FAST ANIMALS AND SLOW KIDS
Hybris
Woodworm/Audioglobe
L’esordio dei perugini FAST ANIMALS AND SLOW KIDS, Cavalli, uscito nel 2011, ci aveva positivamente colpito per la sua irregimentabile energia, per la ricerca di una via originale ad un indie-rock/post-punk cantato in italiano, per una serie di testi pervasi d’ironia e caratterizzati da una visione laterale sulle cose. Cresciuti sotto l’ala protettiva degli Zen Circus (Cavalli usciva per la loro Ice For Everyone ed era prodotto da Appino) e vicini a Il Teatro Degli Orrori (per cui hanno aperto diversi concerti e con Giulio Ragno Favero impegnato a mettere su nastro i loro pezzi all’esordio), oggi, Aimone, Alessandro, Alessio e Jacopo, si scrollano di dosso la presenza degli ingombranti padri e tornano con un nuovo album che è un evidente testimonianza di crescita. Accasatisi presso la Woodworm e trovato in Andrea Marmorini un valido supporto quale co-produttore, con Hybris i Fast Animals And Slow Kids hanno dato vita ad un disco sentito e personale, piuttosto diverso, nell’insieme, da quello che lo aveva preceduto. In qualche modo, esplicativi a segnare il passo e ad introdurre i contenuti a seguire, i primi secondi con cui si apre l’iniziale Un Pasto Al Giorno, col violino di Nicola Manzan a tratteggiare un motivo malinconico, pronto poi a sfociare in un turbinio intenso di chitarre, raddoppiate inoltre dai tromboni di Simon Chiappelli e dalla tromba di Nicola Cellai, sulle quali si staglia urlante e viscerale la voce di Aimone. Si muove su un doppio binario questa nuova fatica dei perugini: da un lato incupiscono le atmosfere, senz’altro figlie di questi tempi buissimi, rispolverando tra l’altro una certa epica emocore, attenuando l’amara svagatezza di certe pagine dal passato, pur senza rinunciare alla potenza di fuoco, dall’altro eliminano certe spigolature presenti in Cavalli in favore di un suono più pieno, rifinito, curato nei più piccoli particolari. Tutto ciò si tramuta in un sound decisamente più adulto, in cui i testi si amalgamano con efficacia ai magistrali riff di chitarra e dove si assiste a cavalcate corali che, in qualche caso, non vi parga strano, paiono sconfinare in territori che ricordano persino gli Arcade Fire (un’esempio, la bella Calce). Come ricorda lo stesso Aimone Romizi, questo è un disco che parla di morte, di violenza, di solitudine, di ricordi, di fratellanza, di sogni incompiuti. E’ un disco con un sorriso a trentaquattro denti, due spezzati. Senza dubbio, è un disco da sentire.
Lino Brunetti