E alla fine, quasi senza che ci se ne rendesse conto, la seconda vita dei Ride ha finito con l’essere più lunga e duratura della prima. È vero che, tra il 1988 in cui si formarono e il 1996 in cui si sciolsero, di album ne pubblicarono quattro, contro i tre, compreso quest’ultimo, della seconda fase, ma da quando si sono riuniti nel 2014, all’inizio solo per suonare dal vivo, dal 2017 di Weather Diaries anche in studio, i quattro musicisti di Oxford hanno costantemente dato l’idea di vivere un periodo meno tempestoso, più sereno, con molte meno pressioni, interne come esterne, anche artisticamente assai soddisfacente.
Ne è prova questo terzo disco post reunion, Interplay, che Mark Gardener (chitarra, voce), Andy Bell (chitarra, voce), Steve Queralt (basso) e Loz Colbert (batteria) hanno prodotto assieme a Richie Kennedy e registrato tra Abingdon, Alcester e Londra.
Un disco solido e potente, ben scritto e che si divide fra il riproporre il sound per il quale sono maggiormente conosciuti – in linea di massima identificabile come una versione più classicamente pop e concreta dello shoegaze – e la voglia di scandagliare certe sonorità eighties con la quale sono cresciuti e che andavano per la maggiore mentre iniziavano a muovere i primi passi.
Al primo lotto direi che possono appartenere canzoni come l’ottima Peace Sign, bel riff di chitarra e distorsioni stratificate a far da base alla melodia; la straordinaria ballata psych/noise Light In A Quiet Room, con coda a là Spacemen 3; i tre pezzi sognanti e in parte rumorosi Portland Rocks, la più sperimentale Essaouira e l’avvolgente Yesterday Is Just a Song, messi in coda al disco.
Al secondo gruppo potremmo invece ascrivere una Last Frontier che porta l’epica dei grandi spazi che fu degli U2 in luoghi in cui, oggi, Bono e compagni possono solo sognare d’arrivare; brani come la sintetica Monaco, l’electro shoegaze di I Came To See The Wreck, una Sunrise Chaser dalle morbidezze funky e una tintinnante Midnight Rider che, almeno in qualcosa, vi faranno pensare a band come Tears For Fears, New Order o Depeche Mode.
A far da ponte, i due pezzi al centro del programma, una Stay Free che è la cosa più simile a un blues psichedelico i Ride abbiano mai fatto, e una Last Night I Went Somewhere To Dream che è un vero e proprio gioiello di psych pop col quale sognare. Un bel disco in definitiva, che conferma l’ottimo stato di salute della band.
Devo dire che, negli ultimi anni, non sempre gli esperimenti portati avanti da Ben Chasny con la sua storica sigla Six Organs Of Admittance sono riusciti a conquistarmi al 100%. Sempre interessanti a modo loro, certo, ma mai del tutto compiuti, a partire dalla trilogia Hexadic, a tratti astrusa e bizzarramente ostica, per arrivare al precedente Companion Rises – non contiamo i due album iper sperimentali usciti poi, dalla diffusione carbonara – che giocava con l’elettronica con coraggio, senza riuscire a essere sempre del tutto a fuoco.
Il nuovo Time Is Glass, per fortuna viene da dire, torna al più classico sound Six Organs Of Admittance, ricollegandosi alle primissime cose di oltre vent’anni fa e a dischi tra i più amati del suo repertorio quali School Of The Flower, Asleep On The Floodplain e il più recente Burning The Threshold, uscito nel 2017.
Parliamo del Ben Chasny devoto all’acid folk acustico, quello per cui gli strumenti principali, ma non gli unici, attraverso cui esprimersi, sono il suo falsetto e la sua chitarra acustica. In questo senso è indicativa la scelta di pubblicare come primo estratto dall’album il pezzo che pure lo apre, The Mission, classico psych folk vagamente esoterico, in cui la voce segue una melodia a suo modo pop, facendosi accompagnare da un arpeggio di chitarra.
In realtà, già il pezzo successivo si pone quale oscuro drone strumentale e altri pezzi, in scaletta, vengono screziati da incursioni sonore altre, siano esse portate dal synth atmosferico e dai tocchi d’elettrica che appaiono in Slip Away, dalle distorsioni a montare nella lunga Spinning In A River o i bordoni densi di inquietudine che puntellano il finger picking ipnotico della bellissima track strumentale Summer’s Last Rays.
Strumentale è pure Pilar, ma qui è solo la chitarra acustica a farsi carico di ciò che si sente, mentre in un pezzo sospeso quale Theophany Song voce e chitarra sono puntellati da qualche nota di piano, lasciando alle più classiche My Familiar e New Year’s Song il compito di affrontare il folk da una prospettiva psichedelica, la seconda aggiungendo anche una vaga striatura blues.
Ai fan di Chasny, Time Is Glass non concederà particolari sorprese, ma gli offrirà l’opportunità di ritrovare un vecchio amico nelle sue vesti probabilmente più congeniali (anche se alcuni suoi dischi elettrici sono strepitosi). Gli altri potranno considerarlo un buon varco attraverso cui, poi, andare alla scoperta di una discografia lunga e frastagliata.
