GIANT SAND”Recounting The Ballads Of Thin Line Men”

GIANT SAND
RECOUNTING THE BALLADS OF THIN LINE MEN
Fire Records

a2062769790_10

Quando l’anno scorso Howe Gelb e i suoi Giant Sand pubblicarono una nuova versione del loro esordio, Valley Of Rain, accogliemmo la notizia con curiosità e favore perché, in fondo, pur vedendoci un po’ di furbizia, il disco comunque suonava esaltante e altrettanto furono i concerti che l’accompagnarono. Il gioco però, si sa, è bello finché dura poco. Gelb, che sia con i Giant Sand, con una delle sue altre band o da solo, ha una discografia mostruosa e di certo non è uno che fa passare molto tempo tra una pubblicazione e l’altra. Capiamo benissimo che, in tempo di vacche magre, un musicista di culto del suo calibro per portare a casa la pagnotta debba passare la vita in tour e pubblicare il più possibile, ma se questo viene fatto ai danni dei propri fan la cosa diventa quantomeno seccante. Se infatti un’idea può essere carina una volta, già alla seconda mostra la corda e la sua sostanziale inutilità non può che peggiorare le cose. Di cosa stiamo parlando? Beh, questo nuovo Recounting The Ballads Of Thin Line Men altro non è che una versione re-immaginata e risuonata oggi del secondo disco della band, Ballad Of A Thin Line Man. Al contrario di quello dell’anno scorso qui non c’è neppure stato lo sbattimento d’inventarsi una ragione di qualsiasi tipo per attuare questa operazione. Si è giusto rimescolato un po’ la scaletta, si è aggiunta Reptillian, che appariva come bonus track nella ristampa del venticinquesimo anniversario e si son messe un paio di take di una Tantamount che non c’era sull’album del 1986 e che onestamente non so da dove venga. Tolto un suono meno affilato, una registrazione più consona all’oggi e la naturale maturazione della voce di Gelb, le differenze con le versioni originali sono pressoché nulle e pertanto viene da chiedersi, perché? L’ovvia risposta è: solo per far cassa con il minor sforzo possibile. Certo, le canzoni di Ballad Of A Thin Line Man erano bellissime e più o meno tali rimangono in queste riletture, ciò però non giustifica più di tanto il protrarsi di un’operazione decisamente discutibile, che ovviamente ci auguriamo si fermi qui e non continui per l’intera discografia della band.

Lino Brunetti

Milano: eventi live della settimana

Prima che le festività natalizie risucchino tutto, Milano offre, concentrati in soli tre giorni, una serie di eventi live d’indubbio interesse, purtroppo a volte sovrapposti, tanto che obbligatorio diventa fare delle scelte.

Ecco cosa vi invitiamo a segnare sul calendario:

1 DICEMBRE

GIANT SAND @ BIKO CLUB Info

giant-sand-heartbreak-pass-lg

DISAPPEARS + His Clancyness @ LA SACRESTIA Info

disappears

2 DICEMBRE

CALIBRO 35 @ MAGNOLIA Info

165619397-4341329f-f9e8-4ca5-ac21-1dbd417269b8

3 DICEMBRE

PSYCHIC TV @ MAGNOLIA Info

psychic-700x439

DUCKTAILS + The Wave Pictures @ BIKO CLUB Info

ducktails the band

DIECI ANNI DOPO: M. WARD “Transfiguration Of Vincent”

Giugno 2003, usciva “Transfiguration Of Vincent”, ancora oggi uno dei dischi più belli tra quelli realizzati dal cantautore americano M. Ward. Ecco cosa scrivevamo al riguardo.
M. WARD

