INDIGO SPARKE “Hysteria”

Indigo Sparke
Hysteria

Sacred Bones Records

Per farsi largo nel music business, un peso sul cuore (come canta in Pressure In My Chest) e una testa piena di canzoni (ce ne sono ben 14 nel suo secondo album Hysteria) possono anche bastare, ma per raggiungere il successo servono talento, fascino, carisma, trovarsi nel posto giusto al momento giusto, una casa discografica che ci creda, i musicisti all’altezza, un produttore capace di interpretare quello che gira nell’aria e soprattutto il fatidico colpo di fortuna, che al momento è l’unica cosa che manca alla giovane cantautrice Indigo Sparke.

Trovare la propria strada non è stato del tutto semplice, perché a Sydney in Australia dove è nata, Indigo Sparke ha cominciato recitando come attrice, ma le sono bastati un paio di EP per ritrovarsi in tour come supporto dei Big Thief, un’esperienza che le ha fatto capire quale fosse il suo posto, l’ha spinta a trasferirsi a New York (quale luogo migliore per chi nutre sogni di rock’n’roll?) e l’ha portata al contratto con la statunitense Sacred Bones Records, che lo scorso anno ha pubblicato il debutto Echo, prodotto da Adrianne Lenker e Andrew Sarlo, e che oggi le da fiducia stampando il nuovo Hysteria, realizzato grazie ai contributi di Aaron Dessner dei The National in veste di produttore e musicista.

Non c’é dubbio che la fanciulla sia dotata di un certo buon gusto per quanto riguarda i produttori e anche la scelta dei musicisti lascia presagire che abbia le idee piuttosto chiare, dato che ad accompagnarla in Hysteria ci sono il chitarrista straordinario Shahzad Ismaily (basta ascoltare uno degli ultimi album di Sam Amidon per intuire le ragioni dell’aggettivo) e il batterista Matt Barrick (dei The Walkmen e Muzz), che scontornano le canzoni con tenui sfumature acustiche o incisivi movimenti elettrici assecondando l’alternanza di luci e ombre che riempie i testi.

A giudicare dalle tematiche delle canzoni che secondo la cartella stampa trattano di “...amore, perdita, la sua storia e il disordine emotivo che circonda quelle sensazioni…”, Indigo Sparke si direbbe una folksinger tutta intimismo e intensità e del resto è più o meno l’impressione che suscitano ballate in punta di dita come la romantica Pluto, i sospiri seducenti di confidenze elettroacustiche come l’incantevole Real, il cosmico folk della lirica titletrack o la malinconia di serenate dall’aura country come la splendida Sad Is Love, ma come ha dichiarato Aaron Dessner fin dalla prima volta che ha ascoltato questi brani, “…c’è già così tanto qui dentro…” che è difficile trovare punti di riferimento, se non quando i graffi della chitarra in orbita lo-fi di Blue evocano magari da lontano i malumori della prima PJ Harvey o quando la vaga fragranza pop di Pressure In My Chest e il tenore elettrico di God Is A Woman’s Name fanno venire in mente l’ispirazione di cantautrici come Angel Olsen o The Weather Station.

Impossibile non essere abbastanza d’accordo con Dessner, quando ragionando su Hysteria lo descrive come “…coeso, senza tempo e ispirato in un modo che so che continuerò a riascoltare…”, perché è difficile pensarla altrimenti quando partono l’urgenza emotiva e la livida ruvidezza indie di Hold On, l’ariosa spinta folk rock di Set Your Fire On Me, il circuitare elettroacustico di una meravigliosa Infinity Honey, la mestizia folkie di Why Do You Lie?, lo sferragliare alternative di Golden Ribbons o la sensualità di ballate da plenilunio come Time Gets Eaten.

Forse a breve Indigo Sparke diventerà la nuova voce di una generazione al pari delle artiste citate sopra o magari tirerà a campare come tante altre in attesa che qualcosa succeda, anche se a giudicare dalla bellezza di Hysteria si direbbe stia accadendo proprio qui e ora.

