Deciso passo in Avanti per la band sarda che al terzo album assesta il colpo decisivo per rinsaldare le proprie ambizioni. Tutti I Colori Del Buio è un album di ottime canzoni, registrato superbamente nonostante l’autoproduzione e aiutato dal lavoro al mixing di Magnus Lindberg (Cult Of Luna) che ha un tocco metallic superiore, rendendo le tracce decisamente scintillanti (a me ha ricordato il suono dei System Of A Down). Un po’ di tribolati cambi di formazione non hanno indebolito il gruppo e già dall’apertura potente di Golden Gate Bridge si capisce subito che i cinque ci sanno fare, perchè l’assalto potente punk/grunge è impressionante ed hanno anche la sfacciata presunzione, in mezzo a tutto questo casino, di piazzare li in mezzo un chorus estremamente musicale. Calendule è tesa e cupa, si espande su fragorosi riff, vira su liquidi tocchi psichedelici e termina con urla belluine. Una sezione ritmica pulsante ed instancabile caratterizza l’aggrovigliamento chitarristico dello strumentale Alito Del Doposole. Come L’aurora è una bugia, presente nel precedente Samsara, anche qui la parte central è caratterizzata da una sorta di mini suite in tre parti (distinte): Nel Giorno pt1 bilancia cattiverie con dolcezze, Nel Giorno pt2 è nervosa, tesa e tirata, Nel Giorno pt3 è più dilatata, musicale e melodica, ma sempre pesante anche quando I ritmi rallentano. Tempo e Cambiamento è in linea con cose alla Deftones, Asbesto ha tempi spezzati in un contest più tradizionale ma poi si infila in un baratro di distorsione e sporcizia, in Anomia Mortifera e Non Pensi prevalgono le chitarre acustiche, Voci è il finale elettronico un po’ fuori contesto. Disco intenso e di notevole impatto: ascoltatelo!
I Light Bearer meritano più di una recensione. Mi scuso in anticipo per la lunghezza ma il gruppo merita di essere spiegato e merita di essere conosciuto, quindi partiamo da lontano e dai Fall Of Efrafa, cult band ormai defunta, nei quali militava Alex, personaggio poliedrico, scrittore, illustratore (sue sono le copertine della band) e non ultimo cantante. Gran gruppo dalle cui ceneri si genera una nuova entità, fatta però di sei distinti elementi che portano il proprio personale background all’interno della band. Quindi, ci tiene a ribadire il frontman, “Non è la mia band, non siamo la continuazione dei Fall Of Efrafa, siamo un gruppo amalgamato a tutti gli effetti, con altre cinque persone che stanno arricchendo e sviluppando la mia idea iniziale, vale a dire Matteo (chitarra, pianoforte, voce), Gerfried (basso, voce), Jamie (chitarra), Lee (soundscapes, voce), Joseph (batteria)”. Il concept che stà alla base del gruppo nasce dalla penna di Alex, che ha creato e sviluppato una storia in quattro atti, che saranno i prossimi dischi del gruppo: Lapsus, pubblicato due anni fa, Silver Tongue, uscito ora e poi i successivi Magisterium e Lattermost Sword. E’ già tutto pronto a livello di tematiche e di liriche, la musica intanto si adegua e si evolve, lasciando pian piano che si riveli ai nostri occhi una delle migliori realtà del post metal, in attesa di ulteriori sbandamenti. La storia parte da Lucifero (per tutti l’incarnazione del male, per loro la metafora della ricerca della conoscenza e della verità) e poi procede con Eva per andare in seguito a toccare il libro della Genesi, alla creazione della chiesa e soprattutto dell’oppressione religiosa, il tutto condito da citazioni e riferimenti ai lavori di Philip Pullman, al Paradiso Perduto di John Milton, alla Divina Commedia di Dante e alla mitologia persiana. Le tesi alla base del plot sono a mio giudizio affascinanti e da me condivisibili: perché ci sono più chiese che scuole? Perché chi è vessato dal potere invoca la misericordia di un Dio al posto di ribellarsi? Perché la scienza è ancora messa alla berlina in determinati ambienti affidandosi a dottrine che non hanno un benchè minimo contatto con la realta? I Light Bearer cercano di attaccare la religione sulla terra, ritenendola responsabile di molti misfatti, della rovina dell’umanità, cercando di rompere il dominio di una ideologia basata sull’odio, sulla paura e sulla superstizione. A tutto questo aggiungono di conseguenza tutte le relative vessazioni che queste ideologie hanno instillato nelle menti dei popoli: la demonizzazione delle donne e la loro riduzione a essere inferiore, il teismo assoluto, il razzismo, l’omofobia e si scagliano di