Sarà stata forse l’onda lunga degli effetti dell’isolamento da pandemia che ha consentito agli artisti di riflettere sul proprio ruolo come ha fatto Nick Cave e di mantenersi creativi come hanno fatto i Native Harrow o magari l’euforia suscitata dalla sensazione di essere finalmente usciti dalla catastrofe, ma musicalmente parlando il 2022 ha tutta l’aria di essere stata quella che i vinicoltori definirebbero un’annata eccezionale data la quantità e la qualità dei dischi pubblicati nel corso dei 12 mesi appena trascorsi.

Al contrario di quanto successo altri anni, non c’è magari un album in grado di mettere d’accordo tutti, perché ad esempio la rivista Uncut ha scelto A Light For Attracting Attention del progetto legato ai Radiohead The Smile, l’antagonista Mojo ha invece optato per il pop colto di Michael Head, il sito Pitchfork si inchina alle mode con Renaissance di Beyonce, dalle nostre parti, Buscadero preferisce andare sul sicuro con il live di Tom Petty e perfino un’opera su cui in verità mi sarei sentito di puntare come Dragon New Warm Mountain I Believe In You dei Big Thief, un lavoro in un certo senso definitivo che mette a fuoco le varie sfumature della musica di uno dei gruppi più celebrati degli ultimi tempi, è spesso finito lontano dalle vette delle classifiche.
Orientarsi tra le pubblicazioni e operare una scelta è impresa ardua quanto aleatoria e forse è più facile indicare dei debutti che hanno avuto un certo impatto: il primo fra questi è a mio giudizio l’esordio omonimo dei Caroline, un giovane ensemble inglese che sulla scia di gruppi come Black Midi o Black Country, New Road intreccia post rock, avanguardia, effluvi ambient, sfumature jazz, polveri folk e chitarre post punk in maniera creativa e del tutto originale. Non si può trascurare inoltre I Walk With You A Way del progetto Plains di Katie Crutchfield e Jess Williamson che senza inventare nulla, dà una bella rinfrescata al country classico di gente come Willie Nelson, Emmylou Harris o Kris Kristofferson con una immediatezza e una passione davvero al di fuori del comune.

Non è un vero e proprio esordio ma è comunque sensazionale come se lo fosse, The Real Work degli australiani Party Dozen, un duo furioso e out of our heads che mescola selvaggio rock’n’roll e fumoso jazz con una ferocia che fa venire in mente i Grinderman di Nick Cave che non a caso, canta in un brano. Si citavano poco sopra i Black Country, New Road e il loro secondo album Ants From Up There è una delle uscite che avrei visto bene in cima a qualsiasi classifica, ma forse la struttura complessa delle canzoni e il sovraccarico delle emozioni in esse contenuto, lo rende un lavoro poco immediato, benché pervaso di straordinaria meraviglia.
Non sono un gruppo nuovo anzi piuttosto navigato, The Delines, che mio malgrado ho scoperto e apprezzato solo dopo l’incantevole concerto tenuto al Buscadero Day la scorsa estate: conoscevo i Richmond Fontaine di cui adoro Post To Wire e ho letto praticamente tutti i romanzi tradotti in Italia di Willy Vlautin, di cui le canzoni dello splendido The Sea Drift costituiscono una deliziosa trasposizione in musica, sospese tra atmosfere jazz, calore soul e frammenti del Grande Sogno Americano. Sono giovani ma non di primo pelo artisticamente parlando, anche i Native Harrow, americani di stanza in Inghilterra, che con il nuovo Old Kind Of Magic celebrano la stagione psichedelica degli anni ’60 e l’immaginario del Laurel Canyon con un luminoso folk rock dalle sfumature lisergiche che suona fresco e affascinante come raramente capita di ascoltarne.