Luca Salmini

SKULLCRUSHER “Quiet The Room”

Skullcrusher
Quiet The Room

Secretly Canadian Records

Difficile credere che nel pieno dei vent’anni, già ci si possa ritrovare a rimuginare sul passato piuttosto che fantasticare sul futuro, ma forse succede quando si hanno delle canzoni da scrivere come la giovane cantautrice Helen Ballentine in arte Skullcrusher, che negli ultimi tempi non ha fatto altro che mettere insieme le memorie e le sensazioni della propria infanzia “...attraverso un’ondata di emozioni: rabbia, tristezza, pietà, confusione, il tutto cercando una sorta di compassione e ho provato a catturare le contraddizioni che compongono il mio passato per definire chi sono ora…”.

In realtà, non è la prima volta che Helen Ballentine mostra un comportamento piuttosto precoce rispetto alla media, dato che all’età di soli 5 anni comincia a suonare il piano e ha da poco concluso l’università, quando di punto in bianco abbandona la stabilità di un lavoro presso una galleria d’arte per dedicarsi alla musica a tempo pieno: le prime canzoni arrivano nel 2019 e nei due anni successivi escono un paio di EP e altrettanti singoli, inclusa una Song For Nick Drake, che lascia intendere quale sia il verso della sua musica.

In generale, la si direbbe una folksinger sensibile e introspettiva, ma, più che raccontare delle storie, il songwriting di Skullcrusher sembra mettere insieme i pezzi, che si tratti di frammenti di emozioni, di sentimenti inespressi, di lampi d’immaginazione, di solitarie note di pianoforte, di arpeggi di chitarra, del rollio di un banjo, d’interferenze d’elettronica o di campionamenti. “…È come strati di carta velina, come se qualcuno provasse a fare un disegno e si riuscisse a intravedere l’intero processo…” dichiara l’autrice riguardo il suo metodo compositivo e deve essere con questo sistema che ha realizzato il debutto Quiet The Room con l’aiuto del multistrumentista Noah Weinman e del produttore Andrew Sarlo presso il Chicken Shack studio, non lontano dai luoghi della sua infanzia che riaffiorano nelle canzoni.

Sospeso tra i momenti più effimeri dei Big Thief e le atmosfere di un disco come For Emma, Forever Ago dei Bon Iver, Quiet The Room è un lavoro basico e dal tono confessionale, fatto dei sussurri di rarefatte ballate d’ispirazione folk dai tratti malinconici e a volte addirittura spettrali, che il giornalista Marc Beaumont del The Guardian descrive come “…inni alt-folk splendidamente diafani infestati dagli evanescenti fantasmi di piano e chitarre acustiche affogati molti anni fa in una laguna del Laurel Canyon…”.

Dal senso di malinconia che lo pervade, si direbbe che Quiet The Room nasca da un qualche dolore che tormenta l’animo sensibile dell’autrice e che la musicalità dolce e i parchi arrangiamenti delle canzoni abbiano fondamentalmente una funzione catartica e consolatoria trasformando l’ansia in quiete e la realtà in sogno o almeno è l’impressione che suscitano tenui acquerelli lo-fi come They Quiet The Room e la pianistica e struggente Window Somewhere, ariosi folk come Whatever Fits Togheter, disturbanti registrazioni sul campo come Whistle Of The Dead, minimali ballate dagli sfondi ambientali come la fantasmatica Lullaby In February, effimere nenie acustiche come Pass Through Me e l’onirica It’s Like A Secret, bucolici interludi strumentali come Outside, Playing o serenate shoegaze come la sulfurea Sticker.

In un primo momento il carattere tanto personale e in un certo senso privato delle canzoni di Skullcrusher potrebbe quasi mettere a disagio, ma una volta entrati nel mood, Quiet The Room è un disco che svela piccole meraviglie a ogni ascolto. 

Luca Salmini

ABISSI “Oltre”

ABISSI
OLTRE
AUTOPRODOTTO

Nonostante il grunge sia ormai un ricordo (inteso come scena, musicale, sociale, di attitudine) i semi buttati in quel fenomenale ed intenso movimento ancora sbocciano nel panoroma mondiale. Nonostante un comunicato stampa che cita stoner, punk, psichedelia e noise a me pare che gli Abissi siano maggiormente inquadrabili nel filone grunge.

