SHANE DE LEON/FABRIZIO TESTA + MISS MASSIVE SNOWFLAKE “So Sweet”

SHANE DE LEON/FABRIZIO TESTA
Untitled
Autoprodotto

MISS MASSIVE SNOWFLAKE
So Sweet

North Pole-Wallace

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Il sempre impegnatissimo FABRIZIO TESTA, questo mese, lo troviamo in combutta con SHANE DE LEON dei Miss Massive Snowflake, in un singoletto contenente tre pezzi senza titolo nel quale il primo si occupa di chitarra acustica, clarinetto e field recordings, mentre il secondo scrive i testi e canta. Tre incantevoli canzoni acustiche che confermano la bravura come songwriter di De Leon ed il talento multiforme di Testa. Per saperne di più: testafabrizio.blogspot.fr A questo punto, cogliamo l’occasione per segnalarvi che, pochissimo tempo fa, gli stessi MISS MASSIVE SNOWFLAKE sono tornati nei negozi con un dischetto breve (sotto i 25 minuti) ma stipatissimo di canzoni pimpanti ed irresistibili. So Sweet vede il trio americano alle prese con otto canzoni (tra cui una cover di Turn Me On di Nina Simone) di cantautorato rock inventivo e dalla scrittura sempre sopraffina, ottimamente servito da trame strumentali avvolgenti ed opportunamente cangianti. È dai tempi dei mitici Rollerball – di cui per oltre un decennio ha fatto parte – che De Leon vive nei meandri della musica più di nicchia e laterale. Ed è un peccato vero perché, ve ne rendereste facilmente conto ascoltandole, innamorarsi delle sue canzoni è proprio questione di un attimo.

Lino Brunetti

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So Sweet

BOLOGNA VIOLENTA: BERVISMO E UNO BIANCA

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Nicola Manzan ha ormai un certo seguito nel panorama rock estremo italiano (e non solo). Ai dischi e alle attività di Bologna Violenta, la sua creatura della quale è unico artefice, si aggiungono collaborazioni varie come session man, come produttore e come “discografico” attraverso la sua etichetta Dischi Bervisti. Proprio per questo tralasciamo una dettagliata biografia e andiamo a chiedere qualche informazione supplementare, Nicola risponde sincero e disponibile, parlando anche del suo nuovo lavoro Uno Bianca, del quale trovate la recensione alla fine dell’intervista.

Da dove nasce la tua voglia di fare musica?

E’ iniziato tutto quand’ero bambino. Ho iniziato a suonare il pianoforte a cinque anni e verso gli otto anni ho iniziato lo studio del violino. Ho sempre amato la musica, mi affascinavano gli strumenti e già a quell’età facevo le classifiche a casa (col giradischi) imitando quelle della radio. I vinili di mio padre comprendevano musica classica e cose pop o cantautorali che mischiavo con molta naturalezza, creando delle mie personali playlist che non ammettevano distinzione di “genere”.

Sei diplomato in violino, presumo che ci sia bisogno di un’impronta classica per studiare questo strumento. Come sei finito a fare grindcore?

Come dicevo, ho iniziato da piccolo a suonare il violino e mi sono diplomato in conservatorio a fine anni 90. Amo la musica classica, è una parte fondamentale del mio background e dei miei ascolti. Però amo anche i generi più distruttivi, forse perché rappresentano l’opposto di quello per cui ho combattuto in anni di conservatorio: l’eleganza, il bel suono, il rigore interpretativo e tutte queste cose. Il grindcore è considerato l’anti-musica per eccellenza, e questo mi affascina molto. Raggiunta la maggiore età ho iniziato a suonare con i primi gruppi della zona, che hanno avuto un’impronta sempre abbastanza pesante, nelle sonorità, ma solo con BOLOGNA VIOLENTA ho deciso di estremizzare tutto e mettere in musica il mio lato più estremo.

I due aspetti (classico ed estremo) sono in antitesi o si possono coniugare? Sembra che tu riesca in scioltezza ad inserire elementi classici in contesti estremi. Qual’è il tuo approccio?

