The Thousand Incarnations Of The Guitar

VIAGGIO TRA I CHITARRISTI DEL NUOVO MILLENNIO

di LUCA SALMINI

Acustiche ed elettriche, a 6 e 12 corde, Fender, Gibson, Gretsch. Martin, Telecaster, Stratocaster, Les Paul, Nashville Rose, White Falcon: esistono migliaia di chitarre e probabilmente molti più chitarristi, perchè in fondo, quale adolescente non ha mai desiderato suonarne una, magari sull’onda dello sconquasso machista dei power chords di Smoke on The Water? Per quanto ampio, vario e sfaccettato possa essere il panorama dei chitarristi, i solisti che hanno eletto la chitarra a strumento assoluto (probabilmente nessuno dei quali è mai stato anche lontanamente attratto dai Deep Purple) costituiscono una piccola cerchia, una setta e quasi un mondo a parte, che ha cominciato a profilarsi al principio degli anni ’60 quando John Fahey pubblicò il suo fondamentale debutto Blind Joe Death. Da quel momento iniziarono a delinearsi i contorni di una scena – in qualche modo indentificabile con la definizione American Primitives– e quella che venne presto considerata una scuola nata intorno alla Takoma Records, l’etichetta fondata da Fahey (un’eccellente compendio al riguardo è racchiuso nella raccolta The Thousand Incarnations Of The Rose: American Primitive Guitar And Banjo 1963 – 1974, recentemente curata da Glenn Jones e pubblicata dalla Craft Recordings): istituzioni più o meno riconosciute che hanno scritto la storia del genere e non smettono di fare proseliti ed arruolare nuovi adepti, se ancora oggi una twentysomething come la britannica Gwenifer Raymond include nel suo debutto una canzone intitolata Requiem For John Fahey. Per i cosiddetti primitivisti – americani e non – la chitarra non è lo strumento con cui scandire le cadenze di una canzone o accompagnare le strofe di un ritornello, ma diventa voce solista capace di comunicare emozioni e stati d’animo, raccontare storie, tempi e spazi, prefigurare scenari e paesaggi, per elevarsi perfino a riflesso di spiritualità. Accanto a Fahey, Robbie Basho fu uno dei precursori dello stile e forse il primo ad esplorare il versante più mistico e metafisico delle sei corde, svelando inedite affinità tra background occidentale e cultura orientale: un’opera che l’ha eletto a figura di culto capace ancora oggi di affascinare per una tecnica e un linguaggio del tutto unici e peculiari.