Il richiamo agli Alice In Chains (il gruppo di quel genere più spostato verso il metal e l’oscurità) è evidente ma qui ci ho trovato lo spirito di una band minore, poco conosciuta, i Gruntruck. Canzoni quadrate, ottime melodie, potenza e aggressività a livelli alti, un metodo compositivo che scansiona la musica in maniera chirurgica.

Ma questi sono dettagli da recensore, il cuore non guarda dove ci si posiziona e si lascia fluire dagli speakers il magmatico intro di Bilocazione, ci si fa investire dalla brutale Demoni, ci si immerge nella pesantezza oscura dalle derive doom di Unica Realtà e Il Mago di OX. Poi arriva la sorprendente Spazzati Via, una ballata ultraelettrica, stratificata e sognante, con chitarre che volano quasi su lidi shoegaze e un finale dirompente, personalmente il vertice dell’album. Grunge Buddha e Interzona chiudono l’album avvicinandosi maggiormente allo stoner e alla psichedelia acida.

Francesco Menghi (già voce e chitarra nei Veracrash), Luca Ibba (già batterista di OdE) e Agostino Marino (Voce e chitarra nei Little Pig), milanesi, hanno sfornato un gran bel debutto.

Daniele Ghiro

HOOVERIII “A Round Of Applause”

HOVERIII
A ROUND OF APPLAUSE
THE REVERBERATION APPRECIATION SOCIETY

Inizialmente gli Hoveriii (da leggersi Hoover 3) erano una creatura del solo Bert Hoover, il quale pubblicava la sua musica su cassetta o solo in digitale su Bandcamp, all’incirca a partire dagli inizi degli anni 10. L’esordio vero e proprio lo possiamo datare al 2018 con un album omonimo, mentre è dell’anno scorso Water For The Frogs, disco che lodavamo anche sulle pagine del Busca e nel quale Hoover abbandonava l’approccio autarchico, facendosi attorniare da altri musicisti.

Il momento della consacrazione per Bert e la sua band – che oggi conta su di lui a voce e chitarra, Gabe Flores a lead guitar e voce, Kaz Mirblouk a basso e synth, James Novick ai synth e Owen Barrett alla batteria – potrebbe però arrivare proprio ora col nuovo A Round Of Applause – titolo ispirato da Click Your Fingers Applauding The Play di Roky Erickson – disco che ha tutte le carte in regola per imporre la band losangelina fra quanti apprezzano la psichedelia di artisti quali Oh Sees, Ty Segall, King Gizzard And The Lizard Wizard e affini.

Come avviene nella musica delle formazioni citate, anche in quella degli Hooveriii si assiste a un miscuglio di nuovo e vecchio tritato, rimescolato e sputato fuori in un sound eccitante, elettrico e prepotentemente lisergico e chitarristico. A rendere le potenzialità di A Round Of Applause maggiori rispetto ai suoi predecessori è non solo la qualità media delle canzoni, ma anche la loro tendenza a non sbrodolare allungandosi a dismisura in jam infinite, prediligendo piuttosto un approccio che in qualche modo potremmo definire persino pop.

A rendere poi particolarmente succosa la proposta c’è il fatto che Bert è compagni vanno ad attingere da fonti parecchio diverse, inglobando nei loro pezzi non solo le pagine migliori della tradizione psichedelica californiana e texana, ma anche scampoli di prog canterburiano, pop glam degno di David Bowie, affondi rock’n’roll iper classici, una certa weirdness di marca Castle Face e le geometrie ritmiche del kraut rock, allestendo infine un sound  cosmico, spaziale, retrofuturista, visionario eppur potentissimo.

Vi basterà sentirvi un pezzo inguaribilmente bowiano e sognante come The Pearl per capire che gli Hoveriii sanno sia suonare che scrivere canzoni, ma diciamo che se a questa aggiungerete l’ascolto di una clamorosa See, dell’affilata e potente Out Of My Time, di una Water Lily dalle aperture space, di una groovata e incalzante Stone Men, della fenomenale Iguana (con inserti di sax), di una The Runner allucinatamente a là John Dwyer e di tutte le rimanenti, il godimento sarà senza dubbio maggiore. In attesa di poterli vedere dal vivo, consumiamo questo disco. Ovviamente in vinile colorato! 