Il mio approccio è molto semplice: voglio fare musica che sia molto forte dal punto di vista emotivo. L’uso di tempi molto veloci nei pezzi genere ha già di per sè un forte impatto, ma negli anni sono riuscito ad utilizzare tipi di accordi e sequenze armoniche che riescono a sottolineare al meglio quello che voglio “dire”. Da notare che in genere sono proprio gli archi a creare le armonie, mentre la chitarra sta sotto a macinare ritmiche veloci e spezzate. Mi sembra il modo più naturale per mettere insieme le due cose, per quanto col mio ultimo disco ho fatto dei notevoli passi avanti, cercando di rendere gli archi più estremi e le chitarre più armoniche.

Sembri un tipo luciferino e sinistro, la tua musica è estrema e violenta, ma poi conoscendoti si ha la sensazione che tu sia un tipo tranquillo, c’è una sorta di Jekyll/Hyde nella separazione tra musica e privato?

Beh, c’è da dire che nel privato non sono sempre gentile e tranquillo, chi mi conosce bene lo sa… Sono testardo di natura, quindi se le cose non vanno come voglio io tendo ad essere molto pesante. Però credo anche che la mia musica abbia molti risvolti “positivi”, io la vivo come una specie di catarsi, un breve incubo che una volta finito ti fa stare meglio. Quindi non vedo il mio progetto come violento-e-basta, lo vedo molto provocatorio, più che altro, e questo mi rispecchia in pieno. La gentilezza e il rispetto per il prossimo dovrebbero essere alla base di tutte le relazioni tra gli esseri umani, la musica che si fa non dovrebbe c’entrare.

Una one man band ha dalla sua il vantaggio di essere a capo di tutto. Ti piacerebbe essere in una band con altri elementi o la tua dimensione solitaria è completamente appagante?

Le due esperienze sono molto diverse, devo dire. Mi piace essere a capo di tutto per quello che riguarda BV e spesso mi chiedo se vorrei altra gente a suonare sul palco con me (la risposta è spesso positiva, tra l’altro). A volte risulta pesante essere quasi ogni sera su un palco da solo a creare uno spettacolo che funzioni, in cui devo spingere sempre al massimo perché l’attenzione è tutta su di me. Mi piace molto suonare con altre persone (anche se negli ultimi due anni non è mai capitato), devi creare il feeling giusto, il “respiro comune”, è creare qualcosa di unico con altre persone, quindi la sento una cosa molto speciale (tanto speciale da tenermi alla larga da improvvisazioni modello: dai prendiamo due strumenti e vediamo cosa esce). Spero presto di ricominciare a suonare anche con una vera band, tutto sommato mi mancano i fischi alle orecchie post-concerto, quelli che nel silenzio ti fanno compagnia tutta la notte col suono dei piatti del batterista di turno…

Tra collaborazioni, registrazioni, produzioni sembra che la tua vita sia totalmente dedicata alla musica, è così?

E’ così. Ti dirò, se non mi ci dedico ogni giorno mi sento in colpa con me stesso. E’ una ossessione, più che altro…

Come sono nate le tue collaborazioni con Menace (progetto di Mitch Harris dei Napalm Death) e Justin K. Broadrick (Jesu)? Qual’è il tuo contributo in questi progetti?

Ho conosciuto Mitch quando ho suonato per la prima volta di supporto ai Napalm Death. Ha visto che avevo il violino sul palco e mi ha chiesto se registravo e arrangiavo gli archi, perché aveva questo progetto in ballo con Brann Dailor (Mastodon) e Max Cavalera (Soulfly), ma all’epoca c’erano solo dei provini. Dopo un intenso scambio di mail, pezzi e idee durato quasi due anni, siamo arrivati al punto che il cd esce a Marzo per Season Of Mist e sarà distribuito in tutto il mondo. Io mi sono occupato della parte “orchestrale” della cosa, registrando gli archi su gran parte dei pezzi, in più ho fatto alcune parti di synth e fiati, oltre al basso del primo singolo. Nel disco, prodotto da Russ Russell (Napalm Death, Evile) hanno suonato Shane Embury (Napalm Death), Derek Roddy (Hate Eternal, Nile) e Fred Leclerq (Dragonforce). Justin l’ho incontrato a Bologna suonando di supporto ai Godflesh. Anche in questo caso, ha visto il violino e mi ha chiesto di registrare gli archi veri su un pezzo dell’ultimo album di Jesu. Anche in questo caso, un’esperienza molto bella per me, soprattutto dal punto di vista umano (e qui si torna alla domanda sull’essere gentili e fare musica estrema…).