Buck Curran 5 October 2017

Buck Curran

Uno dei più devoti e appassionati ammiratori dell’universo bashiano è il chitarrista oggi residente a Bergamo ma originario del Maine Buck Curran, che ne perpetua lo spirito con un disco come lo splendido Morning Haikus, Afternoon Ragas (Obsolete Recordings), capace di evocarne l’immaginario fin dal titolo. Curran ha cominciato a farsi conoscere con il progetto Arborea sviluppando un’idea di musica che il critico Gino Dal Soler nel suo libro The Circle Is Complete (Tuttle Edizioni) coglie alla perfezione – “...terrena ed insieme eterea, oppure emozionale e sensuale, comunque un riflesso tragico e meraviglioso al tempo, di un piccolo, infinitamente piccolo, punto dell’universo...” – e che oggi l’artista pare perpetuare nelle traiettorie di una carriera solista annunciata nel 2016 dall’esordio Immortal Light. Ma è con il nuovo Morning Haikus, Afternoon Ragas che si avvicina sensibilmente all’estetica e alle atmosfere di Robbie Basho, portando idealmente a compimento la chiusura di un cerchio iniziata tanto tempo fa, come oggi racconta: “Credo di aver colto i primi riferimenti a Robbie Basho guardando un’intervista televisiva con Will Ackerman (un artista del roster Windham Hill). Il modo in cui descriveva Basho e la sua musica… mi ha dato l’impressione che Basho fosse uno spirito gentile e mi ha spinto a scoprire la sua musica al più presto possibile. Innamorarsi di Basho è stato estremamente facile, perchè fin da adolescente, mi sono appassionato ai suoni della musica spagnola e gitana, della chitarra classica e di altre produzioni di base acustiche. La mia predilezione per quel tipo di sonorità, mi ha portato a conoscere il sitarista Pandit Nikhil Banerjee, che è il più grande musicista mi sia mai capitato di ascoltare. Per questo motivo, quando ho sentito Basho per la prima volta, già sapevo dove era diretta la sua musica e l’ho adorato fin dal primo istante. Come Basho, stavo già impiegando accordature alternative che mi consentissero di creare nuovi colori e umori ispirati alla musica classica indiana, al folk britannico e al folk e al blues Americani (che ho imparato direttamente dal chitarrista inglese Martin Simpson nei primi anni ’90 – sebbene l’uso di accordature altenative di Martin si concentrasse su inediti arrangiamenti di Skip James o di antiche arie vocali e ballate irlandesi ed inglesi). Anche tutta l’opera di Ry Cooder è stata di grande ispirazione: Paris,Texas A Meeting By The River con Vishwa Mohan Bhatt. Amo quel disco di Cooder e Bhatt, non solo per il feeling della musica, ma anche per il modo in cui hanno raccontato di averlo inciso (nelle note dell’album). Nell’insieme tutto questo ha avuto un’enorme impatto su di me quando avevo vent’anni”. Quando si parla di solisti della chitarra acustica, Fahey è chiaramente il nome da cui non si può prescindere, ma Buck Curran ha un’opinione interessante al riguardo: “John Fahey è una figura iconica e un musicista straordinario per il quale nutro un grande rispetto, ma per me, non ha mai rappresentato un’influenza. Ascoltavo Skip James, Elizabeth Cotten, Blind Willie Johnson, Charlie Patton, molto tempo prima di aver sentito una sola incisione di John Fahey (e Fahey è un diretto discendente di quella tradizione), per questo probabilmente non è qualcosa che mi ha suscitato così tanto entusiasmo come quando ho ascoltato Basho. La mia sensazione è che Basho stesse attingendo ad una fonte molto più profonda e arcaica. Mi spiego… a quando risalgono la musica persiana, asiatica e indiana? Sono molto, molto antiche… almeno quanto la Storia e io sono sempre stato curioso e affascinato dall’idea di ritornare alle origini della musica. In confronto, il folk e il blues Americani si sono sviluppati in tempi più recenti attraverso la transizione contemporanea di migrazioni da Oriente verso Occidente. Ma la musica dell’Asia, dell’India, della Persia e dell’Africa è molto più antica, tanto che a confronto l’intera tradizione americana del blues e del folk pare storicamente appena nata, se ci si pensa (e subito seguita dal Rock’N’Roll e da quanto ascoltiamo oggi)”. Il chitarrista Rick Dietrick fu uno degli artisti più oscuri degli anni ’70, ma il suo unico e rarissimo album Gentle Wilderness recentemente ristampato dalla Tompkins Square Records insieme all’inedito River Sun River Moon, avrebbe potuto in qualche modo precorrere il più tardo fenomeno New Age, non tanto per le qualità particolarmente rilassanti del suono ma per il modo quasi sciamanico con cui è stato concepito: come farebbero un pittore o un poeta, Dietrick amava infatti isolarsi nell’incanto della natura selvaggia e strappare le sue canzoni alle acque di un torrente o ai rami di una quercia. Inconsapevolmente, Morning Haikus, Afternoon Ragas potrebbe aver avuto una genesi altrettanto ascetica e impressionista, almeno a giudicare da una traccia bucolica come Campane Del Sabato Mattina e da quanto l’autore riferisce riguardo il proprio singolare metodo di songwriting, un processo che oltre ad un innato talento comporta una certa dose di magia: “Prima di tutto, non compongo quasi mai alla chitarra. Per lo più ogni cosa si configura in forma di visioni quando sono in giro