Lino Brunetti

DANIEL ROSSEN “You Belong There”

DANIEL ROSSEN
YOU BELONG THERE
WARP

Con l’abbandono di Ed Droste, fuoriuscito dalla band per diventare un terapista, chissà se i Grizzly Bear andranno comunque avanti, dato che il musicista era uno dei due leader e songwriter della formazione. Scioglimenti non ne sono stati annunciati, ma con la band ferma dai tempi di Painted Ruins del 2017, qualche dubbio è lecito porserlo, tanto più che in questi giorni, l’altro frontman della formazione di Brooklyn, Daniel Rossen, si presenta nei negozi con il suo debutto da solista in lungo (c’era già stato un EP, risalente però a dieci anni fa).

Abbandonata da tempo l’originaria Brooklyn, ora Rossen vive a Santa Fe e, proprio nella sua casa nel bel mezzo del deserto del New Mexico, ha messo a punto, si può dire in solitaria, dato che solo in Tangle appare il compagno di band Chris Bear come ospite, le dieci canzoni di You Belong There. Disco tutt’altro che semplice e immediato che, nel suo riflettere sull’irrompere della maturità dopo gli anni selvaggi della giovinezza, anche dal punto di vista musicale mette in campo tutta l’esperienza e maturità, appunto, acquisita nel tempo dal suo autore.

Due cose colpiscono principalmente fin dal primo ascolto. Uno: la bravura di Rossen nel giostrare intricati e caleidoscopici arrangiamenti, tra l’altro eseguiti suonando praticamente tutti gli strumenti, ovvero chitarre, contrabbasso, violoncello, batteria e fiati vari. Due: il talento nel tratteggiare melodie e armonie vocali che non smarriscono un’anima pop, ma che in ben più complessi scenari s’adagiano.

Apre mettendo già in chiaro questi elementi la bella It’s A Passage, psych folk progressivo che scivola nella successiva Shadow In A Frame, non a caso scelta come primo singolo per via di una bella melodia sottolineata da una chitarra acustica, dagli archi, dal rullare di una sezione ritmica d’impronta jazz. La corale su un montare ritmico impro della titletrack forse avrebbe potuto essere sviluppata maggiormente, ma non c’è davvero il tempo per dispiacersene viste le volte intarsiate e pulsanti che abbelliscono una Unpeopled Space di gusto prog folk. E se Celia pare un minuetto medievaleggiante e Tangle un’avant folk che avrebbe potuto essere interpretato anche dal tardo Scott Walker, è a I’ll Wait For Your Visit che spetta il compito d’incarnare il capolavoro del disco, attraverso il suo incrociarsi di frasi melodiche, le sue pause e le sue ripartenze, l’affastellarsi di suono e ritmo.

Ancora ad alti livelli il terzetto che chiude il tutto, a partire da una Keeper And Kin che vi farà pensare alle cose avant folk degli Animal Collective, intrise però di fatalistica malinconia, passando per una radiohediana The Last One, per poi chiudere con grazia con Repeat The Pattern.

Come dicevamo, non sempre facile e immediato, You Belong There ripaga quel minimo di sforzo per penetrarlo con una musica di rara pregnanza e spessore. Soprattutto, non esaurisce il suo fascino in un battito di ciglia.

Lino Brunetti

THE MYSTERINES “Reeling”

THE MYSTERINES
REELING
FICTION

A prenderla alla leggera, è anche divertente leggere di tanto in tanto i soliti proclami circa “la morte o la rinascita del Rock” che, a intervalli regolari, si trovano in giro. Divertenti anche perché quasi sempre pretestuosi nelle loro tesi di fondo, per non parlare poi delle argomentazioni che vengono portate per supportarle. E così, dopo esserci sorbiti a lungo tutta la solfa riguardante la scomparsa della musica fatta con le chitarre, negli ultimi tempi ci è toccato invece imbatterci in roboanti trionfalismi circa il grande ritorno del Rock che, lungi dall’essere pronto per la sepoltura, vive e lotta assieme a noi grazie a grandissime band come Greta Van Fleet e addirittura i Måneskin, e pazienza se nessuna delle due succitate band abbia canzoni degne di questo nome nei loro trascurabilissimi dischi.