Transfiguration Of Vincent

Matador / Self

m_ward_transfiguration_of_vincent-jb-070-1265339835

Sembrerebbe una leggenda ma pare che le cose siano andate proprio così; è il 1999 a Seattle, durante un concerto dei Giant Sand. Un tizio avvicina Howe Gelb e gli allunga il proprio demo per farglielo ascoltare. Gelb non solo lo ascolta, ma rimane così colpito da quello che sente da far esordire quel ragazzo sulla Ow Om, la sua personale etichetta discografica. Il disco si intitola Duet For Guitars #2 e il nome di quel tizio M. Ward (per i più curiosi M. sta per Matt, ma lui preferisce così). Basterebbe questa storiella per far rizzare le orecchie, ma prima di parlare di musica completiamo le note biografiche. Prima di questo incontro con il leader dei Giant Sand, Ward aveva fatto parte di un trio californiano chiamato Rodriguez, il quale, in sei anni di attività, era riuscito a pubblicare un solo album, Swing Like A Metronome, registrato da Jason Lytle dei Grandaddy (altro nome che a Gelb deve più di qualcosa). Il suo secondo disco solista, End Of Amnesia, esce nel 2001 per un numero infinito di etichette diverse (da noi apparve grazie alla Glitterhouse) e il nome di M. Ward inizia ad essere conosciuto ed apprezzato, tanto che lo si ritrova in tour con gente del calibro di Cat Power, Lambchop, Bright Eyes etc. Ed ora è il turno di questo Transfiguration Of Vincent che, statene certi, lo lancerà definitivamente. Con bene in mente numi titolari importanti quali Tom Waits e il John Fahey meno ostico – senz’altro due delle sue più importanti influenze – la musica di Ward viaggia sui binari di un cantautorato roots dagli accenti lo-fi e dall’indole, comunque, modernista. Per intenderci, suoi probabili compagni di viaggio sono proprio quei gruppi che pur rifacendosi al suono delle radici musicali americane – folk, blues, country – le rivedono secondo un’ottica rock moderna e personale; parlo di gruppi quali Giant Sand (of course), Sparklehorse, Grandaddy e cantautori come Joseph Arthur o Elliott Smith, giusto per fare qualche esempio. Registrato con Mike Coykendall degli Old Joe Clarks e con ospiti quali Gelb e Adam Selzer dei Norfolk + Western, Transfiguration Of Vincent pare l’album in cui Matt, pur non rinunciando all’attitudine lo-fi, è riuscito a sintetizzare e centrifugare al meglio le proprie idee ed influenze musicali in una collezione di canzoni realmente eccezionali. Il disco si apre con Transfiguration #1, bucolico quadretto agreste speziato da suoni ambientali e da un piano honky-tonk. La successiva Vincent O’Brien associa ad un testo tra il disperato e l’ironico (He only laughs when he’s sad and he’s sad all the time/So he laughs the whole night through) una musica che a me – sarò pazzo? – ha fatto pensare ai Giant Sand che coverizzano i Pixies. Bellissima la notturna Sad Sad Song, così come la dolcezza malinconica di Undertaker, cantata in falsetto. Duet For Guitars #3 è uno strumentale bluegrass, Outta My Head un country-rock westcoastiano di quelli che anche i Grandaddy sanno, Involontary un’accorata folk-song dagli umori country. Helicopter, uno dei pezzi più belli dell’album, è una border song dal ritmo cadenzato, com un turbinio di corde arpeggiate e percosse, su cui si distende l’angelica melodia vocale del Nostro. Viene bissata da una Poor Boy, Minor Key che pare uscita dal songbook di Tom Waits, dalla frizzante armonia sixties di Fools Says, dalle sgangheratezze di Get To The Table On Time, dal feeling soul di A Voice At The End Of The Line, dall’old time lo-fi di Dead Man. Ma la vera sorpresa arriva alla fine; provate ad ascoltare la rilettura di Let’s Dance, vecchio successo di uno dei peggiori David Bowie che si ricordino. Il ritmo danzereccio scompare, la musica viene prosciugata fino a che non rimane solo un arpeggio di chitarra ed un’armonica e la voce canta dolente e triste come solo il miglior Ben Harper. Eccezionale! Chiude, ed è la quadratura del cerchio, Transfiguration #2, strumentale per piano e contrabasso. Altamente consigliato!