conseguenza contro ogni forma di specismo. Senza se, senza ma. Ideologie che dovrebbero essere ormai abortite da secoli e che invece permangono forti nelle società di potere. Il riflesso di tutta questa ideologia sui loro album è evidente, i Light Bearer non scrivono semplici canzoni ma film musicali con una storia all’interno, preziose gemme di limpida musicalità che si frammentano in tragici movimenti di deprimente bellezza, superbe costruzioni armoniche destrutturate e polverizzate da tremendi assalti frontali. Già Lapsus aveva uno spessore notevole, ma Silver Tongue va incredibilmente oltre, polverizzando la bellezza del predecessore. A tutto questo devo aggiungere una nota puramente personale: lo scorso anno a Milano, davanti a non più di 30 persone, il gruppo ha sfornato un’esibizione impeccabile, come se di fronte ne avesse tremila, come se spazio e tempo non avessero nessuna logica, imperversando sul palco minuscolo del LO-FI come una grande band: le persone presenti saranno state anche poche ma sono state completamente convertite al loro volere e la missione del Portatore di Luce si potrebbe benissimo definire un succeso. Beautiful Is The Burden parte con archi che imperversano su sporcizia sonica di sottofondo e che si infrangono sul consueto muro di sludge melodico, epico, catartico. Una voce stupenda che nel growl riesce a dare un‘incredibile impronta musicale, ben supportata da chitarre che non si limitano ad un didascalico lavoro di costruzione e supporto bensì si danno duramente da fare, colpendo ai fianchi, infilando durissimi colpi alla figura che nella metafora della boxe lasciano completamente stremati. Sono passati diciassette minuti e mezzo e non me ne sono neanche accorto. Amalgam: atmosferico e tetro inizio, lampi, tuoni, chitarra acustica ed eruzioni che puntualmente si manifestano. Ritmi lenti e cadenzati, potentissimi, inframmezzati da sospensioni glaciali che non lasciano spazio alla speranza, letteralmente spazzata via dalla progressione finale. Matriarch è lenta, oscura, melmosa. Alex abbandona il growl e la voce si trasforma in tranquilla, limpida e melodica, la struttura compositiva è particolare, tempi sospesi che creano una sorta di mantra cupo che lascia intravvedere squarci dei Tool più lisergichi. Clarus è un intermezzo che ci introduce al meglio del disco che, incredibile davvero, deve ancora arrivare. I due pezzi finali sono la summa della loro musica, entrambi lunghi ed articolati, uno quasi dolce, l’altro ferocissimo. Una ritmica serrata e violenta introduce Agressor & Usurper, con quella voce che vomita violenza, melodie rarefatte e quasi assenti. Qui imperversano solo potenza pura, aggressione e usurpazione e anche gli archi che compaiono nel mezzo sono cupi e sinistri preludendo alla devastazione finale fatta di un crescendo ritmico e metallico da paura. Stremati da questo tour de force lungo diciassete minuti non possiamo prendere respiro perché incominciano i venti della title track. Un introduzione molto delicata, ma con inaspettate ed interessanti aperture meno compresse, quasi “gioiose” che vengono progressivamente sporcate dalle scorie della paura e della tensione nuda e cruda. Tensione che che raggiunge il climax e si manifesta dopo sette minuti e spiattella riff macinatutto ipercompressi, posizionando su differenti livelli liricità a profusione nella stupenda parte centrale che si libra alta su melodie affascinanti e strepitosi crescendo chitarristici degni di un gruppo post rock triturato da volumi indicibili. Poi la voce si fa normale e torna ad essere dolcissima su un tappeto di violino solitario, con gli echi post rock che si manifestano maggiormente, ma Alex ritorna ad essere cattivo, le chitarre riprendono corpo e si incendiano nuovamente. Un brano semplicemente fantastico, assolutamente il migliore che io abbia ascoltato quest’anno. Un concentrato supremo di Godspeed You! Black Emperor, Neurosis, sludge e hardcore. Il loro pregio è quello di non stancare, nonostante la lunghezza media dei brani elevata, non risultano essere prolissi nemmeno per un attimo. Ovvio che una certa dose di staticità è insita in questo tipo di proposta musicale, ma la voglia di renderla scorrevole e fruibile fa dei Light Bearer uno dei pesi massimi del genere. Affrontate con pazienza l’ascolto di questo disco, non è semplice, non è immediato, ma vi ripagherà alla grande del tempo che gli avrete dedicato.