Banale pistolotto iniziale per dirvi che potrebbe capitarvi di leggere le minchiate di cui sopra anche riferite a questi The Mysterines, giovanissimo quartetto di Liverpool, già incensato da tutta la stampa inglese che conta, prima ancora che arrivassero all’esordio. Diciamolo chiaro: questi quattro ragazzetti non saranno i salvatori di una musica che forse non necessita di essere salvata, non s’inventano proprio nulla di nuovo e, probabilmente, non hanno altra ambizione che la legittima voglia di fare la loro cosa e divertirsi. E però, sicuramente rispetto ai due nomi citati sopra, bisogna riconoscere loro grande freschezza e la capacità di scrivere canzoni che rimangono in testa ed esaltano, il ché è poco meno che “tutto” se parliamo di rock’n’roll diretto e chitarristico.

Buona parte del merito è della cantante e chitarrista Lia Metcalfe, uno scricciolo di ragazza che però ha una voce che non passa inosservata, ben supportata dal resto della band composta dal bassista George Favager, dal chitarrista Callum Thompson e dal batterista Paul Crilly. Assieme hanno messo a punto questo Reeling, che è un esordio dove quasi ciascuno dei suoi tredici pezzi è un potenziale singolo killer.

Diciamo che siamo dalle parti del rock alternativo anni 90, ovvero grandi melodie pop, chitarre rumorose e grunge, atmosfere torbide e ritmi incalzanti quando serve. In più loro ci aggiungono belle infiltrazioni blues (Reeling, la sulfurea e gotica Under Your Skin), mescolando i Nirvana a PJ Harvey (Old Friends Die Hard) e giostrando al meglio la scaletta, tirando fuori un’acustica e una slide in On The Run, accelerando l’hard psych The Bad Things, profilandosi solo voce e chitarra in Still Call You Home o facendosi avvolgenti in Confession Song.

È chiaro che un ascoltatore scafato e di lungo corso potrebbe essere portato a snobbarli, scovando in dischi e artisti del passato tutto quanto si sente qui dentro, però credo sia un errore, un po’ perché non è questa musica da intellettualizzare e poi perché un pezzo come All These Things è uno di quegli inni che non si vede l’ora di poter cantare saltando e urlando a squarciagola in mezzo a migliaia di altre persone. Eleggete Reeling a colonna sonora della corsetta mattutina e le vostre prestazioni subito miglioreranno.

Lino Brunetti

ST VINCENT “Daddy’s Home”

ST VINCENT
DADDY’S HOME
LOMA VISTA

A volte, leggendo certe cose in rete, ho la sensazione che nei confronti di Annie Clark, meglio conosciuta come St Vincent, ci sia una forma di pregiudizio, quasi come se le lodi nei confronti dei suoi dischi o il rispetto tributatole da moltissimi musicisti (oltre che dal pubblico) fosse in qualche modo malriposto. Potrebbe essere il retaggio di una cultura maschilista, che poco sopporta l’esistenza di una musicista (donna) dalla personalità indubbiamente molto forte, di grande carisma e soprattutto dotata di idee chiare e di un talento tale da permetterle d’imporre la sua visione artistica più di molti uomini, sicuramente in campo musicale, ma non solo.

Scordatevi le atmosfere sintetiche e ultra pop del precedente (e comunque bellissimo) MASSEDUCTION. In Daddy’s Home, sesto album della sua discografia, non contando quello in tandem con David Byrne e le riletture proprio di MASSEDUCTION effettuate con MassEducation, il tutto vira verso atmosfere decisamente più vintage e seventies. I synth rimangono in prima linea solo nel funky rhythm & blues che apre il tutto, Pay Your Way In Pain, pezzo in cui tra l’altro Clark dà sfoggio delle sue doti vocali, ma nel resto del disco, anche se ci sono, vengono armonizzati in un sound organico e, come si diceva, tutt’altro che futurista, dove trionfano batteria acustica, basso, piano elettrico, degli archi qui e là, oltre che ovviamente la chitarra della titolare.