Una domanda che faccio a tutti: riesci a vivere di musica oppure fai anche altro? Gestisci tutto da solo anche per quanto riguarda la parte amministrativa e organizzativa?

Diciamo che riesco a “sopravvivere”. Ho impostato tutta la mia vita sulla musica, fin da bambino, e a parte qualche periodo in cui ho fatto anche altro, in genere sono sempre riuscito a non morire di fame. Devi pensare che oltre a BV faccio anche il fonico in studio, produco gruppi e partecipo alle registrazioni di parecchi dischi. Mettendo insieme tutto ed evitando di buttare i soldi in cazzate a fine mese non ho un vero e proprio stipendio, ma almeno non devo trovarmi qualcos’altro da fare per vivere. Inizialmente gestivo tutto, ora molto meno, i concerti li gestisce il Cecca di BPM Concerti, la stampa dell’ultimo disco la sta gestendo Woodworm, mentre l’ufficio stampa è autogestito da me e Nunzia (la mia compagna) come Dischi Bervisti, ma devo dire che ho sempre meno tempo per star dietro a tutto.

Come vedi la scena musicale italiana? Intendo quella sotterranea (ma non troppo) fatta di piccole entità come la tua (o anche maggiori) ma che mi sembra sia ormai ad un livello qualitativo veramente elevato.

Anche secondo me il livello si è alzato. Purtroppo il livello culturale italiano si è abbassato, quindi magari la musica può essere migliore, ma i posti dove farla sono sempre meno. Sono anche contento di vedere molte band che suonano e sono amate all’estero, questo significa che forse siamo arrivati, almeno in alcuni casi, ad essere “competitivi”, per quanto questo termine non mi piaccia.

So che hai fatto qualcosa anche con Ligabue: come collochi questi grandi nomi nel panorama rock italiano? Voglio dire, per me Vasco Rossi e Ligabue hanno un’influenza negativa su tanti perché il monopolio radiotelevisivo ci dice che loro sono il rock in Italia. Per trovare alternative devi cercare da altre parti e non tutti ne hanno voglia o interesse.

Ho registrato i violini su due pezzi di Ligabue. Mi è stato chiesto se volevo farlo e mi è sembrata una bella occasione per mettermi alla prova e soprattutto per andare a vedere come si lavora a quei livelli. Io personalmente non ce l’ho con Ligabue o Vasco, non mi piacciono le cose che fanno, tutto qui. La questione è un po’ complessa, dal mio punto di vista, perché da un lato ci sono le major che spingono i nomi grossi per far cassa (con tutte le conseguenze del caso), dall’altra c’è un pubblico che si riconosce in quello che questi artisti comunicano. Forse è perché comunicano cose molto semplici, in cui l’italiano medio si rivede. Chi non è stato con una tipa stronza in vita sua? Se ci fai una canzone gran parte del pubblico maschile ci si rivedrà. Sta a noi decidere se vogliamo ancora sentir parlare di cuore-amore o se vogliamo che la musica sia un arricchimento culturale, oltre che semplice intrattenimento. In più la gente non ha voglia di cercare qualcosa di diverso, quindi si becca quello che le viene propinato da tv o radio e basta. La cosa finisce qui. Diventa puro e semplice mercato.

L’etichetta Dischi Bervisti l’hai fondata tu?