Io mi aspetto che prima o poi i Kvelertak facciano il botto. Alcune avvisaglie ci sono già, il fatto di firmare per la Roadrunner significherà pur qualcosa, e ti aspetti che nell’album i cambiamenti siano evidenti. Poi però scopri che il produttore, Kurt Ballou (Converge) è sempre lo stesso e anche l’affascinante copertina è sempre disegnata dal John (Baroness) Baizley, che i testi non sono in inglese ma ancora in lingua originale e che la musica… ti esplode dentro con una deflagrazione impressionante. Questo non è un disco major, probabilmente (anche se non glielo auguro) saranno scaricati l’anno prossimo, ma intanto mi godo questo secondo lavoro che è sì diverso dal loro debutto ma che ha al suo interno una carica energica in grado di polverizzare una buona quantità dei loro nuovi compagni di etichetta. L’intro pauroso e metallico di Apenbaring è foriero dell’apocalisse che a breve si scatenerà dagli amplificatori, cosa che puntualmente accade dopo 110 secondi e i restanti 80 sembrano durare un’eternità tanto sono intensi. Snilepisk è un’assalto brutale e senza prigionieri nei territori dell’hardcore, con un assolo di chitarra quasi trattenuto in sottofondo. Poi lasciano cadere qua e là bombe violentissime (Trepan, Manelyst) che si dipanano su territori ultra hardcore ma lasciando spazio ad un liricismo di chiara ispirazione maideniana, con le chitarre (tre) che giocano a rincorrersi nei fulminanti assoli. Bruane Brenn è il primo singolo, un’esplosione metal intransigente, un ritornello da pogo nudo e crudo che scatenerà tonnellate di sudore sottopalco: messa in apertura di concerto renderà subito bollente la temperatura, messa in chiusura invece ucciderà i superstiti. Gli svedesi hanno la commistione dei generi alla base della loro proposta sonora. La voce è hardcore, le chitarre sono metal, la ritmica è hard rock, tre chitarre che creano uno strepitoso muro sonoro e sigillano a chiusura stagna ogni centimetro di musica, non lasciando aperto nessuno spiraglio. Prendete ad esempio Necrokosmos un mid tempo (!!??) che mescola post qualcosa, accelerazioni thrash, spruzzi di puro sludge vomitato senza ritegno, decelerazioni hard rock, assoli, cambi di ritmo e di melodia, incubi morriconiani su ritmi vorticosi e finale tribale: sei minuti e mezzo di pura follia. Poi possono tranquillamente omaggiare i Judas Priest e il metallo puro rivisitandoli a modo loro nella lunga e monolitica coda strumentale di Undertro così come immergersi nell’epico hard rock era Physical Graffiti nel caso ai tempi i Led Zeppelin avessero deciso di suonare l’hardcore che ancora non c’era. Spring Fra Livet è intensissima nelle sue parti veloci e riesce anche ad abbassare il volume di scontro prima di colpirti nuovamente. Kvelertak, il loro main theme? Melodia da AC/DC compressa e sputata da una betoniera, non si può fare a meno di alzare le braccia e fare le corna, un brano da stadio pieno di gente con voglia di fare a testate. Non paghi di tutto ciò hanno anche il coraggio di sfornare i quasi nove minuti di Tordenbrak, che è l’estasi finale, il compendio, il loro bignamino. Agguantate gli Iron Maiden di Phantom Of The Opera e violentateli, assumete un gruppo sludge qualsiasi per massacrare i Thin Lizzy, assoldate mercenari hardcore per far fuori gli AC/DC di Thunderstruck, sarete giunti al termine e potrete goderverli da dietro le sbarre. In questo momento, per questa proposta musicale, la band di Stavanger è semplicemente irraggiungibile.
