitemary), ma la mia Italia 2022 è principalmente oscura. E quindi: gli enormi e internazionali Messa di Close, l’ancestrale Mai Mai Mai di Rimorso, il Nero Kane sempre più cupo di Of Knowledge And Revelation, la spesso allucinata Bebawinigi di Stupor, la scoperta dell’ultima ora (per me ovviamente, grazie Giada che hai insistito!) Cigno che, in Morte e pianto rituale, riesce a risultare credibile citando Ernesto De Martino e fondendo Capossela, Iosonouncane e i CCCP. Da non dimenticare assolutamente sono anche i Maisie, La Forbici di Manitù, Alessandro Fiori, Il Lungo Addio, i Calibro 35 e gli Horseloverfat.

RISTAMPE/LIVE
La sezione ristampe/live/materiali d’archivio inediti è sempre più affollata, senza contare poi i tanti cofanetti celebrativi. Mi limito alla segnalazione di poche, rimarchevoli cose: la ristampa da parte di Strut delle introvabili incisioni storiche dei Pyramids di Idris Ackamoor in Aomawa: The 1970s Recordings; il cofanetto live Live At The Fillmore 1997 di Tom Petty & The Heartbreakers; le Maida Vale Sessions dei Broadcast; il quinto volume della serie Switched On degli Stereolab Pulse Of The Early Brain; le BBC Sessions dei Come. Ci sarebbe tantissimo altro, ma mi fermo qui.

POSTILLA FINALE
Al contrario dell’anno scorso, quest’anno non mi sono granché dedicato alla visione di film d’argomento musicale, nulla comunque che qui mi sento di ricordare. Almeno un libro – oltre a quello bellissimo in cui Sean O’Hagan intervista Nick Cave, citato da Luca nel suo pezzo – ve lo voglio però segnalare, perché a mio parere è a dir poco imperdibile, per come è scritto, per le sue analisi, per l’ampiezza e l’importanza del suo studio: parlo di Alla ricerca dell’oblio sonoro di Harry Sword, clamoroso!!
In un anno in cui sono stato a tre festival internazionali e a una marea di concerti, potrei dedicare una sezione anche ai migliori live dell’anno, ma mi sembra di avervi già annoiato abbastanza e quindi, ora, non vi resta che tuffarvi nella playlist che c’è qui sotto! Buon ascolto e buon 2023!!!

Dedicato alla memoria di Mimi Parker, Mark Lanegan, jamie branch, tre delle tante anime volate via nel 2022.

Lino Brunetti

Best 2022 part 2: Luca Salmini

Sarà stata forse l’onda lunga degli effetti dell’isolamento da pandemia che ha consentito agli artisti di riflettere sul proprio ruolo come ha fatto Nick Cave e di mantenersi creativi come hanno fatto i Native Harrow o magari l’euforia suscitata dalla sensazione di essere finalmente usciti dalla catastrofe, ma musicalmente parlando il 2022 ha tutta l’aria di essere stata quella che i vinicoltori definirebbero un’annata eccezionale data la quantità e la qualità dei dischi pubblicati nel corso dei 12 mesi appena trascorsi.

Al contrario di quanto successo altri anni, non c’è magari un album in grado di mettere d’accordo tutti, perché ad esempio la rivista Uncut ha scelto A Light For Attracting Attention del progetto legato ai Radiohead The Smile, l’antagonista Mojo ha invece optato per il pop colto di Michael Head, il sito Pitchfork si inchina alle mode con Renaissance di Beyonce, dalle nostre parti, Buscadero preferisce andare sul sicuro con il live di Tom Petty e perfino un’opera su cui in verità mi sarei sentito di puntare come Dragon New Warm Mountain I Believe In You dei Big Thief, un lavoro in un certo senso definitivo che mette a fuoco le varie sfumature della musica di uno dei gruppi più celebrati degli ultimi tempi, è spesso finito lontano dalle vette delle classifiche.

Orientarsi tra le pubblicazioni e operare una scelta è impresa ardua quanto aleatoria e forse è più facile indicare dei debutti che hanno avuto un certo impatto: il primo fra questi è a mio giudizio l’esordio omonimo dei Caroline, un giovane ensemble inglese che sulla scia di gruppi come Black Midi o Black Country, New Road intreccia post rock, avanguardia, effluvi ambient, sfumature jazz, polveri folk e chitarre post punk in maniera creativa e del tutto originale. Non si può trascurare inoltre I Walk With You A Way del progetto Plains di Katie Crutchfield e Jess Williamson che senza inventare nulla, dà una bella rinfrescata al country classico di gente come Willie Nelson, Emmylou Harris o Kris Kristofferson con una immediatezza e una passione davvero al di fuori del comune.