 Lino Brunetti

Nelle terre dei SACRI CUORI – Intervista ad ANTONIO GRAMENTIERI

Sacri-photo-bike-far-away

Non c’è bisogno di tirare in ballo Francesco Guccini – celeberrimo il suo album dal vivo, Fra La Via Emilia e Il West, le cui note v’invito di andare a rileggere – per attestare una sorta di corrispondenza tra la pianura Padana dell’Emilia Romagna e le terre del Sud Ovest americano. Chissà, forse perché trattasi di una terra di sognatori, in qualche modo continua ad esserci un legame forte tra questi due luoghi che, negli ultimi anni, è stato rinverdito da un gruppo di musicisti autodenominatosi Sacri Cuori. Un nome evocativo, quasi misterioso questo, le cui fila sono principalmente tirate dal chitarrista e songwriter Antonio Gramentieri. Forse alcuni di voi si ricorderanno di Antonio quale una delle firme apparse anche sul Buscadero, qualcun altro, invece, si ricorderà del fatto che è lui l’eminenza grigia dietro quello spettacolare festival chiamato Strade Blu; a fianco di queste attività, però, da sempre ha coltivato quella del musicista, che lo ha visto passare dai territori del blues a questa cosa, per certi versi non più facilmente definibile, che sono i Sacri Cuori. La prima volta che si sentì questo nome fu, all’incirca, un paio d’anni fa, quando uscì Douglas & Dawn, il loro esordio, inizialmente pubblicato solo in vinile da Interbang Records, poi ristampato, con tre bonus tracks, da Gustaff l’anno seguente. Era un disco fortemente cinematico quello, tranne che nella cover di Shelter From The Storm di Dylan, completamente strumentale; un disco fatto di polvere del deserto, notti al chiaro di luna, allucinazioni quasi pinkfloydiane da colpo di sole, il tutto tradotto in una musica in qualche modo affratellata a quella dei primi Calexico o dei Friends Of Dean Martinez. Del resto, all’epoca di quel disco, i musicisti che avevano aiutato Gramentieri a realizzarlo, si chiamavano Howe Gelb, John Convertino, Nick Luca, Thoger Lund, e molti altri erano gli ospiti stranieri presenti in quelle canzoni. Anche tra gli addetti ai lavori, si fece strada l’idea che Sacri Cuori fosse una sorta di progetto occasionale, da una botta e via. Ovviamente le cose non stavano così, tanto che Antonio oggi ci racconta meglio come stavano le cose: Sacri Cuori era un’idea nata in maniera estemporanea, nel 2007, con una commissione per una colonna sonora (The Gilgames’ Tale di Heriz Bhodi Anam N.d.A.), diventato poi un disco ed un progetto, un progetto di collettivo centrato sulle mie composizioni. Non c’era l’intenzione di centrarlo sugli ospiti. L’idea era semplicemente di andare a prendere un suono dalla fonte… Comprensibilmente l’etichetta mise il parco ospiti molto in primo piano nella comunicazione e così mi trovai in questa situazione un pò strana in cui tutti lodavano il disco ma sembravano intenderlo come un one/off, nato intorno a Strade Blu, mentre invece era il primo passo di un progetto mio, da musicistalavoro che facevo da molto prima di inventare Strade Blu. In qualche modo era una specie