L’abbiamo fondata io e Nunzia, inizialmente è stato fatto perché ai tempi del mio penultimo album ci siamo resi conto che potevamo contare su Audioglobe per la distribuzione delle copie fisiche, senza dover passare necessariamente per altre etichette. Quindi ci siamo messi in proprio e a quel punto abbiamo deciso anche di gestire tutta la parte promozionale. Ora facciamo da ufficio stampa anche per altre band e coproduciamo i dischi degli amici o quelli che ci piacciono. Una cosa molto DIY, comunque.

Ho saputo che ti sei sbattezzato, hai problemi con la religione cattolica o invece è una cosa più generale contro tutto quello che riguarda la spiritualità?

Non è una cosa che riguarda la spiritualità, ma le religioni (tutte) intese come un sistema politico per il controllo delle masse. Detta così sembra una cosa complottista, ma non lo è. La chiesa e le religioni per secoli non hanno fatto altro che mettere gli uni contro gli altri, in nome di un Dio che qualcuno si è inventato. La gente crede in cose assurde e affronta la vita pensando cose tipo “se Gesù è morto per noi, allora io devo avere la mia croce e soffrire”… secondo me questa è follia pura. Non si sa neppure se Gesù sia mai esistito o meno, non riesco a sentirmi vicino a queste cose. Che poi la religione cattolica mi fa proprio ridere, piena di controsensi. Una religione monoteista in cui vengono venerati decine di santi (che poi santi nella vita non lo erano proprio). Sinceramente? Non voglio averci niente a che fare.

Ora parlami del Bervismo, al quale ti vedo molto legato. Cos’è e da dove nasce?

“Bervismo” è una parola che mi sono inventato. Ho cominciato a scriverla sui social network ed ora sta cominciando a dilagare in maniera preoccupante… Di base vorrebbe essere la parola che identifica il trionfo della ragione sui sistemi politici del passato, sulle religioni e sulle superstizioni in generale.

Passiamo al tuo ultimo disco Uno Bianca: un progetto che potrebbe prestarsi ad interpretazioni controverse. Non ti hanno ancora accusato di apologia della violenza? Perché hai rievocato la storia di quella banda criminale?

Ho pensato di rievocare in musica una storia che a mio modo di vedere ha cambiato non solo la provincia di Bologna, ma un po’ tutto il Belpaese. Una storia sconvolgente che dovrebbe continuare a far riflettere, ma di cui non si parla quasi più. E’ una storia di Bologna e il mio progetto è nato inizialmente con l’idea di parlare della città in qualche modo, soprattutto andando a raccontare le sue storie più tristi. L’argomento è scottante, me ne rendo conto, infatti fin da subito ho contattato l’Associazione delle Vittime della Uno Bianca per parlare del mio progetto e del fatto che non ho la minima intenzione di far passare quelli della banda per dei personaggi da imitare. La mia è una denuncia spietata nei confronti di chi non ha il rispetto per la vita (aggravato, in questo caso, dal fatto che chi era coinvolto faceva parte di un’istituzione che dovrebbe garantire la pubblica sicurezza).

Rispetto ai lavori precedenti si nota un massiccio uso degli archi, il tuo violino mischiato con la violenza chitarristica crea una sorta di tappeto grind orchestrale. Un connubio che ti appassiona?

Come ho già scritto sopra, penso che questo che esce con BOLOGNA VIOLENTA sia una specie di “suono primordiale” che ho in testa. Questa è esattamente la musica che ho dentro.

Diventa imprescindibile il booklet allegato all’ascolto: preso da solo l’album è spiazzante ma con la guida in mano magicamente tutto si incastona al posto giusto. Una colonna sonora per un film che non è nelle sale ma che è nella storia della cronaca nera italiana. Hai attualizzato i poliziotteschi dei ’70 si può dire.

In qualche modo, forse sì. Lì era tutto basato su storie inventate, qui purtroppo è una storia vera. La mia idea era proprio quella di ricreare le colonne sonore di quei momenti così drammatici, la paura, la follia, il dolore generato da un raptus di follia. La guida all’ascolto è imprescindibile, perché lo svolgersi dei fatti è sottolineato dalla musica, ma se non si sa cosa è successo, si ha la sensazione che sia tutto un po’ fine a se stesso.