Non è un vero e proprio esordio ma è comunque sensazionale come se lo fosse, The Real Work degli australiani Party Dozen, un duo furioso e out of our heads che mescola selvaggio rock’n’roll e fumoso jazz con una ferocia che fa venire in mente i Grinderman di Nick Cave che non a caso, canta in un brano. Si citavano poco sopra i Black Country, New Road e il loro secondo album Ants From Up There è una delle uscite che avrei visto bene in cima a qualsiasi classifica, ma forse la struttura complessa delle canzoni e il sovraccarico delle emozioni in esse contenuto, lo rende un lavoro poco immediato, benché pervaso di straordinaria meraviglia.

Non sono un gruppo nuovo anzi piuttosto navigato, The Delines, che mio malgrado ho scoperto e apprezzato solo dopo l’incantevole concerto tenuto al Buscadero Day la scorsa estate: conoscevo i Richmond Fontaine di cui adoro Post To Wire e ho letto praticamente tutti i romanzi tradotti in Italia di Willy Vlautin, di cui le canzoni dello splendido The Sea Drift costituiscono una deliziosa trasposizione in musica, sospese tra atmosfere jazz, calore soul e frammenti del Grande Sogno Americano. Sono giovani ma non di primo pelo artisticamente parlando, anche i Native Harrow, americani di stanza in Inghilterra, che con il nuovo Old Kind Of Magic celebrano la stagione psichedelica degli anni ’60 e l’immaginario del Laurel Canyon con un luminoso folk rock dalle sfumature lisergiche che suona fresco e affascinante come raramente capita di ascoltarne.

Sono immersi nel passato anche le canzoni di The Wilderness Of Mirror dei texani Black Angels che cavalcano l’onda dei 13th Floor Eleveator con un disco che suona come un capolavoro perduto della stagione psichedelica. Sempre all’altezza delle aspettative anche i Calexico, perché El Mirador appare davvero ispirato e pieno di belle canzoni, pur senza nulla aggiungere a quanto fatto in passato. Nemmeno la cantautrice americana Joan Shelley esce prepotentemente dall’ordinario, ma il suo The Spur è pura magia con una serie di ballate meravigliose sospese tra tradizione popolare e canzone d’autore che evocano il fascino dell’America più periferica e romantica con un grado di ispirazione simile a quello che riempie Weather Alive della bravissima Beth Orton, un disco intimo e dall’aura spirituale con sonorità sospese tra jazz e folk come fosse un classico di Joni Mitchell.

I loro concerti sono sconvolgenti, ma anche in studio il trio The Comet Is Coming del sassofonista Shabaka Hutchings fa scalpore, perché Hyper-Dimensional Expansion Beam è una bomba di suono che mette insieme le visioni spaziali di Sun Ra e i ritmi della club culture inglese in maniera geniale e rimanendo in ambito jazz, non si possono trascurare le uscite dell’etichetta di Chicago International Anthem, che da qualche tempo pubblica alcune delle cose più interessanti del settore, come Forfolks del chitarrista Jeff Parker, un disco per sola chitarra che fluttua liberamente tra Thelonious Monk e Frank Ocean, e Gold del britannico Alabaster De Plume, vero e proprio talento che combina poesia, impegno e contaminazioni avanguardistiche.

Kahil El’ Zabar è un veterano della scena jazz americana che ha suonato un po’ con tutti i grandi e se non l’avessi visto in concerto a Novara pochi mesi fa (ero andato principalmente per vedere Jeff Parker, previsto nella stessa serata), è probabile che avrei continuato a ignorarne l’esistenza, ma le straordinarie due ore e mezza di performance mi hanno fatto scoprire il nuovo e bellissimo A Time For Healing, un lavoro in cui spiritual jazz, musica black e influenze afro danno vita a una miscela assolutamente esaltante di suoni e emozioni.