a riflettere… camminando in città o lungo un sentiero nei boschi… semplicemente stando in mezzo alla natura o aggirandomi per le strade. La musica mi si presenta ad ondate quando faccio una passeggiata… quando ho tempo per respirare davvero e stare da solo. Naturalmente, subito dopo, ho bisogno di dedicarmi alla chitarra il più presto possibile, solo così riesco a ritrovare quanto ho percepito, prima che l’idea sfugga. In quei momenti compongo velocemente la struttura base dei brani. È importante sottolineare che una buona metà del mio lavoro alla chitarra è improvvisato… improvvisato nel senso che accedendo il registratore e parto. Se da una session viene fuori qualcosa con un colore e un feeling unici, bene, è praticamente ciò che si ascolta sui dischi che ho realizzato. Inoltre curo personalmente il processo di registrazione e mixaggio… in questo senso cerco sempre di fare in modo che ci sia quanta più atmosfera possibile”. Rispetto al gusto sixties di ballate che suonano già come dei classici come New Moontide e SevenGardens To Your Shore o di alcune atmosfere rarefatte e vagamente lisergiche del precedente Immortal Light, Morning Haikus, Afternoon Ragas ha il sapore di un radicale back-to-basic e dal punto di vista progettuale assume i contorni di un sogno che Curran ha a lungo tenuto in un cassetto: “La realizzazione di un disco di sola chitarra è un desiderio che risale a molto tempo fa. Nella versione in CD dell’album, ho incluso una registrazione dell’estate del 2000 (Crucible), in quel momento avevo già consciamente deciso di realizzare un debutto per sola chitarra acustica, ma la cosa non è allora pienamente progredita. Poi dal 2004 ho cominciato a lavorare con Shanti e insieme abbiamo elaborato la musica che sarebbe confluita nel primo album degli Arborea Wayfaring Summer (2006). Per quanto riguarda la produzione degli Arborea, all’inizio mi sono ispirato a grandi duetti acustici come quelli tra Martin Simpson e June Tabor e al lavoro di Martin con la sua precedente moglie Jessica Radcliffe. Così per quanto riguarda questo mio disco solista… tutto finalmente ha cominciato a coincidere lo scorso anno dopo la nascita del mio terzo figlio qui in Italia, durante l’estate. Dal punto di vista tematico, questo disco è pervaso da una certa nostalgia e un certo struggimento suscitati dalla separazione dei miei figli che vivono in America (e al momento, cosa che sembra trascorsa in un lampo, il rammarico per la perdita della loro infanzia… ora che sono cresciuti). Tutta quest’ispirazione maturata nel corso di così tanti anni si manifesta pienamente in Morning Haikus, Afternoon Ragas. Concettualmente questo disco è quindi vecchio di decenni e sono davvero soddisfatto per essere riuscito a portarne a termine la gestazione artistica dopo così tanto tempo”. Morning Haikus, Afternoon Ragas è per lo più acustico, ma come testimonia la sensazionale Taurus, omaggio al Peter Green del periodo Fleetwood Mac, Curran è un chitarrista estroso e versatile anche all’elettrica, è interessante quindi scoprire quali siano le sue preferenze riguardo allo strumento: “Per quanto riguarda le elettriche, quello che conta per me è la semplicità e non ho bisogno di sprecare tempo inventando qualcosa che già esiste. Ho suonato delle Stratocaster per la maggior parte della mia vita, ma ho sempre avuto una profonda passione per il suono della Gibson Les Paul. Una Les Paul ha una voce talmente grossa e la qualità del sustain è superiore a quella della maggior parte delle altre chitarre. La chitarra acustica invece è tutto un altro mondo. Possiedo un’ottima Yamaha che uso per i concerti e che non mi preoccupo di maltrattare o di suonare con particolare energia. Comunque quando registro utilizzo quasi sempre un modello Butterfly che ho progettato personalmente tra il principio e la metà degli anni 2000. Ne ho costruita una usando legno d’abete rosso del Maine, che è diventata la mia chitarra principale. Questo modello Butterfly è perfetto per le accordature alternative e ha un suono meraviglioso, un sustain incredibile, grande volume e complessità di toni. Vedi… la chitarra è uno strumento fantastico. Può essere una singola voce o trasformarsi in un’orchestra in miniatura. In qualità di strumento è sempre molto stimolante e di grande ispirazione”. Come si intuisce da quanto riferito sopra, ogni marca o tipo di chitarra ha suono e caratteristiche specifiche e se si chiede a Buck Curran cosa abbia motivato le sue scelte, questa è la sua risposta: “Per quanto riguarda le chitarre acustiche e nello specifico il modello Butterfly che ho ideato, sapevo esattamente ciò che volevo dallo strumento, ma non ero riuscito a trovarlo in nessuna chitarra avessi fino a quel momento suonato, per questo ho dovuto costruirmela da solo. Sapere esattamente il suono che volevo ottenere e aver suonato così tante chitarre nel corso degli ultimi tre decenni, mi ha aiutato a capire dove e come poter trovare il necessario per farne una adatta alle mie necessità. Per quanto riguarda le elettriche, la Les Paul e la Stratocaster coprono qualsiasi esigenza possa avere… con un’intero spettro di colori tonali (Jimi Hendrix e Peter Green sono stati ottimi maestri al riguardo)”.