Sono immersi nel passato anche le canzoni di The Wilderness Of Mirror dei texani Black Angels che cavalcano l’onda dei 13th Floor Eleveator con un disco che suona come un capolavoro perduto della stagione psichedelica. Sempre all’altezza delle aspettative anche i Calexico, perché El Mirador appare davvero ispirato e pieno di belle canzoni, pur senza nulla aggiungere a quanto fatto in passato. Nemmeno la cantautrice americana Joan Shelley esce prepotentemente dall’ordinario, ma il suo The Spur è pura magia con una serie di ballate meravigliose sospese tra tradizione popolare e canzone d’autore che evocano il fascino dell’America più periferica e romantica con un grado di ispirazione simile a quello che riempie Weather Alive della bravissima Beth Orton, un disco intimo e dall’aura spirituale con sonorità sospese tra jazz e folk come fosse un classico di Joni Mitchell.
I loro concerti sono sconvolgenti, ma anche in studio il trio The Comet Is Coming del sassofonista Shabaka Hutchings fa scalpore, perché Hyper-Dimensional Expansion Beam è una bomba di suono che mette insieme le visioni spaziali di Sun Ra e i ritmi della club culture inglese in maniera geniale e rimanendo in ambito jazz, non si possono trascurare le uscite dell’etichetta di Chicago International Anthem, che da qualche tempo pubblica alcune delle cose più interessanti del settore, come Forfolks del chitarrista Jeff Parker, un disco per sola chitarra che fluttua liberamente tra Thelonious Monk e Frank Ocean, e Gold del britannico Alabaster De Plume, vero e proprio talento che combina poesia, impegno e contaminazioni avanguardistiche.
Kahil El’ Zabar è un veterano della scena jazz americana che ha suonato un po’ con tutti i grandi e se non l’avessi visto in concerto a Novara pochi mesi fa (ero andato principalmente per vedere Jeff Parker, previsto nella stessa serata), è probabile che avrei continuato a ignorarne l’esistenza, ma le straordinarie due ore e mezza di performance mi hanno fatto scoprire il nuovo e bellissimo A Time For Healing, un lavoro in cui spiritual jazz, musica black e influenze afro danno vita a una miscela assolutamente esaltante di suoni e emozioni.

Per quanto riguarda i concerti visti lo scorso anno, i momenti indimenticabili sono probabilmente quelli vissuti nel corso degli spettacoli di Dry Cleaning, dal vivo una vera e propria rivelazione e il gruppo più eccitante che mi sia capitato di vedere negli ultimi tempi, e di Dream Syndicate, sempre bravi e professionali nel mettere insieme un rock’n’roll show sanguigno, autentico e furioso come quello di una band di esordienti.
Nel periodo post-covid, ho frequentato davvero poco le sale cinematografiche e se ben ricordo, nel 2022, l’unica volta è stata in occasione della proiezione di This Much I Know To Be True di Andrew Dominik, una pellicola su Nick Cave che è in parte documentario, in parte film e in parte concerto, forse non proprio riuscita ma tutto sommato decisamente interessante. In alternativa alle sale mi sono un po’ arrangiato con Netflix, dove ho apprezzato Blonde scritto e diretto sempre da Dominik con colonna sonora di Nick Cave e Warren Ellis, biopicture romanzato e visionario della vita breve e sfortunata della diva Marilyn Monroe, e il documentario Un Eco Nel Canyon, incentrato sulla scena californiana degli anni ’60.

Se da un lato sono andato meno e in verità quasi per niente al cinema, il 2022 è stato un anno pieno di letture e tra quelle che ho gustato di più, segnalerei i romanzi di Colson Whitehead Il Ritmo Di Harlem, un appassionato giallo ambientato nella comunità nera degli anni ’60, e di Amor Towles Lincoln Highway, rocambolesca avventura on the road in bilico tra le malinconie di Stand By Me e la follia di Sulla Strada, il saggio di JR Moore Electric Wizards che contempla le varie sfaccettature della musica heavy, quello di Sarah Smarsh Una Forza Della Natura su un personaggio che senza leggere il libro avrei considerato rascurabile, come la star della musica country Dolly Parton, e infine il libro di Nick Cave e Sean O’Hagan Fede, Speranza e Carneficina, straordinaria raccolta di conversazioni che elevano l’intervista a opera d’arte.
Ho ascoltato, letto e visto molto altro e probabilmente ho lasciato fuori qualcosa da questa selezione che avrebbe meritato più di quanto abbia inserito, ma al momento è con questi titoli che credo di poter ricordare il 2022.
Luca Salmini