di punto di maturazione per la mia attività di musicista, un deciso passo in avanti nella direzione di ciò che volevo fare. Agli inizi Sacri Cuori era soprattutto un gruppo condiviso da me e Diego Sapignoli, oggi è un sestetto a rotazione, nel senso che dal vivo a suonare siamo generalmente in quattro. Non un qualcosa di estemporaneo quindi, e tanto meno un progetto chiuso: anche nell’ultimo album i musicisti ospiti sono numerosi, ma i Sacri Cuori stessi hanno iniziato a mettersi al servizio di altri artisti che portano i nomi di Hugo Race (i Fatalists dei suoi ultimi dischi altro non sono che proprio loro), Dan Stuart, Richard Buckner, Woody Jackson, Robyn Hitchcock, Pan Del Diavolo. Un’attività intensa, riverberatasi in qualche modo sul nuovo album, Rosario, che è un bel passo avanti nella definizione di un suono sempre più personale. Rosario nasce da un percorso nella memoria personale che ho fatto negli ultimi tempi. Segna il riappropriarsi di una cultura musicale rimasta a lungo sopita dentro di me e che in qualche modo caratterizza una rinnovata italianità del nostro suono. L’andare a riscoprire le colonne sonore di Morricone, tra l’altro quello meno western, il Nino Rota felliniano, ma pure le musiche di grandissimi compositori quali Piccioni, Umiliani, è stato come un lungo viaggio dentro dei suoni che erano dentro di me e che andavano solo riscoperti. La fusione tra le più tipiche sonorità americane e le suggestioni derivanti da questi ascolti ci ha portato alla realizzazione di un album senz’altro diverso da quello d’esordio. Tieni poi presente che mentre Douglas & Dawn era un disco che si concentrava soprattutto sui suoni, questo è, nelle nostre intenzioni, quello dove affrontare più di petto la composizione di canzoni, dando un maggior peso alle melodie, agli arrangiamenti. Ed è proprio vero, le canzoni del nuovo disco paiono mettere in atto una sorta di cortocircuito tra i suoni dell’Ovest americano e quelli appartenenti alla cultura musicale nostrana. E’ buffo perché una volta, parlando con Howe Gelb e John Convertino, venne fuori che pure per loro, il suono western è quello delle colonne sonore di Morricone e degli spaghetti western. E’ chiaro che, per buona parte, l’America che viene fuori dai nostri dischi è quella del Mito, quella vista con occhi europei e quella filtrata da anni ed anni di ascolti, letture, visioni. La nostra musica è senza dubbio percepibile come musica di Frontiera; quella tra Messico e Stati Uniti senz’altro, ma pure, in maniera più sottile ma più profonda, quella tra noi e la nostra idea d’America. I cortocircuiti culturali che si mettono in atto suonando con musicisti americani, facendo tour in quei luoghi, registrando nei loro studi, sono ulteriore linfa per la nostra musica. Registrare a Los Angeles, ad esempio, è stato per noi anche un modo per riconettersi ai luoghi dove John Fante ha fatto vivere le storie di Arturo Bandini, o dove David Lynch ha dato corpo alle sue allucinazioni in capolavori come “Inland Empire” o “Mullholland Drive”.