Dylan Golden Aycock

Dylan Golden Aycock

Come Buck Curran, anche il musicista di Tulsa, Oklahoma Dylan Golden Aycock ha i suoi buoni maestri o comunque delle fonti d’ispirazione e anche se non comprendessero l’omonimo e celeberrimo Bob, tra esse c’è di sicuro un chitarrista che con sua maestà ha effettivamente collaborato: Bruce Langhorne. I suoi contributi al capolavoro Bringing It All Back Home e allo score Pat Garrett & Billy The Kid sono storia della musica, ma è la colonna sonora del film culto The Hired Hand a sedurre profondamente Aycock, tanto da spingerlo a curarne un bellissimo tributo quasi omonimo The Hired Hands ,pubblicato lo scorso anno. I tratti paesaggistici e le partiture sensoriali e minimaliste di quella soundtrack pervadono le traiettorie del suo secondo album solista Church Of Level Track (Scissor Tail Records) del 2016, un disco polveroso, spettrale e affascinante che l’emittente radiofonica statunitense NPR considera sospeso tra “...il blues in fingerpicking di John Fahey, le vorticose composizioni di Robbie Basho e l’estroversa Americana del Jim O’Rourke di Bad Timing e The Visitor...”. Tulsa è la quarantaseiesima città più popolosa degli Stati Uniti, ma sulla carta geografica del music business rimane una zona ai margini e se aveva ragione Don DeLillo quando scriveva “…pertiene alla natura e al piacere di chi abita in una città di provincia diffidare della metropoli. Tutti i principi guida che possono emanare da un centro di idee ed energie culturali ne vengono considerati cose corrotte, in qualche misura pornografia…”, questo spiegherebbe perchè Churck Of Level Track canta di un’America periferica e desolata, di tempi color seppia e di paesaggi desertici e solitari, quando nei movimenti lenti e nelle scivolate slide di una spaziosa Arkansas River si ha la sensazione di percepire lo scorrere maestoso e melmoso delle acque di un grande fiume; negli arpeggi circolari di Red Oak Black si intravede la piatta monotonia della pianura o nella drammaticità delle note di Scratch TheChisel la furia di un uragano.

Bill Brovold Jamie saft foto di Michael Montella

Bill Brovold e Jamie Saft (foto di Michael Montella)

Più o meno la stessa, intensissima aria di “Wyrd Ole America” pervade gli schelettrici blues di Serenety Knolls (RareNoise Records), opera prima del duo composto da Bill Brovold alla chitarra elettrica e da Jamie Saft al dobro e alla lap steel guitar, musicista dal background no wave il primo e tastierista di spicco della nuova scena free jazz qui occasionalmente dedito alle sei corde, il secondo. Insieme abbandonano la coolness della scena newyorkese e si perdono nella wilderness della provincia Americana, raccontandone l’essenza come farebbe uno scrittore quale Cormac McCarthy, lavorando per sottrazione: Serenety Knolls è un disco asciutto e basico ma affatto spoglio, anzi molto lirico, perchè con poche magiche note e la ricercatezza di qualche arpeggio, i due chitarristi riescono a prefigurare tutto un mondo e il bagaglio di emozioni che lo accompagna, innescando un processo che ha rappresentato una sorta di rivelazione anche per gli stessi autori, come spiega Saft: “...Tutto è cominciato con l’idea di fare musica d’ambientazione country e alla fine siamo giunti a qualcosa che assomiglia più a uno stato di coscienza alternativo…”. Qualcosa può ricordare il Bill Frisell di Nashville, qualcos’altro il Ry Cooder di Paris, Texas, ma in generale Brovold e Saft trovano un linguaggio proprio e meraviglioso, fatto di arcaici blues come Sweet Grass, minuzie bluegrass come The Great American Bison, stupefacenti serenate da Laurel Canyon come Bemidji o dolci nenie folk come l’incantevole No Horses Seen.