I Kadavar (nome completamente sbagliato, che evoca trucidi combo di black metal e invece…) sono Berlinesi e sono tre tipi che sembrano sopraggiungere da epoche lontane, in un miscuglio non troppo sofisticato di metal tedesco della prima ora, tanto blues, tanto hard rock e una sana propensione a costruire semplici ma intriganti brani musicali che hanno nella forza e nella potenza, più che nella psichedelia, la loro forza maggiore. Sarà per questo che la Nuclear Blast li ha voluti tra le proprie fila, continuando un percorso di diversificazione che stà dando buoni frutti, inserendo accanto ai gruppi più metal in senso stretto anche altre derive decisamente più psichedeliche e “fumose”. In questo secondo disco i Kadavar non scoprono di certo l’acqua calda ma ci danno dentro a testa bassa senza troppi arzigogoli, andando dritti al sodo (tipico di queste band teutoniche) posizionando riff brutali in stile doom (Black Snake), conditi da decisi assalti della chitarra solista, che imperversa in ogni brano con tremende scorribande. I brani spaziano (ma non troppo) tra la tradizione metallica tipicamente europea e in effetti Doomsday Machine ci riporta per esempio alla prima era del metal, verso quegli Accept ancora acerbi di Restless and Wild, Come Back To Life è invece un trascinante hard in tipico stile seventies, Dust per contro sono i Black Sabbath più metallici, Fire rimanda a quanto fatto dai Pentagram, un brano incalzante e sostenuto da quei riff epici e marziali che tante volte abbiamo ascoltato. La precisione ferrea nella quale si muove il trio è la loro dote maggiore, tutto sembra fatto nella maniera migliore e nulla è lasciato al caso, con la chitarra scrocchiante vecchia maniera e la batteria che senza strafare si infila in un vorticoso accompagnamento. Le sorprese migliori arrivano comunque nella parte finale del disco, che si abbandona su livelli più psichedelici con il metronomico riff Hawkwindiano di Liquid Dream, e le spinte psichedeliche ricche di fuzz e riverberi di Rythm For Endless Minds che trascinanano le proprie spire nel sixtie sound liquido e debordante di Abra Kadabra. Non dei fuoriclasse assoluti ma degni alfieri di un sound che stà prepotentemente imponendo la propria capacità di coinvolgere nuovamente orecchie, come le mie, abituate da trent’anni ad ascoltare, senza stancarsi, la solita formula: ma attenzione, se questa è la qualità del risultato, assolutamente non c’è alcuna ragione per andare a scovare difetti, ma ce ne è a sufficienza per esaltarne i pregi.