St Vincent ha raccontato che le canzoni del disco sono state scritte all’indomani della scarcerazione del padre, dentro dal 2010, non so per cosa, avvenimento che l’ha riportata agli album che il padre le faceva sentire da ragazzina, tutta roba uscita nella prima metà degli anni 70, cose come Steely Dan, Lou Reed, Stevie Wonder, Derek And The Dominos, Harry Nillson, War e Joni Mitchell, per citare solo alcuni degli artisti che Annie ha riunito in una playlist che ha postato su Spotify, nella quale paga il tributo alla musica che l’ha ispirata nella realizzazione di questo nuovo album.

Per certi versi, l’ascolto del disco vi farà pensare a un’operazione di mimesi postmoderna, portata tra l’altro oltre l’aspetto musicale, quindi anche per tutto ciò che riguarda l’artwork, le foto, i video e, statene certi, l’impianto teatrale dei futuri concerti (almeno a giudicare dalle sue recenti performance al Saturday Night Live). In parte è così, ma ovviamente il tutto si va poi a sovrapporre alla sua personalità e al suo songwriting, facilmente identificabili in ogni pezzo dell’album, il quale è forse solo un po’ meno party album sudato lascivo di quello che le premesse potevano far pensare, ma anzi è in molti frangenti venato di un velo di nostalgica malinconia.

L’attacco, come dicevamo, è all’insegna del funk, visto che dopo la citata Pay Your Way In Pain ci s’immerge tra le sinuose atmosfere venate di psichedelia di Down And Out Downtown e in quelle guardinghe e ficcanti della titletrack. Subito dopo è la volta di una lunga e ammalliante ballata, Live In The Dream, e di un pezzo soul pop con tanto di coriste (che ci sono in varie parti del disco) come The Melting Of The Sun. Il resto dell’album oscilla fra questi estremi, passando da una raffinata The Laughing Man dalla batteria effettata, alla ritmata e pulsante Down, da una ballata capace di delineare lo skyline di New York come Somebody Like Me (Lou Reed nelle vene, gli archi a spandere miele, la pedal steel di Greg Leisz ad aggiungere bellezza), fino a una My Baby Wants A Baby capace di tracciare una retta tra i girls group e il cantautorato pop dei seventies di Paul McCartney o di Harry Nillson.

Sul finire del disco, At The Holiday Party si lascia andare a un tripudio di percussioni, fiati R&B e chitarre acustiche, mentre Candy Darling sugella il tutto con una melodia pop intinta in chitarre col wah-wah. È un gran bell’ascolto Daddy’s Home, ma il sospetto forte è che queste canzoni daranno veramente il loro meglio quando arriveranno su un palco. Si spera presto!

Lino Brunetti

ABORYM “Hostile”

ABORYM
HOSTILE
Dead Seed Productions

Tornano con un nuovo album gli Aborym e lo fanno con un disco dal sound potente, superbamente prodotto, seguendo il solco ormai consistente della loro discografia (se non sbaglio questo è il loro ottavo disco) e senza stravolgere il proprio sound inseriscono nuove sfumature che rendono il lavoro molto appetibile

La formazione è consolidata ormai da qualche anno e vede il “capo“ di lungo corso Fabrizio Giannese (voce, programmazione, pianoforte, sintetizzatori) insieme a Riccardo Greco (basso, chitarre, programmazione), Gianluca Catalani (batteria, pads, elettronica), Tomas Aurizzi (chitarre). Formatisi a Taranto nel 1992, essenzialmente come progetto black metal, mostrava già però sin dalle prime uscite un’atteggiamento più inclusivo e che mano mano si è spostato decisamente verso la musica industriale, i cui geni già si intravedevano nell’album Dirty del 2013, poi ulteriormente evolutisi con il sorprendente Shifting.negative del 2017.