elkhorn

Elkhorn

Di tutt’altro tenore i duetti che riempiono il vinile The Black River (Debacle Records) dei newyorkesi Elkhorn, formati dalla dodici corde acustica di Jesse Sheppard e dall’elettrica di Drew Gardner, due autentici visionari cresciuti tra le foreste e i complessi industriali in rovina del New Jersey, che, secondo le note della loro pagina Bandcamp, combinano “...il passato e il futuro in una musica ricca e stratificata che scivola in maniera fluida dal pre-rock al post-rock, dagli anni ’60 dell’800 ai ’60 del ‘900 e oltre…”. In effetti The Black River intreccia il ritmico intercalare delle note acustiche di Sheppard con l’echeggiare riverberato e avanguardista dell’elettrica di Gardner amalgamando l’ipnotismo del blues e la purezza del folk delle radici con la spinta centrifuga e angolare dell’improvvisazione e le visioni surreali della psichedelia tra bave di distorsione, cambi di tempo improvvisi, droni stupefacenti, lame di riverbero e astratte soluzioni armoniche. Più che l’incanto di un mondo o di un tempo perduti, The Black River ne evoca il tormento o lo sgomento provati di fronte al lento disfacimento, come se a risuonare nella testa degli Elkhorn ci fosse costantemente l’eco delle parole dello scrittore Andre Dubus III, “...L’America è la terra del latte e del miele, ma non ti spiegano che il latte è andato a male e il miele l’hanno rubato da un pezzo...”. Possono sembrare magari una voce fuori dal coro tra i primitivisti, più a loro agio nelle sale della Knitting Factory che nell’idillio di una pineta, ma la musica solo strumentale degli Elkhorn possiede lo stesso potere immaginifico e cinematografico, quando partono gli arabeschi acustici e i lamenti elettrici della bellissima titletrack, le sulfuree arie d’oriente di una narcotica Sugar Hill Raga in orbita Sandy Bull, il western noir di una scenografica Due West, l’omelia lisergica di Spiritual o il folk-rock di una lirica Depraved Heart.

Gwenifer Raymond

Gwenifer Raymond

Come affermava qualche tempo fa l’artista brasiliano Vinicius De Moraes, “...La chitarra è non solo la musica (con tutte le sue possibilità orchestrali nascoste) in forma di donna, dal momento che, tra tutti gli strumenti musicali che si ispirano alla forma femminile – viola, violino, mandolino, violoncello, contrabbasso – è l’unico che rappresenta la donna ideale: nè grande, nè piccola; di collo allungato, spalle rotonde e dolci, vita fina e fianchi pieni; colta ma che non si vanta; riluttante ad esibirsi, se non attraverso la mano di chi la ama; attenta e obbediente al suo amato, ma senza caduta di carattere e dignità; e, nella intimità, affettuosa, saggia e innamorata…”: forse è questa la ragione o una delle ragioni che giustificano come il mondo della chitarra sia prevalentemente al maschile (basta infatti scorrere la classifica dei 100 migliori chitarristi di tutti i tempi secondo la rivista Rolling Stone per accorgersi che le quote rosa si aggirano intorno ad un modesto 2%), anche se non mancano le eccezioni neppure nel campo dei primitivisti come dimostra il folgorante debutto You Never Were Much A Dancer (Tompkins Square Records) della sopraccitata Gwenifer Raymond. Vent’anni e poco più, laurea in astrofisica, aria da riot grrrl e phisique du role da stellina del pop, Gwenifer Raymond nasce a Cardiff in Galles e oggi vive a Brighton in Inghilterra, ma a giudicare da quanto si ascolta in You Never Were Much A Dancer, sembra cresciuta tra le malsane paludi del Mississippi e le profonde vallate degli Appalachi inseguendo i fantasmi di Charley Patton, Robert Johnson e Dock Boggs o almeno è l’impressione che suscitano le atmosfere da field recordings dell’iniziale Off To See The Hangman Part I, il furioso circuitare degli accordi di una spiritata Sometimes There’s Blood, gli spettrali giri di banjo del traditional Indumea, il mercuriale blues di It Was All Sackcloth And Ashes o le divagazioni metafisiche di una ispiratissima Sack ‘Em Up Part I/II. Tutto considerato, You Never Were Much A Dancer è un disco sorprendente, così come lo è il sesto posto in classifica raggiunto nella prima settimana dalla pubblicazione, e la stampa internazionale se ne accorge immediatamente: “...la Raymond prende questo suono tradizionale, ritmico e tumultuoso e ci stampa sopra il proprio imprimatur…” scrive The Guardian oppure “…Incredibilmente sicura di sé, in pieno possesso della propria arte…” aggiunge il mensile Uncut.