Potremmo stare qui a disquisire per ore sull’utilità di un disco del genere nell’anno 2013, esattamente quarantadue anni dopo l’uscita del proprio disco di riferimento, quello che in maniera indiscutibile è praticamente copiato nei suoni, nelle tematiche e nelle atmosfere dal gruppo americano, giunto alla realizzazione del secondo lavoro con questo The Mouths Of Madness. Ma sinceramente non ho nessuna voglia di invischiarmi nel vicolo cieco della guerra tra innovazione vs tradizione, prendo la musica per quello che è e vado ad ascoltare. Immaginatevi dunque di essere nel luglio del 1971 quando quattro loschi figuri inglesi a nome Black Sabbath pubblicarono il loro terzo album, Master Of Reality, un indiscusso caposaldo della musica heavy. Ora provate ad immaginarvene la reincarnazione, non quella di una reunion opinabile (spero fino a prova contraria), bensì una reincarnazione vera e propria, con quattro loschi figuri (questa volta americani di San Francisco) che suonano esattamente come i loro illustri predecessori e probabilmente loro idoli. Non a caso, proprio in quell’album un breve e struggente strumentale era intitolato Orchid e i conti tornano quindi alla perfezione, tanto più che la band non fa nulla per nascondersi, giocando a carte scoperte. Amate i Black Sabbath? Questo disco vi piacerà, senza se e senza ma, per il semplice fatto che le canzoni sono belle, la registrazione è discretamente vintage, anche se le chitarre hanno un sound più metallico, ma l’armonica che ad esempio imperversa in Marching Dog Of War è una di quelle piccole finezze che fanno grande un disco. Come già detto non stiamo qui a cercare cose nuove ma solo a provare emozioni per suoni che musicalmente ci fanno sobbalzare da tempo immemore e che ancora oggi, se ben calibrati, danno ancora brividi sulla schiena (il doom propedeutico di Silent One con quei tipici deragliamenti free negli assoli e le campane a rintocco mortuario). Nomad insegue il riff di Killing Yourself To Live, Mountains Of Steel è praticamente uguale ad A National Acrobat, con addirittura quel piano sinistro che fece di Sabbra Cadabra un autentico capolavoro,ma ad essere sinceri in ogni brano del disco ci potrebbe essere un riferimento ai maestri, così come lo era stato ad esempio per i grandissimi Witchfinder General, quindi lasciamo perdere l’elenco e affidiamoci solo alla proposta attuale che pur essendo quindi pesamente vincolata non risente in alcun modo di stanchezza compositiva o di noia del già sentito. Il merito indiscutibile del gruppo è quello di saper scrivere belle canzoni, che si lasciano piacevolmente ascoltare, a volte dure (la bellissima Wizard Of War), a volte lente (Loving Hand Of God), a volte dall’ampio respiro melodico e più psichedelico (Leaving It All Behind) brani che non stancano e che chiudendo gli occhi, con un po’ di immaginazione, riportano con gusto le lancette degli anni un bel po’ indietro. Innovatori e allergici alla polvere statene alla larga, nostalgici e amanti di quei suoni fatevi avanti che c’è pane per i vostri denti.
Il loro omonimo esordio due anni fa mi aveva impressionato ed ora i parigini se ne ritornano con un EP in attessa del nuovo album previsto per la primavera. Una buona mezz’oretta di antipasto che non fa che confermare le ottime qualità del gruppo. Negli undici minuti abbondanti dell’iniziale The Revenge Of The Feathered Pheasant ci sono tutti i punti fermi del gruppo, a partire da un basso tremebondo che imperversa in profondità, lisergici innesti chitarristici con abbondanti sconfinamenti in territori psichedelici estremi, là dove volano alti The Warlock e Wooden Shijps tanto per citare un paio di gruppi che possono benissimo fare da riferimento. Momenti semi krauti innestati su una base che sta a metà strada tra Live at Pompei e la title track del primo album del Sabba Nero. I Blaak sono orgogliosamente in bilico tra una pesantezza stoner e una lisergica psichedelia, con un leggero vantaggio per quest’ultima a dire il vero, anche perchè la preponderanza strumentale della loro musica è notevole, pur non disdegnando anche parti cantate. In questo contesto, una canzone come Helios potrebbe benissimo inserirsi sia in una colonna sonora di un film di David Lynch come in quella di uno di Rob Zombie, tanto per interderci, sfiorando a più riprese il contatto con la musica dei Naam. The Storm/We Are The Fucking Storm porta sinistre nubi cariche di pioggia, Fusil Contra Fusil è cantata in spagnolo ed è maggiormente classica, dal sapore epico di una psichedelia antica. Non avevo sbagliato e i BHS non mi hanno deluso, ora l’attesa per il nuovo disco si fa decisamente elettrica.