Per quanto riguarda i concerti visti lo scorso anno, i momenti indimenticabili sono probabilmente quelli vissuti nel corso degli spettacoli di Dry Cleaning, dal vivo una vera e propria rivelazione e il gruppo più eccitante che mi sia capitato di vedere negli ultimi tempi, e di Dream Syndicate, sempre bravi e professionali nel mettere insieme un rock’n’roll show sanguigno, autentico e furioso come quello di una band di esordienti.

Nel periodo post-covid, ho frequentato davvero poco le sale cinematografiche e se ben ricordo, nel 2022, l’unica volta è stata in occasione della proiezione di This Much I Know To Be True di Andrew Dominik, una pellicola su Nick Cave che è in parte documentario, in parte film e in parte concerto, forse non proprio riuscita ma tutto sommato decisamente interessante. In alternativa alle sale mi sono un po’ arrangiato con Netflix, dove ho apprezzato Blonde scritto e diretto sempre da Dominik con colonna sonora di Nick Cave e Warren Ellis, biopicture romanzato e visionario della vita breve e sfortunata della diva Marilyn Monroe, e il documentario Un Eco Nel Canyon, incentrato sulla scena californiana degli anni ’60.

Se da un lato sono andato meno e in verità quasi per niente al cinema, il 2022 è stato un anno pieno di letture e tra quelle che ho gustato di più, segnalerei i romanzi di Colson Whitehead Il Ritmo Di Harlem, un appassionato giallo ambientato nella comunità nera degli anni ’60, e di Amor Towles Lincoln Highway, rocambolesca avventura on the road in bilico tra le malinconie di Stand By Me e la follia di Sulla Strada, il saggio di JR Moore Electric Wizards che contempla le varie sfaccettature della musica heavy, quello di Sarah Smarsh Una Forza Della Natura su un personaggio che senza leggere il libro avrei considerato rascurabile, come la star della musica country Dolly Parton, e infine il libro di Nick Cave e Sean O’Hagan Fede, Speranza e Carneficina, straordinaria raccolta di conversazioni che elevano l’intervista a opera d’arte.

Ho ascoltato, letto e visto molto altro e probabilmente ho lasciato fuori qualcosa da questa selezione che avrebbe meritato più di quanto abbia inserito, ma al momento è con questi titoli che credo di poter ricordare il 2022. 