DSC7610

A questo punto della conversazione, chiedo ad Antonio, un’entusiasta, fluviale e sempre piacevole conversatore, qualcosa di più sulla realizzazione pratica di Rosario. In tutto l’album ci sono composizioni scritte, suonate e registrate nell’ultimo anno solare. Le registrazioni sono state fatte tra Los Angeles, Richmond e Lido di Dante. Durante le session americane abbiamo avuto l’opportunità di avere in studio vecchi amici e musicisti con cui forse mai avrei sognato di poter suonare. Ad esempio, Diego, il nostro batterista, era in procinto di diventare papà, e non potè chiaramente seguirci negli Stati Uniti. Ci saremmo così potuti trovare negli studi di Woody Jackson, a Richmond, ad aver bisogno di un batterista; John Convertino, una volta saputolo, si offrì subito di raggiungerci, in cambio solo del biglietto aereo, e Woody ci fece avere in studio nientemeno che Jim Keltner, senza dubbio un mio eroe, uno che ha suonato in moltissimi dischi che semplicemente adoro! Alla fine di batteristi ne avemmo tre, visto che venne con noi anche il “nostro” Enrico Mao Bocchini. Stessa cosa per Stephen McCarthy, un musicista che non avremmo mai potuto permetterci ma che, quasi miracolosamente, un giorno si presentò in studio armato di banjo e lapsteel. Il disco si apre con una canzone cantata da Isobel Campbell. Al contrario di quello che si potrebbe pensare, è stata lei a contattare noi. Ci eravamo conosciuti in Italia, in occasione di un suo tour, ed eravamo rimasti in contatto, con l’idea di fare forse qualcosa assieme in futuro. Non so come, ha saputo che eravamo a Los Angeles e così ci siamo sentiti. “Silver Dollar”, una delle due canzoni che canta nel disco, era nata come pezzo strumentale, ma fin troppo chiaramente si adattava a diventare una canzone nello stile di Lee Hazelwood con Nancy Sinatra. Ecco, alla fine, Isobel è stata la nostra fantastica Nancy Sinatra. Il disco ha tre bonus tracks in coda, non poi così slegate dal resto dell’album, suonate tra l’altro da una band stellare, con dentro, tra gli altri, Marc Ribot e David Hidalgo alle chitarre. Come mai non sono considerate parte integrante dell’album? Quelle tre tracce, fanno parte di una session isolata ed un po’ più vecchia. Tra l’altro i pezzi sono stati mixati da JD Foster ed hanno un sound più spigoloso rispetto agli altri. Mi rendo ben conto però che, non sapendolo, risaltano magari di più gli elementi unificanti che non quelli che li rendono sezione a parte rispetto al resto. L’idea era di farne un EP, però poi l’etichetta ha insistito parecchio perché venissero messi in coda al nuovo disco. Alla fine abbiamo ceduto e li abbiamo accontentati.  Tornando per un momento a parlare delle nuove sfumature presenti in Rosario, faccio notare ad Antonio quanto io consideri fondamentale l’apporto alle nuove canzoni di un multistrumentista (piano, hammond, clarinetto, tastiere varie, sax, chitarra) quale Christian Ravaglioli. Senz’altro! Christian, che in minima parte stava già sul primo album, è un musicista di grande talento. Forse, nella band, è quello col background musicale più dissimile al nostro, è quello con la formazione più classica. Proprio per questo, però, è in grado di suonare magistralmente e con gran fantasia qualsiasi tipo di partitura gli dia in mano, mettendoci pure la sua grande professionalità. Come dicevamo all’inizio, Gramentieri e i Sacri Cuori, in questi anni, si sono messi al servizio anche di numerosi altri musicisti, sia italiani che stranieri. La curiosità di sapere quale sia il loro apporto in questi dischi, sposta la conversazione in questa nuova direzione. La prendo un po’ alla lontana per far capire bene come stanno le cose. Una volta lessi un’illuminante intervista a T Bone Burnett, in cui gli si chiedeva circa i suoi metodi produttivi. Ebbene, rispose che una