marisa anderson

Marisa Anderson

Al contrario, Marisa Anderson non ha finora ricevuto tutta l’attenzione che avrebbe meritato, anche se con la recente pubblicazione del nuovo Cloud Corner (Thill Jockey Records) le cose potrebbero cambiare e la chitarrista di Portland verrebbe oggi a trovarsi nella situazione che il giornalista David Hepworth sintetizza così bene nel suo libro 1971 – L’Anno D’Oro Del Rock (Big Sur Editore): “...In tutte le storie dove è coinvolta la creatività ci sono momenti in cui il talento giusto incontra la dose giusta di opportunità, denaro e tecnologia (ma non troppa) e a quel punto sottopone il risultato a un pubblico che è pronto perchè le cose vadano come non sono mai andate prima e come non andranno mai più…”. Al sesto album di studio, Marisa Anderson non pare comunque nutrire alcuna illusione e nemmeno Cloud Corner sembrerebbe il disco capace di alimentarne, anche se tutto sommato i riscontri sono incoraggianti, visto che oltre al plauso unanime delle riviste specializzate, perfino un importante quotidiano del nostro paese le ha dedicato inedito spazio. Nella sua recensione (Buscadero n. 413), Lino Brunetti coglieva l’essenza di Cloud Corner con queste parole: “...una serie di partiture che mediano tra le ancestrali radici del folk e del blues, la psichedelia, una moderata tendenza alla sperimentazione, con piccole incursioni di suoni leggermente alieni e dissonanti… Un disco, nel genere, di perfezione luminosa…”, insomma materiale fatto di effimere emozioni, evanescenti sensazioni, minuzie tecniche e immagini sgranate di un’America fuori fuoco. Dal tintinnio cristallino delle chitarre acustiche o dall’echeggiare sommesso delle elettriche, non si levano particolari virtuosismi e articolate sequenze di accordi, ma si delineano i contorni dolci e malinconici di incantevoli e diafane arie melodiche che suonano come il riflesso di uno stato d’animo e di fugaci sensazioni, come succede in una vagamente lisergica Lament, in una Surfacing virata al blues, in una deliziosa e circolare Pulse o in un’ipnotica e minimale Slow Ascent.