Con Hostile giungono alla definitiva elaborazione del proprio percorso, accasandosi in sound che vede come riferimento principale ed evidente i Nine Inch Nails dell’epoca Downward Spiral, ma senza fossilizzarsi su di una pedissequa riproposizione di quel sound, piuttosto partendo da lì e mettendoci idee proprie, includendo metal e sperimentazione, elettronica e progressive, in un monolite della durata di oltre un’ora.

Prendete per esempio un pezzo come Solve Et Coagula, sembra uscito direttamente da quegli oscuri club anni ’80 dove dark e metallari a volte se le suonavano di brutto, senza capire che le esigenze erano le stesse: scatenarsi su marziali riff ballabili e potenti, neri come la pece e poco inclini alla dolcezza. La sua nemesi potrebbe essere la finale Magical Smoke Screen che ha dentro di sé quella delicata dolcezza malata che il buon Trent ha saputo tradurre così bene in tutti questi anni e che gli Aborym riprendono con piena consapevolezza.

Nel mezzo ritroviamo ancora le accelerazioni brutali di una volta, riscritte con un linguaggio diverso (Nearly Incomplete) oppure l’omaggio evidente agli Alice In Chains e al grunge in Lava Bed Sahara. Comunque, senza andare a fare un noioso elenco di titoli, dovreste approcciare questo album nella sua interezza, perché tra le sue pieghe si possono scoprire percorsi musicali tra i più variegati, sintetizzati però sotto il comune denominatore che è la loro personale visione della musica, una piacevole conferma della vitalità di questa band.

Daniele Ghiro

JUANITA STEIN “Snapshot”

JUANITA STEIN
SNAPSHOT

Nude Records

La prima volta che le è capitato di cantare in uno studio di registrazione, l’australiana Juanita Stein era una bambina di appena 5 anni, ma le emozioni suscitate da quei timidi vocalizzi che addolcivano un’aspra ballata country del padre Peter, devono essergli rimaste in testa come una specie di fissazione, visto che da quel momento pare non abbia mai voluto fare altro: al principio con formazioni giovanili come i Waikiki, dal 2004 con il progetto Howling Bells, col quale otteniene un più che discreto successo e oggi con una brillante carriera solista, già al terzo capitolo con il nuovo Snapshot.

Crescendo sono stati i dischi dei Beatles, di Bob Marley, Nirvana, Juliana Hatfield, Bjork, Kate Bush e Jimi Hendrix a plasmare i suoi gusti musicali, ma il ricordo di quella prima esperienza, che ha in qualche modo determinato il futuro di Juanita Stein, deve essere riaffiorato spesso e in particolare nel corso della realizzazione di Snapshot, dato che a ispirarne le canzoni è stata la triste e improvvisa scomparsa del padre, un cantautore d’ingegno e di scarsa fama (almeno al di fuori del continente australiano) che per primo aveva intravisto del talento nell’amorevole figlioletta.

Stavolta a credere nelle sue capacità e nelle sue canzoni è il celebre produttore Ben Hillier, che ha registrato Snapshot nelle stanze del suo studio Agricultural Audio in Inghilterra, senza ricorrere agli artifici delle mega produzioni a cui è abituato (Blur, Elbow, Depeche Mode e Doves nel suo curriculum), ma provando a cogliere tutta la freschezza e l’immediatezza dell’affascinante combinazione di aeree melodie pop, nervosa urgenza rock, etereo country e sognante psichedelia generata da un quartetto composto da Juanita al canto e alla chitarra, dal fratello Joel Stein alla chitarra solista, da Jimi Wheelwright al basso e da Evan Jenkins alla batteria.

“…Non c’è un incantesimo che possa alleviare la sofferenza…” canta Juanita Stein nella titletrack, ma le canzoni di Snapshot sembrano esserci riuscite, perché non c’è una sola nota di dolore nella gioiosa vitalità che pervade ariosi folk rock come la solare Lucky, seducenti mosaici pop rock come Reckoning, acidi blues come L.O.F.T., affascinanti ballate lynchiane come quelle che interpretava Julee Cruise come 1, 2, 3, 4, 5, 6, ovattate parabole psichedeliche come The Mavericks o serenate country come In The End: solo un lieve senso di pensosa malinconia filtra nel folk cameristico di una personalissima Hey Mama.