Come lo porterai in tour? Hai delle idee di come sarà il tuo show?

Sto preparando dei video che spero siano all’altezza del disco… Sto cercando di creare un viaggio minimale, ma efficace. Sul palco sarò da solo, non me la sono sentita di coinvolgere altra gente nei miei deliri!

Perché qualcuno dovrebbe comprare Uno Bianca? Fatti pubblicità…

La gente dovrebbe comprare il disco perché è qualcosa di diverso da quanto esce di solito. E’ uno sconfinare tra generi continuo, anche se di base la componente violenta è quella predominante. E’ un disco fatto col cuore che racconta una storia che dovrebbe farci riflettere.

BOLOGNA VIOLENTA

Uno Bianca

Woodworm/Wallace Rec/Dischi Bervisti

BV - UnoBianca [cover]

C’è qualcosa di sorprendente nelle idee di Nicola Manzan, cioè il factotum dietro il nome Bologna Violenta. L’anno scorso ha avuto il coraggio di condensare in un’unica traccia le discografie di artisti che vanno dai Pink Floyd agli Abba passando attraverso i Carcass con l’operazione “The Sound Of…” che seppur discutibile dal punto di vista puramente uditivo (a volte ci sono pezzi di puro rumore bianco) risulta affascinante per l’idea e dimostra ancora una volta la vitalità dell’artista trevigiano. Ora dopo tre dischi in netta crescita ecco che arrivano i 27 pezzi (30 minuti di musica totali) del nuovo Uno Bianca. Un concept che percorre passo passo le gesta criminali della banda dei fratelli Roberto e Favio Savi, poliziotti, che tra il 1987 e il 1994 misero a segno una serie di rapine e assalti che terrorizzarono Bologna e dintorni. Chiunque si trovò malauguratamente sulla loro strada fù impietosamente spazzato via, al momento del loro arresto i morti che si lasciarono alle spalle furono 24, conto al quale si aggiunge il loro povero (ma controverso) padre che si suicidò, forse vinto dalla vergogna (e a questo capitolo finale è dedicata l’ultima, bellissima, sinfonica e classica traccia). La canzone vera e propria non esiste e viene abbandonata a favore del concept globale della storia, anche i titoli non esistono, visto che ogni pezzo è identificato dalla data e dal luogo di ogni loro rapina o azione criminosa, e tutto il disco si regge sulla tremenda dicotomia chitarra – violino. I ritmi sono spesso forsennati come suo solito, l’uso degli archi però è massiccio e stempera le violenze, le pause sono inserite al momento giusto e la liricità del disco ne guadagna. Spiazzante al primo ascolto, il lavoro cresce notevolmente con i successivi, ma è quando si prende in mano la guida ai brani che Nicola ha allegato al suo lavoro che tutto giunge a compimento e il suo disco si trasforma in una colonna sonora perfetta di un poliziottesco italiano aggiornato agli anni ‘90, in un continuo aumentare del coinvolgimento emotivo. La musica segue passo passo ogni vicenda e tutto si va magicamente ad incastonare nel punto giusto, lasciando stupefatti di come questo sia possibile seguendo la sua proposta musicale, che non è certo tra le più accessibili e leggere. La violenza musicale delle rapine lascia spazio agli archi delle morti e dei funerali, si sobbalza ad ogni attacco, si prova pietà per le vittime e rabbia per i carnefici, sembra di essere sulla scena del crimine (ad esempio le tristi note tzigane durante l’assalto ai campi ROM si interrompono bruscamente durante il vero e proprio tirassegno messo in atto dai criminali lasciando spazio alla furia delle chitarre). Vi garantisco che, se siete solo un minimo avvezzi al genere, vi ritroverete ad ascoltare mezz’ora di grindcore con il cuore in gola e non potrete non trasalire ad ogni rintocco di campana (24, uno per ogni morto) puntualmente sistemati al momento dell’esecuzione. Da brividi. Come ho detto all’inizio, uno dei più sorprendenti artisti italiani nel panorama della musica estrema.

Daniele Ghiro