Luca Salmini

BEST OF THE YEAR 2012 – Lino Brunetti

Come è tipico di ogni fine anno, è giunto il momento dei bilanci. E dunque, come è stato questo 2012 in musica? Partiamo da una considerazione generale: ormai da tempo è impossibile identificare, non dico un album, ma anche solo uno stile, che possa essere rappresentativo dell’anno appena trascorso. Le tendenze musicali, che sono comunque propense a ripetersi ciclicamente, sono da tempo esplose in miriadi di rivoli che, lungi dal potersi (se non in sporadici casi) definire nuovi, hanno perso pure la loro capacità di caratterizzare un’epoca. Se un lascito ci rimarrà di questi anni di download selvaggio e strapotere della Rete, sarà quello di un azzeramento dell’asse temporale, non più verticale bensì orizzontale, dove passato, presente e futuro convivono allegramente assieme in una bolla dove non c’è più nessuna vera differenziazione. Lo si evince dall’enorme numero di ristampe, deluxe edition, cofanetti celebrativi, ma pure dalle musiche contenute nei dischi dei cosidetti artisti “nuovi”, talmente nuovi che a volte suonano esattamente come i loro omologhi di quarant’anni fa. In questo scenario, le cose migliori nel 2012 sono arrivate in larga parte proprio dai grandi vecchi o comunque da artisti sulle scene ormai da parecchio tempo. Bob Dylan è tornato con un disco stupendo, Tempest, celebrato (giustamente) ovunque. Non gli è stato da meno Neil Young che, assieme ai Crazy Horse, ha assestato due zampate delle sue, prima con le riletture di Americana, poi con le cavalcate elettriche di Psychedelic Pill. Dopo due ciofeche quali Magic Working On A DreamBruce Springsteen se ne è uscito finalmente con un disco vitale, intenso, potente sotto tutti i punti di vista. Magari imperfetto, di sicuro non un capolavoro, Wrecking Ball è comunque un album di grandissimo livello, che ha riposizionato il Boss ai livelli che gli competono. Rimanendo sui classici, bellissimo il nuovo Dr. John (Logged Down), splendido il Life Is People di Bill Fay, di gran classe il Leonard Cohen di Old Ideas (un disco che comunque io non ho amato pazzamente come altri hanno fatto), mentre solo discreto è stato il Banga di Patti Smith. Per la serie “e chi se l’aspettava?”, credeteci o no, è ottimo invece il nuovo ZZ TopLa Futura, band a cui la produzione di Rick Rubin ha fatto un gran bene. Ma non solo i “grandi vecchi” ci sono stati, anche se sempre tra i veterani  si è dovuto andare a cercare le cose migliori. Partiamo da quello che è senza dubbio il mio disco dell’anno, The Seer degli Swans, un triplo LP magnetico, ottundente, potentissimo e visionario. Poi, in ordine sparso, il sorprendente ritorno sulle scene dei Godspeed You! Black Emperor (‘Hallelujah! Don’t Bend! Ascend!), i Giant Sand sempre più Giant di Tucson, i loro fratelli Calexico con Algiers, i Dirty Three di Towards The Low Sun, gli Spiritualized di Sweet Heart Sweet Light, i Sigur Ros di Valtari, i Lambchop di Mr Mil Mark Stewart di The Politics Of Envy, i redivivi Spain di The Soul Of Spain, i Mission Of Burma di Unsound, gli Om  di Advaitic Songs, Dirty Projectors di Swing Lo Magellan. Deludente il ritorno dei PiL, decisamente buoni quelli di Jon Spencer Blues ExplosionLiars, EarthBeach House (sia pur meno efficace degli album precedenti), Six Organs Of AdmittanceAnimal CollectiveNeurosis, UnsaneThe Chrome CranksThee Oh SeesGuided By Voices (ben tre dischi!), Woven HandGrizzly BearPontiak (memorabile il loro Echo Ono, e non solo perché hanno avuto la bontà di mettere una mia foto sulla copertina della versione in vinile), la doppietta Clear Moon/Ocean Roar dei Mount Eerie, il Moon Duo di Circles, i Tu Fawning di A Monument, i Peaking Lights di Lucifer. Dagli artisti solisti non moltissimi dischi da ricordare a mio parere: di sicuro lo è quello di Hugo Race & Fatalists (We Never Had Control), tra le cose migliori dell’annata, anche superiore al Blues Funeral della Mark Lanegan Band (comunque bello), ma lo sono pure la doppietta di Chris Robinson Brotherhood, i due dischi di Andrew Bird (soprattutto Break It Yourself), l’esordio del leader dei Castanets come Raymond Byron & The White Freighter (Little Death Shaker) ed il The Broken Man di Matt Elliot. Ancora meglio ha fatto il gentil sesso: per una Cat Power a fasi alterne (Sun, solo parzialmente riuscito), ci sono state una Fiona Apple in odor di capolavoro (The Idler Wheel…), una grandissima Ani Di Franco (Which Side Are You On?), la sorprendente Gemma Ray (Island Fire), le sorelline svedesi First Aid Kit (The Lion’s Roar), la Beth Orton di Sugaring Season. Tra le nuove band, la palma di rivelazione dell’anno se la beccano i grandissimi Goat di World Music, seguiti a ruota dai The Men di Open Up Your Heart, dai Big Deal di Lights Out, dagli Islet di Illuminated People, dai Fenster di Bonesdagli Allah-Las e dalla Family Band di Grace & Lies. Tra le cose più sperimentali, vetta incontrastata allo Scott Walker di Bish Bosch, un disco per nulla facile ma di una intensità rarissima. In campo improvvisativo, grandi cose sono arrivate dagli svizzeri Tetras (Pareidolia il titolo del loro album). Altri dischi da non dimenticare, Effigy dei Pelt, msg rcvd dei Neptune, Fragments Of The Marble Plan degli AufgehobenWe Will Always Be di Windy & Carl. E l’Italia? Certo, anche l’Italia ci ha dato grandi cose. Gli Afterhours hanno pubblicato uno dei loro dischi più belli di sempre, Padania. Potente e visionaria l’opera in due parti degli Ufomammut, così come Il Mondo Nuovo de Il Teatro Degli Orrori. E poi: Sacri Cuori (Rosario), King Of The Opera (Nothing Outstanding), Father Murphy (Anyway, Your Children Will Deny It), Paolo Saporiti (L’ultimo Ricatto), Ronin (Fenice), Mattia Coletti (The Land), manZoni (Cucina Povera), Xabier Iriondo (Irrintzi), Sparkle In Grey (Mexico), Guano Padano (2), Calibro 35. E chissà quante altre cose mi son perso o avrò dimenticato! Qui sotto, la selezione della selezione. Ed ora, prepariamoci al 2013!