È passato molto tempo dalla sua prima volta davanti a un microfono, oggi Juanita Stein ha una bella voce e ha imparato a usarla, gli argomenti non le mancano e la personalità nemmeno, ma quando canta le canzoni di Snapshot pare che l’entusiasmo e le emozioni siano proprio le stesse di allora.

Luca Salmini

SONGHOY BLUES “Optimisme”

SONGHOY BLUES
OPTIMISME

Transgressive Recordings/ Fat Possum

E’ difficile oggi considerare il rock’n’roll come una musica in qualche modo rivoluzionaria, salvo si stia parlando di una formazione pugnace come i Songhoy Blues, che ha combattuto a suon di chitarre le restrizioni sociali imposte dalle leggi dell’estremismo islamico in Mali e in generale sul territorio africano, spesso scontando in prima persona le pene dell’esilio e della persecuzione.

Di quell’espressione artistica che per assonanza geografica con i luoghi d’origine subsahariani, il mondo ormai conosce come “desert blues”, i Songhoy Blues rappresentano l’ultima generazione, la più contaminata, probabilmente la più occidentale in quanto ad ispirazione: sono cresciuti infatti osservando da lontano il successo del più eminente interprete del genere, il leggendario Ali Farka Touré, ascoltando i Beatles, Jimi Hendrix e John Lee Hooker e in un secondo tempo provando a intercettare tutto il r’n’b e l’hip hop che passava dalle parti di Timbuktu. Ci sono voluti l’interesse di Damon Albarn dei Blur e di Nick Zinner degli Yeah Yeah Yeahs insieme alle riprese del documentario They Will Have To Kill Us First, perché l’occidente si accorgesse di loro, ma da quel momento i Songhoy Blues non si sono più fermati, mettendo in fila tre dischi uno più bello dell’altro (Music In Exile del ’15, Résistance del ’17 e il nuovo Optimisme) e centinaia di concerti sui più prestigiosi palcoscenici dell’emisfero (dal festival di Glastombury alla Royal Albert Hall).

È sull’onda dell’entusiasmo per il successo fin qui ottenuto che i Songhoy Blues hanno cominciato le sessions di registrazione del loro nuovo album di studio Optimisme, inciso in uno studio di Brooklyn a New York con la produzione del chitarrista Matt Sweeney, che eleva ulteriormente il volume delle chitarre e il ritmo dei tamburi del quartetto che la cartella stampa già considera “…il futuro del rock’n’roll africano…”.

Le intenzioni di Sweeney sono di imprimere su nastro l’eccitazione e l’immediatezza degli spettacoli dal vivo e l’operazione pare essergli riuscita almeno a giudicare dalla ruvida furia punk-rock di Badala, in pratica quello che avrebbero suonato i Ramones se fossero nati nella lower east side di Bamako; dallo psichedelico riverberare di Assadja o dai bollori afro-funk di una incandescente Fey Fey.

Con un processo simile a quanto a suo tempo accadde al blues del Delta quando arrivò a Chicago, i Songhoy Blues elettrificano il tribalismo della musica maliana trasformandolo nell’esplosiva ed esotica miscela di rock, funk, soul e psichedelia che echeggia quando partono gli accordi circolari di una frenetica Gabi, i Led Zeppelin del terzo album smarriti tra le dune del Sahara di Korfo, i canti berberi in salsa funkedelica di Bon Bon, il blues all’acido lisergico di Worry o la dolce malinconia di una ballata corale in orbita gospel come Kouma.

Secondo Alex Chilton “…il rock’n’roll deve essere fuori controllo, è una cosa folle e deve farti andare fuori di testa…” ed è con lo stesso spirito che i Songhoy Blues devono aver interpretato la realizzazione di Optimisme, trasformando le tradizioni, i canti e la cultura della loro terra nel più eccitante prototipo di rock’n’roll che possa capitare di ascoltare.

Luca Salmini