Più il tempo passa, più i dischi si accumulano, più si rafforza la mia idea: i Converge non sono una band hardcore tra le migliori, sono la band hardcore migliore. Sono quelli che dettano i tempi, gli umori, le sensazioni. Hanno una tecnica di esecuzione che ormai rasenta la perfezione, hanno una tecnica compositiva che ha pochi eguali, ma soprattutto hanno carisma da vendere e una sicurezza nei propri mezzi disarmante. Dal vivo sono devastanti, Jacob Bannon è ormai un’icona, piaccia o meno, e i dischi fin qui messi in fila non hanno (quasi) mai mostrato segni di cedimento. Furiosi, incalzanti, riflessivi e a volte rallentati, addirittura acustici in alcuni passaggi, e potrebbe sembrare un’eresia: non per loro perché anche in quei frangenti sono sempre e comunque hardcore al 100%. Poi si potrebbe disquisire sul fatto che da Jane Doe (2001), il loro indubbio vertice compositivo, la band si sia adagiata su una comoda posizione di preminenza e che le uscite successive nulla abbiano aggiunto. Può essere, ma poco importa, fintanto che la qualità delle “repliche” è tale da soddisfare il mio palato (e quello dei loro numerosi estimatori). A me invece pare che, anche se in maniera subdola e ben mascherata, i Converge stiano inserendo elementi contrastanti nella loro musica, aggiungendo sfumature che potrebbero portarli anche da qualche parte diversa dall’hardcore intransigente ed ultratecnico. Basterebbe a questo proposito andare ad ascoltarsi la parte conclusiva del disco, a partire da una strepitosa Coral Blue nella quale si sente un respiro melodico inaspettato, la velocità si riduce e Bannon sembra provare un nuovo modo di modulare la sua voce, notizia che già di per sé è notevole, costruendo una canzone che potrebbe spostare i loro assi compositivi nel futuro. Precipice è un breve strumentale sinfonico con addirittura il pianoforte che precede la title track: tapping chitarristici che fuggono verso il metal, molto melodica nella sua costruzione convulsa, grandi accelerazioni, voce sofferta e quasi in sottofondo, finale di impressionante potenza, anche questo un brano che da la sensazione di un cambiamento in atto. Shame In The Way fila verso il metal, durissimo, spurio, quasi trash e Predatory Glow si allinea a coordinate semi industriali dalla ritmica pazzesca chiudendo l’album. Precedentemente, tanto per ribadire al mondo il proprio violentissimo approccio alla musica, avevano infilato Aimless Arrow e Veins And Veils, devastanti, molto tecniche e dalle chitarre fratturate. Trespasses e Sparrows Fall più tradizionalmente conducibili al loro classico sound, Tender Abuse un assalto impressionante e pesantissimo senza alcuna pausa. Poi Empty On The Inside che viaggia su ritmi marziali, A Glacial Pace che rallenta i tempi (beh, si fa per dire) per poi accellerare su tecnicismi esasperanti. Praticamente sempre uguali, ma lucidamente in grado di dare nuove angolazioni al proprio sound, e pure qualche bella martellata a convenzioni ormai acquisite, vedi la voce di Bannon, mixata bassissima e che si modella sulle melodie come mai prima. Rimane comunque pazzesca la loro capacità di rendere credibili e soprattutto comprensibili composizioni con così tanto “suono” dentro senza peccare in confusione, ripulendo tutto il possibile pur rimanendo sempre e comunque estremi. A dispetto di chi li ha ormai bollati come “sempre la solita roba” e di chi afferma che l’ultimo Axe To Fall sia stato il loro disco peggiore (condivisibile, ma sempre un gran bel sentire) io mi sento di donare ai Converge lo status di immortali, All We Love We Leave Behind è una bomba a picco sul mio cranio e me lo tengo stretto.