volta scelti i musicisti, il lavoro era sostanzialmente fatto. Nel mio piccolo, non è che mi voglio paragonare a Burnett,  questa è la mia stessa idea. In tutti i dischi in cui abbiamo suonato, mai lo abbiamo fatto con l’approccio dei sessionmen. Hugo Race, con cui il legame è ormai fortissimo, ci ha cercato per il lato oscuro del nostro sound, per il versante più impressionistico e meno tradizionale. Dan Stuart, che ancora oggi considero un songwriter eccezionale e che coi Green On Red è stato uno dei musicisti più importanti per la mia formazione musicale, al contrario, credo ci abbia voluto con sé perché suonassimo nella maniera più classica di cui siamo capaci. Negli ultimi due dischi di Dan, ho curato completamente io arrangiamenti e produzione. Lui è uno che arriva in studio con le canzoni e la chitarra acustica e lascia agli altri il resto. La mia idea dei Sacri Cuori, al di fuori dei nostri dischi, è quella di una sorta di “house band” capace di mettersi al servizio di musicisti differenti, adattandosi, ma pure portando del proprio ai dischi degli stessi. I lettori di una rivista come il Busca mi capiranno se cito, a mò d’esempio, una band quale Booker T & The Mg’s, presente in una miriade di dischi e con un curriculum tale da essere quasi ineguagliato. E non sono i soli, chiaramente; molti dischi degli anni sessanta erano contrassegnati da un manipolo di musicisti che, parallelalmente alle loro carriere, contribuivano alla realizzazione di un suono, lavorando magari in tutti i dischi di una data etichetta. Per continuare nella risposta alla tua domanda, per altri versi è stato interessantissimo anche andare in tour, come musicisti aggiunti, coi Pan Del Diavolo, una band giovane, con un pubblico completamente diverso da quello a cui siamo abituati, che magari neppure ha mai sentito nominare quelli che sono i miei eroi musicali, ma che ha dentro di sé quel qualcosa, magari in maniera inconscia, che porta avanti un discorso con radici lontane. Una gran bella esperienza. Queste ultime parole, imprimono un’ulteriore sterzata alla conversazione: s’inizia a parlare della sovrabbondanza di offerta musicale a fronte di un pubblico che si restringe sempre più, dei problemi (rispetto a soli dieci anni fa), nel trovare luoghi dove suonare dal vivo, del conservatorismo di un settore che predilige il cancro reazionario delle cover bands alla pluralità (politica) portata dai gruppi che suonano le proprie cose, al fatto che oggi, qualsiasi sia la musica suonata, anche le bands italiane devono confrontarsi su di un palcoscenico internazionale e non più puntare al proprio orticello, magari suonando come la miglior blues band dell’area di Modena, al fatto che i vari pubblici dovrebbero cercare di uscire dalle loro ormai asfittiche nicchie. Traspare una certa disillusione dalle sue parole, ma una disilluzione comunque costruttiva; è un musicista lucido Antonio Gramentieri, uno che ha delle cose da dire e che le dice con convinzione e con cognizione di causa. Per concludere gli chiedo se è venuta meno la sua attività di organizzatore di concerti (Non voleva essere una verà attività. All’inizio “Strade Blu” era nato con la volonta di far suonare dei musicisti amici miei, che poi col tempo si è ingrandita ben oltre quelle che erano le nostre aspettative. Oggi io continuo a scegliere il cast, lasciando ad altri gli oneri organizzativi.) e quali siano le sue prossime mosse (Stiamo per partire in tour con Hugo Race in Est Europa, dove abbiamo un fitto calendario di date per un mese. Al termine di esso, credo inizieremo a portare in giro il nuovo album dei Sacri Cuori.). In attesa che passino dalle vostri parti, voi intanto iniziate a far la conoscenza di Rosario e degli altri dischi in cui sono presenti– recensioni qui attorno – tutti album sicuramente da non perdere.

