Torniamo a scavare negli archivi: era il novembre del 2003 quando, abbastanza impietosamente, stroncavo uno dei dischi del momento, di una delle band più chiacchierate del tempo. Visto quello che hanno fatto dopo, probabilmente avevo ragione.
THE STROKES
Room On Fire
RCA
E alla fine eccolo qui, questo nuovo album degli Strokes, anticipato da tonnellate di parole, fiumi d’inchiostro e quintalate di carta. Questi ragazzi newyorkesi sono senza dubbio l’hype del momento, i novelli messia del verbo rock’n’roll, i suoi salvatori, i cavalieri della sua nuova ed eterna giovinezza. Tutte cazzate! Si tratta di una solenne montatura mediatica e, in definitiva, l’impressione che la band da di sé è quella di un enorme, colossale bluff. La recensione potrebbe finire qui, ma andiamo, non siamo così cinici da stroncare l’album più atteso dell’anno senza argomentare le nostre ragioni. Di questo album ne leggerete di tutti i colori: dalla più impietosa stroncatura, a spropositati innalzamenti del gruppo verso l’Olimpo del Rock. C’è chi ci vedrà una patetica rilettura, poppizata tra l’altro, della New York dei Television e di Lou Reed, e chi invece rimarcherà la loro abilità nel costruire melodie killer e una propensione nel tessere trame strumentali semplici, ma proprio per questo così vicine allo spirito del miglior rock. Proviamo ad azzerare tutti i discorsi e ad analizzare la faccenda con calma. Partiamo dal loro album d’esordio, Is This It?. Un disco che non è affatto difficile considerare a suo modo importante e per certi versi addirittura necessario. Necessario nel senso che, probabilmente al di là dei suoi meriti, su cui ritorneremo, è stato il disco – e di tanto in tanto ci vuole – che ha rilanciato, parlo soprattutto a livello mediatico/commerciale, tutta una serie di sonorità che col tempo erano diventate fin troppo minoritarie. Se sia cosa importante o meno lo lascio decidere a voi, ma il fatto che gruppi come White Stripes o Kings Of Leon non siano appannaggio dei soliti quattro gatti, lo si deve forse un po’ al trend partito con gli Strokes. Strokes che, forse, sono stati un gruppo montatura fin da subito: zero gavetta e subito diventati priorità della major di turno. Il loro primo disco però, ha rappresentato realmente una bella boccata d’aria fresca, un buon esordio che proponeva un discreto campionario di archetipi rock, gratificati da una leggiadra naiveté che era il tratto caratteristico del loro suono, fatto di chitarre acide ma non troppo selvagge e oculatamente calato nei settanta newyorchesi in modo da risvegliare passioni mai sopite in un generale senso di deja vu musicale. Non certo un capolavoro ma abbastanza da far drizzare le orecchie. Questo però andava bene allora; ora sono passati due anni, le cronache ci hanno detto di una band dalla resa live immatura e raffazzonata e l’importanza che si è dato al loro ritorno ha travalicato l’impatto che nella realtà questi striminziti trentatré minuti di musica possono avere. Room On Fire ci mostra una band ferma esattamente a dove l’avevamo lasciata, ma ora le aspettative nei loro confronti sono decisamente cambiate e le canzoni del disco non riescono da sole a dimostrare il valore del gruppo ma, anzi, ne evidenziano tutte le mancanze. Non si è naturalmente perso il loro appeal melodico (ed infatti è facile prevedere che venderà un botto), ma ora suona solo furbo e poco coraggioso. What Ever Happened?, Reptilia o il singolo 12:51, puntano tutto sulla propria immediatezza ruffiana e il resto dell’album le segue di conseguenza. Il risultato è che al secondo ascolto ti sembra di averlo già sentito mille volte. Dal punto di vista del songwriting, sembrano essere incapaci di andare oltre uno standard ben definito: riffettino di chitarra, batteria essenziale in tempo medio e voce roca in primo piano. Non c’è un pezzo che vada fuori da questi binari, un canovaccio che viene rispettato con minime variazioni. Non una ballata, non un picco compositivo. Prendiamo ad esempio The End Has No End: ad un certo punto sembra che possa esserci un’evoluzione, che una certa rabbia si faccia avanti e che il pezzo possa aprirsi e prendere il volo, quando improvvisamente rientra nel solco del solito pop-rock venato di wave slavatina. Molte volte ci si trova di fronte a veri e propri remake del primo album (The Way It Is ad esempio) privi di qualsiasi fantasia. Ai miei occhi, ora che ho sentito il disco, persino il licenziamento di un produttore importante ed affermato come Nigel Godrich, in favore del più rassicurante Gordon Raphael, assume contorni inquietanti. Una gran delusione insomma. Fossero stati dei pinco palla qualsiasi, una maggiore indulgenza ci sarebbe anche stata, abbastanza forse da risicare una sufficienza, ma qui stiamo parlando della più celebrata rock band del momento e solo di una cosa potete star certi: il rock è vivo e vegeto, ma è di casa da ben altre parti.
Lino Brunetti