A volte le aspettative per un concerto non sono quelle giuste. Capita di avere una voglia matta di andarsi ad ascoltare un gruppo e se ne esce delusi. Poi ci sono quelle serate in cui ti chiedi: “vado o non vado?”, non è che ne hai tanta voglia, e i motivi possono essere svariati, poi stai a casa e ti penti oppure decidi di passare una serata ad ascoltare musica. Fortunatamente ho deciso di muovere il culo verso il LO-FI per gustarmi i Fishbone e ne sono stato ampiamente ripagato. Non che ci fosse il pienone ma tant’è: io mi sono divertito, stupito e entusiasmato. Inizio un po’ difficoltoso con qualche problema agli ampli e il tecnico del suono decisamente nervoso, poi tutto si è risolto nel migliore dei modi e i sette si sono immessi sulla loro autostrada fatta di funky, swing, ska, rocksteady, heavy metal, hardcore per lasciarla un’ora e quaranta minuti dopo. Dalla formazione originale i superstiti sono solo un’allampanato John Norwood Fisher al basso ed un devastante Angelo Moore, voce, terhemin e sax di ogni tipo. Un’alchimia perfetta ed una macchina sonora impressionante, sia quando tirano fuori quei funky melmosi con la chitarra che straborda sia quando si immettono su swing dai fiati impressionanti. Poi quà e là accelerano e si lasciano andare a furiose escursioni nel punk, senza tralasciare le spruzzate ska ed una latente ma sempre presente dose di rap. Angelo è un cabarettista prestato alla musica, tiene il palco alla grande, canta, soffia nel sax, balla, si dimena, incita il pubblico trovando anche il tempo per una passeggiata di saluto con baci e abbracci al gentil sesso. Una band che a dispetto del lungo periodo di silenzio sembra avere ancora la forza per andare avanti, l’ultimo Crazy Glue ne è una dignitosa dimostrazione, ma non è sulle tracce fisiche che i Fishbone danno il meglio di sé: dal vivo è tutta un’altra storia, particolari, potentissimi, divertenti, ancora in pista e ne sono contento. Pensare che ho rischiato di rimanere attaccato al divano di casa. Mi sarei perso un pezzo di storia.
Un’immagine live alla Slipknot, frutto delle maschere create da Sergio Stivaletti, collaboratore degli effetti speciale per Dario Argento, una produzione cristallina ed affilata alla perfezione, una sequela di riff pesantissimi presi a prestito dai Rammstein, una sezione ritmica da dancefloor estremo, una ridda di effetti sonori e sintetizzatori, due voci, maschile e femminile, che si sovrappongono uno all’altra, l’italiano usato come lingua principale ma con l’inglese sempre presente. Questi sono i Surgery, da Roma, al loro terzo disco. Una musica dalla glaciale precisione chirurgica, un incubo industriale con ritmiche che strizzano l’occhio al dubstep, infarcite di robuste iniezioni noise. Le loro sono canzone che procedono marziali su binari infiniti (Fino All’ultimo Respiro) piacevoli anche se alla lunga una inevitabile sensazione di monotonia mi attanaglia. Su tutte, ma non prendetela come una critica, la cover dei Berlin The Metro, che ha un tiro micidiale. Non sono un fan accanito di questo genere ma bisogna riconoscere la riuscita di un buon lavoro.
Di base a Roma ma etnicamente mista, questa band ha dalla propria una grande capacità di scrivere ottime canzoni. I suoni degli Sleeping Empire sono perfetti, misurati, mai sguaiati e sempre controllati. Ogni chitarra, ogni tocco di pianoforte, ogni arrangiamento è perfettamente incastonato nel quadro generale e questo rende l’album perfettamente godibile, anche perché le loro melodie sono notevoli. Fin qui le note positive ma arrivano anche quelle negative, che poi alla fine sono le stesse. Infatti il contraltare è un’eccessiva pulizia, l’assenza di picchi e voragini, in questo disco c’è solo pianura, bellissima ma si sa, stancante. Le melodie vicino a certo prog moderno (Porcupine Tree) portano Fill Me e Take Him Away ad avere un evocativo ritornello, un rock di facile presa, anche se tutt’altro che banale. Ignorant Girl è intensa e drammatica con il pianoforte in evidenza, Pitiful World è una particolare composizione che mescola percussioni, voce sofferta e musica che va quasi a contaminarsi con il rap. Sanno anche essere energici, come dei System Of A Down depotenziati (Choice & Consequence) ma love song sdolcinate e dichiaratamente pop quali Sleep e Susanna (quest’ultima veramente bella, niente da dire) fanno intendere che gli Sleeping Empire ancora non sanno a che pubblico rivolgersi. Potrebbe essere un vantaggio abbracciare entrambe le sponde, quella più dura e quella più morbida, ma potrebbe anche rivelarsi un’arma a doppio taglio.