SWANS “THE SEER”

GOAT “WORLD MUSIC”

FIONA APPLE “THE IDLER WHEEL…”

PONTIAK “ECHO ONO”

GODSPEED YOU! BLACK EMEPEROR “‘ALLELUJAH! DON’T BEND! ASCEND!”

AFTERHOURS “PADANIA”

TETRAS “PAREIDOLIA”

MOUNT EERIE “CLEAR MOON/OCEAN ROAR”

HUGO RACE FATALISTS “WE NEVER HAD CONTROL”

THE MEN “OPEN UP YOUR HEART”

SCOTT WALKER “BISH BOSCH”

BRUCE SPRINGSTEEN “WRECKING BALL”

BOB DYLAN “TEMPEST”

NEIL YOUNG & CRAZY HORSE “AMERICANA/PSYCHEDELIC PILL”

FIRST AID KIT “THE LION’S ROAR”

GIANT GIANT SAND “TUCSON”

BOX SET: CAN “THE LOST TAPES”

MARTHA TILSTON “Machines Of Love And Grace”

MARTHA TILSTON

Machines Of Love And Grace

Squiggly Records

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Confesso questa mia mancanza: fino a quando non ho ricevuto a casa una copia di Machines Of Love And Grace, Martha Tilston non l’avevo mai sentita neppure nominare. Eppure, basta una piccolissima ricerca su internet per scoprire che, dal 2000 ad oggi, sono diversi i dischi che la vedono protagonista. Inizialmente col duo Mouse (in pratica lei più il chitarrista Nick Marshall), poi attraverso una serie di dischi solisti che, con quest’ultimo, arrivano a quota cinque. Da aggiungere rimangono un ennesimo album (in free download), accreditato a Martha Tilston And The Woods, e la collaboraziione al disco degli Zero 7, Year Ghost. Inglese, figlia del cantautore Steve Tilston e figliastra della folk singer irlandese Maggie Boyle, Martha ha dunque un bel curriculum alle spalle ed anche una certa esperienza, come appare chiaro all’ascolto di queste sue nuove undici canzoni, che sono bellissime, tanto vale dirlo subito. La Tilston è la tipica cantautrice folk – ipotizziamo qualcosa tra Beth Orton ed Alela Diane – e se c’è un problema nella sua musica, è solo quello di giocare in un campionato affollato quanto mai. Peccare di sufficienza e liquidarla come l’ennesima cantautrice acustica, però, potrebbe davvero risultare uno sbaglio. La sua scrittura, magari non sempre definibile come originale, è a dir poco eccelsa, sia dal punto di vista strettamente melodico, che in rapporto al modo oculato con cui vengono gestiti i suoni che, in linea di massima, si mantengono minimali ma assai variegati nelle timbriche e nelle diverse sfumature che si susseguono. E’ così che a volte vieni colpito da un insieme particolarmente aggraziato (Stags Bellow), altre dal ricamare di una chitarra solista (quella del citato Marshall nella splendida Silent Women), altre ancora da un semplice backing vocal maschile (Blue Eyes) o da un insolito intro quasi psichedelico quale quello di Survival Guide. Lo svisare di un violino, il tocco di un pianoforte, l’intrecciarsi di corde elettriche ed acustiche, l’apparire di un autoharp o di un bouzouki, il felpato passo di qualche percussione o quello più impegnativo di un contrabbasso, sono gli elementi tipici di queste canzoni. Qualche pezzo farebbe la propria figura anche arrangiata da rock song, portandone chiaramente in vista i connotati (Wall Street, la memorabile More, Shiny Gold Car), qualcun’altra azzarda qualche sconfinamento, comunque sempre misurato (gli archi e quel pizzico d’elettronica che appaiono in Suburbia, le congas che accompagnano Butterflies, gli arrangiamenti più marcati di una psichedelica Let Them Glow, resa pulsante da un basso quasi dub). Come che sia, sono tutti esempi di un disco privo di cadute di tono, che sarebbe davvero un peccato far passare sotto silenzio. Il consiglio implicito mi pare chiaro: non fatelo!

Lino Brunetti