JACKIE-O MOTHERFUCKER
Flags Of The Sacred Harp
Fire Records/Goodfellas
Per il loro nono album – non contando live e split – i Jackie-O Motherfucker andarono diretti alle più antiche radici del folk sudista americano, andandosi a riallacciare nientemeno che alla tradizione del Sacred Harp, famosissimo songbook di inni sacri e canti corali da eseguire a cappella, raccolti e pubblicati da Benjamin Franklin White e Elisha J. King nel 1844. Antenata del Gospel, la tradizione legata a questi canti è tutt’ora viva tra le comunità protestanti del Texas, della Florida, della Carolina, dell’Alabama e della Georgia, gli stati in cui nacque e prosperò. Il gruppo di Tom Greenwood (voce, chitarra e giradischi) – come al solito attorniato da molti e variabili musicisti, tra cui, in quest’occasione, si distinguevano per importanza vecchie conoscenze come Honey Owens (chitarra, voce e tastiere) e Nester Bucket (voce e fiati), nonché il chitarrista Adam Forkner – è stato da sempre vicino alle tradizioni più ancestrali della musica americana, fosse esso il folk, il blues, il country, il jazz, generi centrifugati e rimescolati in una musica unica, spesso per nulla facile ed anzi piuttosto ostica, specie per chi non abituato a frequentare molto i territori del rock più avanguardistico. Flags Of The Sacred Harp, che non diremmo certo un disco tradizionale o “pop”, si segnalo però all’epoca come il loro album maggiormente song oriented, il loro più “avvicinabile”, quello che in qualche modo diede il via ad opere più “malleabili” come i seguenti Valley Of Fire e Ballads Of The Revolution. Soprattutto, ed è ciò che più conta, era ed è un disco bellissimo, probabilmente il loro capolavoro. Come si diceva, questa non era la prima volta che i JOMF guardavano al passato remoto; già uno dei loro dischi più belli, “Fig.5”, per portare un esempio eclatante, conteneva la loro rilettura di due classici del gospel e del folk quali Amazing Grace e Go Down Old Hannah. Proprio quest’ultima si rifaceva quasi alla lettera allo stile delle Sacred Harp Songs, cosa che, parrebbe un paradosso ma non lo è, non avviene in questo album, dove quella tradizione viene ripescata più come attitudine, senso di spiritualità, purezza d’intenti, che non come “lettera” (anche se quattro pezzi su sette sono traditional). Rispetto agli altri dischi la novità più grossa – oltre alla presenza, per la prima volta, di un co-produttore, Mark Bell, in passato dietro alla consolle per gente come Radiohead, Depeche Mode, Bjork (non lasciatevi ingannare da questi nomi, qui il suono è distante anni luce da questi artisti) – stava nei bellissimi duetti tra Greenwood e la Owens, in magmatici pezzi di country-rock psichedelico ed espanso come l’iniziale, stupefacente Nice One o come in altre bellissime canzoni come Rockaway o Hey! Mr Sky. Un pezzo come Good Morning Kaptain sembra una sorta di blues antidiliviuno, ripetitivo, ipnotico, calato in una specie di ossessiva circolarità. Rimangono poi i pezzi più sperimentali, lunghi mantra psichedelici, allucinazioni mentali pinkfloydiane, trip acidi di carattere quasi metafisico; il crescendo mistico di Spirits, l’espansa visionarietà con cui vengono trattati due traditionals come Loud And Mighty o come The Louder Roared The Sea, attraversata da speziature elettroniche di sapore cinematico. Un grandissimo disco Flags Of The Sacred Harp, uscito sul finire del 2005 per ATP Recordings e che a metà luglio, la sempre più benemerita Fire Records, riporterà nei negozi con una fiammante ristampa (nessuna bonus track). Prenotate fin da ora la vostra copia!
Lino Brunetti