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Stefano Meli

In linea con il seducente chiaroscuro dei suoni, l’immagine in bianco e nero della bellissima copertina di Cloud Corner ricorda i filari di pioppi, nebbia compresa, che costellano le pianure della bassa Lombardia e allora viene in mente che anche dalle nostre parti, magari involontari esuli in un ambito underground, si muovono eccellenti solisti come il ragusano Stefano Meli, che in verità, immagino di pioppi, pianure e grandi fiumi abbia ben poca esperienza, ma nella cui musica la Sicilia suona un po’ come il Far West. Il suo ultimo album interamente strumentale No Human Dream (Seltz Recordz) è uscito lo scorso anno e sebbene non sia un lavoro in solitaria visti i pur morbidi contrappunti dei Gentless3 (Carlo Natoli e Sergio Occhipinti al basso, Sebastiano Cataudo alla batteria e Anna Galba al violino), pare pervaso da un gusto scenografico e da un’estro impressionista che non lo allontanano troppo dalle intenzioni dei primitivisti. La poetica contemplata da Meli è ben delineata nelle note della cartella stampa – “…Un disco che vuole sottolineare l’importanza del silenzio contro il rumore degli uomini, in un mondo che ha decretato la morte dei sogni, dell’intelletto e della fantasia…” ciò spiega perché nelle stupende atmosfere di No Human Dream scorra come un sottile senso di vuoto, di solitudine e di malinconia, evocato dalle magnifiche corde di un paio di chitarre vintage e dalle sapienti mosse di un artista con la testa piena di pensieri e in possesso della tecnica per trasformarli in musica. A momenti il feeling sembra quello del Ry Cooder della colonna sonora di I Guerrieri Della Palude Silenziosa o del Nick Cave di The Proposition e con un po’ di fantasia, non è difficile immaginare che le terre nei dintorni di Ragusa siano ancora luoghi selvatici e romantici proprio come la Louisiana o l’Outback australiano, capaci di ispirare le spaziose scenografie da serpenti a sonagli di una nervosa Desert, l’ariosa poesia di una lirica Petra, il blues cosmico e angolare di Stella, il talking inquieto di una hugoraceiana titletrack o l’echeggiare slide di una ipnotica Rain. A volte capita di inseguire un’emozione o un’idea per mezzo mondo, senza accorgersi che è possibile trovarle proprio sotto casa o comunque senza bisogno di attraversare l’Oceano: nel caso succedesse, il nome di Stefano Meli andrebbe tenuto bene in mente.

Simone Massaron studio by Emanuela Esquilli

Simone Massaron (foto di Emanuela Esquilli)

Milanese, colto, di formazione jazzistica, Simone Massaron è quello che Marc Ribot definisce “...un improvvisatore creativo e un chitarrista estremamente qualificato…”, all’apparenza sembrerebbe non avere nulla in comune con l’estensione delle praterie, le tempeste di sabbia dell’Oklahoma, le rive del Mississippi e le cime dei Monti Appalachi dove sognano i primitivisti, ma sono pur questi gli scenari che affrescano il suo ultimo album di studio Furore (Long Song Records), progetto affascinante ispirato all’omonimo classico della letteratura Americana scritto da John Steinbeck e alle foto di Dorothea Lange. Secondo Richard Ford “…solo gli scrittori veri – purtroppo – fanno parte di un club che ha soltanto un membro…”: un pensiero che viene di certo in mente quando si leggono le inarrivabili pagine di Steinbeck, ma che potrebbe estendersi anche ad un solista del calibro di Simone Massaron alla luce di un disco fuori dall’ordinario come Furore. Sul Busca Mauro Zambellini lo descriveva come “…un suono evocativo a cavallo di jazz, folk, ambient e musica d’avanguardia…”, giusto per far capire da che parte tira il vento, perchè Furore non è un disco facile, né immediato e nemmeno lo si può interpretare con leggerezza come una colonna sonora adatta alla lettura del libro, magari come l’onda di emozioni rimasta sulla risacca della coscienza dopo averlo terminato. In qualche modo si intravede una linea narrativa o forse cinematica che collega le ambientazioni, le azioni, i personaggi e le atmosfere evocate dai brani, storie, figure e paesaggi che si delineano in forme sfocate da una continua e intensissima dialettica tra il blues e la sperimentazione, come potrebbe accadere in un disco di Loren Connors. Per questo Furore ha bisogno di tutta l’attenzione possibile per entrare nel mood, respirare la polvere e cogliere le sfumature e le sensazioni che riempiono la parabola sonora che partendo dai desertici riverberi di Opening (Apocalypse) arriva all’aria da western all’italiana della titletrack, passando per il Sud Segreto dei Sixteen Horsepower di una splendida Tom Joad, per il fumoso blues di He Was A Burning Busher, per una circense Used Cars, Good Used Cars che divertirebbe Vinicio Capossela, per le partiture cameristiche di una cinematografica The Promised Land per la soffusa malinconia folkie di Go Down And Tell ‘Em.