Lino Brunetti

 Sacri-Bikes-close-up

SACRI CUORI “Rosario”

SACRI CUORI

Rosario

Decor CD – Interbang LP/Audioglobe

523844_392322414163756_910505489_n

Il primo album dei romagnoli Sacri Cuori, registrato nei Wavelab Studios di Tucson, Arizona nel 2008, ed uscito nella seconda metà del 2010, era stato uno di quei gioiellini a cui era davvero difficile resistere. Nella loro musica si mescolavano folk, blues, psichedelia, sonorità da soundtrack western ed un pizzico di astrattismo cinematico ed ambientale, tutti elementi fusi in un sound che da un lato evocava le traiettorie sperimentate dai primi Calexico o da una band quale Friends Of Dean Martinez (per non dire di certe cose Giant Sand, con Howe Gelb fattivamente coinvolto nella realizzazione dell’album) e dall’altro evidenziava già una personalità marcata, oggi più che mai evidente nel nuovo lavoro. Come ben sintetizza, nell’intervista pubblicata qui sul blog, Antonio Gramentieri, deus ex machina della formazione – oggi assestatasi a sestetto, con Gramentieri accompagnato da Diego Sapignoli (batteria e percussioni), Francesco Giampaoli (basso e contrabbasso), Christian Ravaglioli (tastiere varie e fiati), Denis Valentini (tuba, flugelhorn) e Enrico Mao Bocchini (batteria e percussioni) – il nuovo album segna uno scarto rispetto al passato, passando dalla ricerca impressionista sul suono del primo album, ad una maggiore concretezza melodica e strumentale, dai confini però sempre meno definiti, anche e soprattutto geograficamente parlando. Non è più possibile, non solo almeno, inserire la musica dei Sacri Cuori in un ipotetico scenario da colonna sonora western; il riappropriarsi delle suggestioni derivate dalla riscoperta dei più grandi compositori italiani di colonne sonore, l’allargamento a suoni provenienti dai più disparati ambiti (il surf ed il rock strumentale dei sixties, la torch song, qualche passaggio di gusto circense), fanno si che la loro sia oggi musica dalle caratteristiche sempre più imprevedibili. Il disco si apre con una stupenda ballata, Silver Dollar, riccamente arrangiata, dove alla voce appare una diafana ed ammalliante Isobel Campbell, e dove figurano musicisti quali Stephen McCarthy, JD Foster, Woody Jackson, per un pezzo che porta alla memoria le splendide canzoni fatte da Lee Hazelwood con Nancy Sinatra. E’ l’inizio di un viaggio che oltre ai soliti scenari desertici e da Sud Ovest americano (la bellissima Fortuna, gli ampi spazi evocati da Garrett, West e Where We Left, i colori accesi di Sundown, Rosa, una El Gone magistrale ed atmosferica), prevede fermate tra le volte di una soundtrack seventies (ma non western) dettata dall’organo di Ravaglioli e dai vocalizzi di Eloisa Atti (Quattro Passi), tra le avvolgenti spire di una Out Of Grace graziata da un languido sassofono, nel rimbalzante e circense svolgersi della felliniana Sipario!. Come dicevamo, a volte si fanno più presenti speziature sixties, vedi brani frizzanti e briosi come Teresita, El Conte, la divertente Lee-Show, quest’ultima parente di certe cose dei Guano Padano, altre volte i toni si fanno più intimi ed evocativi (Garrett, East, ancora con la Campbell, l’affascinante e languido tango Lido), altre volte diventano semplicemente una cosa a sé (la stranita Non Tornerò). Non dovesse bastarvi tutto ciò, in un disco che già vede la presenza di musicisti come Jim Keltner e John Convertino, al termine del programma ci sono tre bonus tracks, provenienti da una session con Marc Ribot e David Hidalgo e mixata da JD Foster: due versioni alternative di Teresita e Lido, più un bizzarro blues, Steamer, che potrebbe capitarvi d’incontrare in un film di David Lynch. Bellissimo disco!

Lino Brunetti

TESORI DISSEPOLTI: A. A. V. V. “You Can Never Go Fast Enough”

A.A.V.V.
You Can Never Go Fast Enough
Plain Recordings
“Uno spaccato dell’America come terra di nessuno […] il road movie [come] agghiacciante metafora di solitudine e di vuoto esistenziale”. Così Paolo Mereghetti, nel suo Dizionario dei Film, sintetizza il senso di Strada A Doppia Corsia (Two-Lane Blacktop), film del 1971 diretto dal grande Monte Hellman e con protagonisti Warren Oates e, i certo a voi ben noti, James Taylor Dennis Wilson. Il film narrava le gesta di due spiantati californiani girovaganti sulle strade d’ America e perennemente coinvolti in gare clandestine, impegnati appunto in una di queste con il pilota di una Ferrari GTO; posta in palio, la macchina stessa. Presto però, perderanno tutti interesse per la gara e ciascuno di loro – che nel film non hanno neanche nome – riprenderà la propria strada. A metà 2003, a due anni di distanza dall’analoga operazione I Am A Phographer, la Plain Recordings di San Francisco mise in piedi un album tributo per un film, Two-Lane Blacktop per l’appunto (dove il disco precedente lo era per Blow Up di Antonioni). Ne venne fuori un altro oggetto, per certi versi inedito o comunque difficilmente classificabile. Le musiche contenute nel CD, per la maggior parte mai pubblicate prima, furono composte dai musicisti in base alle sensazioni provocate dal film e concepite non come puro commento per le immagini, ma più come trasposizione musicale delle immagini stesse, come una sorta di doppio transfert – dall’immagine al suono e di nuovo all’immagine – e di feedback emotivo. In I Am A Photographer tutto ciò prendeva la forma di un disco quasi schizofrenico dove gli accostamenti musicali avevano del radicale, passando dal free-jazz all’elettronica, dall’avanguardia al rock, e nello stesso tempo però, riuscendo a mantenere un’unità notevole che gli impediva di sembrare una compilation raffazzonata (ovviamente anche perchè la qualità delle musiche era comunque alta). You Can Never Go Fast Enough si palesò invece come decisamente più coeso, andandosi a cristallizzare intorno ad un suono da frontiera Americana e proponendo, come ora vedremo, un cast stellare. Ad aprire le danze con uno splendido strumentale di gusto bluegrass (Little Maggie), una delle tre assolute leggende del disco, Sandy Bull. Le altre due sono Roscoe Holcomb, presente con Boat’s Up The River Leadbelly con StewballDon’t Cry Driver è un lungo pezzo country-rock, in larga parte recitato, nato dalla collaborazione tra Will Oldham e Alan Licht. Alvarius B (nome dietro il quale si cela Alan Bishop dei mitici Sun City Girls) è alle prese con un evocativo bozzetto acustico mentre i Calexico riescono, come solo a loro riesce, a catapultarci nell’immensa solitudine del deserto del South-West (No Doze, una versione strumentale del pezzo omonimo, cantato, contenuto nel loro Feast Of Wire). Un arpeggio di chitarra, delle percussioni spazzolate, un filo d’organo e il tocco di un piano su cui Jeff Tweedy canta con dolce indolenza: è la bella Old Maid dei Wilco. La Lazy Waters di Steffen Basho-Junghans è invece un’ariosa melodia faheyana che precede l’unico pezzo a mio parere un po’ fuori posto all’interno dell’album, ossia la What The Girl Didn’t Say messa assieme da Mark Eitzel Marc Capelle. Non che sia necessariamente un brutto pezzo, ma chiusa tra Basho-Junghans e Holcomb, quest’elettronica ambient-rumorista stride non poco. La Parallels dei Suntanama parte come un pezzo post-rock acustico, per poi lasciare spazio a delle aperture dal feeling agreste (post country?). I Giant Sand sono presenti con Vanishing Point, allucinata border song da insolazione psichica, mentre i Charalambides evocano fantasmi notturni persi nella polvere rovente. Strepitosa la strumentale Loop Cat dei Sonic Youth: l’orizzonte infinito, un treno in lontananza e uno struggimento difficile da contenere, l’infinitezza che si ripercuote in un futuro senza uscita, tutto in 5 minuti e 37 secondi. La radicale, disossata e coraggiosissima rilettura di Satisfaction ad opera di Cat Power la conosciamo tutti. Precede la cavalcata elettrica ad opera di Roy Montgomery, che pone sugello a questo bellissimo, intenso disco. Oggi, You Can Never Go Fast Enough, si trova ancora, magari con un pizzico di sbattimento, in qualche negozio che ne ha conservato qualche copia o in rete, dove è possibile downloadarlo o acquistarlo a prezzi decisamente contenuti (partite da qui, ad esempio). Il disco, l’avrete capito, un recupero se lo merita alla grande.

Lino Brunetti