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Maurizio Abate

In parallelo con quello di Simone Massaron, negli ultimi vent’anni, il percorso artistico di Maurizio Abate non ha mai avuto le sembianze di una strada maestra, rettilinea e a senso unico, ma quello di una tortuosa backstreet costellata di svolte audaci e deviazioni laterali come la sperimentazione, il minimalismo, la psichedelia o l’elettronica, aree esplorate con un’infinità di progetti e collaborazioni che compongono una discografia oggi pressocché monumentale. Dopo tanto movimento, Abate ha forse avvertito il bisogno di tornare all’essenza e alla calma del suo ultimo album Standing Waters (Boring Machines/ Black Sweat), un lavoro poetico e cristallino, che sviscera una profonda passione per l’estetica faheyana e mette a fuoco il tratto più lirico e sognante del tocco chitarristico dell’autore. Interamente strumentale, Standing Waters è composto da meditative melodie acustiche, minime sinfonie cosmiche e calde sequenze di arpeggi dall’aura naturista: come Meli invoca il silenzio che da assenza diventa presenza nel suo No Human Dream, qui Abate evoca l’idea di staticità delle Acque Ferme come momento di riflessione, introspezione e catarsi o almeno è una delle possibili interpretazioni che si potrebbero dare al placido dilatarsi di una sognante Nymphs Dance, al dondolio folk di una celestiale Odomata, ai ricercati cambi d’accordi e alle lievi orchestrazioni di Shaping The Mudo al mesmerico riverberare avant di una cerebrale Standing/ Crumbing.

Roberto Menabò

Roberto Menabò

Nel panorama italiano, Roberto Menabò può essere considerato un pioniere o almeno pionieristica pare l’incisione di un album per sola chitarra acustica, nello specifico una Martin HD28, nel lontano 1985, proprio quando montavano il fenomeno new wave e il refrain dei sintetizzatori. Per il chitarrista piemontese, la realizzazione, con pochi mezzi e tutta la passione possibile, di A Bordo Del Conte Biancamano (Autoprodotto http://www.robertomenabo.it), inciso d’istinto in una sola giornata, costituì la realizzazione di un sogno maturato durante i molteplici ascolti dedicati ai dischi di John Fahey e dei maestri del folk e del Delta blues: come tutte le fantasie oniriche non durò a lungo e quindi è oggi opportuna la ristampa in CD curata in occasione del trentennale della sua uscita in vinile, in versione rimissata e con l’aggiunta di note, foto inedite e bonus tracks, nonostante le obiezioni sollevate dall’autore stesso: “…Ripubblicare un disco di chitarra acustica dal suono antico, melodico e possente, nello stile “american primitive guitar” come chiamava Fahey è probabilmente da incoscienti, folli sognatori maldestri, ma la fantasia non ha prezzo…”. E di fantasia Roberto Menabò ne ha da vendere come testimoniano le tracce tutte originali, tranne un paio di vecchi blues, di A Bordo Del Conte Biancamano, un lavoro con cui si propone di intrecciare in maniera armonica gli stilemi dell’old time music con la melodia della canzone popolare italiana, mettendo in campo una tecnica da veterano e un’entusiasmo da debuttante: il disco è pervaso da un’incantevole senso di purezza e autenticità, rigoroso e pulitissimo dal punto di vista dei suoni, profondo, vissuto e passionale per quanto riguarda l’esecuzione. In generale, i 14 brani del vinile originale più le sei tracce aggiunte custodiscono il fascino di una vecchia polaroid con i bordi ingialliti dal tempo ed è probabile lo sembrassero già al tempo se confrontati con la mentalità frivola dell’Italia degli anni ’80, ma la musica di Menabò suona ancora oggi limpida e viva come nell’attimo in cui è stata concepita, per rendersene conto basta ascoltare il madrigale acustico della bellissima Stelle Filanti, le stoccate slide dello spettrale blues A Due Passi Dal Sunflower, i frizzanti virtuosismi di Sulle Rive Dell’Azar, la squillante mountain music di Frammenti e Autogrill, il divertente ragtime di Coiffeur Rag o il gospel natalizio O Little Town Of Bethlehem. A Bordo Del Conte Biancamano è stato solo il principio di una lunga e purtroppo poco chiacchierata carriera che continua felicemente ancora oggi, ma è a tutti gli effetti un’opera da riscoprire, giusto in un momento in cui il mondo dei solisti pare stia attraversando una nuova epifania.

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