THE REDS, PINKS AND PURPLES UNWISHING WELL TOUGH LOVE
A un anno preciso dall’ultima volta, l’ex Skygreen Leopards, Thuja, Blithe Sons e molto altro, Glenn Donaldson, torna con un nuovo disco del suo progetto più recente, The Reds, Pinks And Purples. Per certi versi un tempo lunghissimo, se pensate che, dal 2020 a oggi, con questa sigla, compreso l’ultimo, ha pubblicato nove album e svariati EP (ma magari mi son perso qualcosa che c’è stato nel mezzo, nulla di più facile).
Unwishing Well è una sorta di concept album sulle “band che non ce l’hanno fatta e su quelle che invece hanno pagato un prezzo eccessivamente alto per il successo”, argomento sviscerato attraverso un pugno di canzoni che rispolverano soprattutto il pop rock indipendente anni 80 e che vi ricorderanno le band della famosa C86, quindi chitarre cristalline che solo di rado cedono alla distorsione, melodie nette ma leggermente umbratili, tempi medi e tastiere a sostegno.
Se pezzi come Nothing Between The Lines At All o Public Art vi faranno pensare agli Smiths non sarà del tutto un caso, visto anche, se vogliamo, il tema scelto. Donaldson è bravo a rispolverare quella sensibilità melodica d’antan, giostrando bene sia gli arrangiamenti (sentitevi pezzi come We Only Hear The Bad Things People Say o Your Worst Song Is Your Greatest Hit – gran titolo!), sia mescolando con sapienza ariosità pop e malinconica ombrosità, piazzando inoltre pure qualche affilato assolo elettrico.
Se devo essere onesto, il suo disco precedente m’era piaciuto di più, ma anche questo non è male e, per i fan del genere, si tratta di un amarcord da non farsi sfuggire.
Il quarto disco live attinto dagli archivi dei Can, rispetto a quelli che lo avevano preceduto, concentrati sul biennio 1975/76 – Live In Stuttgart 1975, Live In Brighton 1975 e Live In Coxhaven 1976 – torna indietro nel tempo e va a testimoniare il periodo in cui, della formazione tedesca, faceva parte il vocalist e improvvisatore giapponese Damo Suzuki.
Oltre che un album dal vivo clamoroso, Live In Paris 1973 assume quindi anche la forma di un grande omaggio al cantante, visto che pochi giorni prima dell’uscita del disco, il 9 febbraio scorso, Damo ci ha tristemente lasciati, soccombendo a un cancro diagnosticato per la prima volta nel 1983 e in passato sconfitto più e più volte.
Come i precedenti album della serie, anche Live In Paris 1973 è stato curato dall’unico membro della band tedesca ancora in vita, Irmin Schmidt, assieme all’ingegnere del suono René Tinner, il quale ha ripulito nastri provenienti dagli archivi, ma anche registrazioni fatte all’epoca dai fan.
Istantanea di un concerto all’Olympia di Parigi del 12 maggio 1973, le cinque mastodontiche jam che riempono quest’ora e mezza di musica vedono la band krautrock al massimo della forma. Avevano già pubblicato i mitici Tago Mago e Ege Bamyasi e stava per uscire Future Days e, più o meno, se ne rinvengono tracce in queste magmatiche, lunghissime improvvisazioni che, come nei capitoli precedenti, rimangono senza titolo, limitandosi ad essere nominate tramite una progressione numerica in tedesco.
La prima di queste si spinge a oltrepassare i 36 minuti di durata e, come accaduto in passato e come accennato, flash di pezzi noti della band appaiono nel magistrale flusso sonoro nel quale furoreggiano sia la propulsione ritmica di quel batterista straordinario che era Jaki Liebezeit, che il fraseggiare ficcante di un chitarrista altrettanto talentoso quale Michael Karoli (e questo senza nulla voler togliere agli altri che ovviamente girano anch’essi a mille).
Suzuki, da par suo, senza essere dotato di una voce classicamente definibile come virtuosa, s’inseriva molto efficacemente con i suoi vocalizzi, le sue frasi melodiche cantate con quel suo tipico linguaggio inventato, di fatto diventando un vero e proprio strumento aggiunto.
Live In Paris 1973 testimonia il periodo probabilmente più creativo e rivoluzionario della carriera della band tedesca. I dischi che pubblicarono in quei giorni non possono che essere definiti quali capolavori e qui, in versioni allungatissime e improvvisative, vengono evocati in particolare tramite una One More Night di 9 minuti (qui Paris 73 Zwei) e grazie a una visionaria Vitamin C di oltre 13 (Paris 73 Fünf), che da sole valgono il prezzo del biglietto. Imperdibile.
Sarà che Echoes, il capolavoro dell’anno scorso pubblicato come Fire! Orchestra, era stato disco che aveva visto coinvolto un numero spropositato di musicisti, ponendosi come il lavoro più complesso e ambizioso della loro carriera, ma in Testament, ottavo album intestato alla versione basica della band, ovvero i Fire!, Mats Gustafsson (sax), Johan Berthling (basso) e Andreas Werliin (batteria) hanno optato per muoversi in direzione esattamente opposta.
Nessun ospite, nessuno strumento aggiunto che non siano i tre citati, registrazione live in studio su nastro analogico, agli Electric Audio di Steve Albini, chiaramente quindi nessun overdub. L’idea era quella di asciugare la loro musica così da cristallizzarne l’essenza, e difatti questo è quello che nell’album si sente.
Pezzi come Work Song For A Scattered Past o The Dark Inside Of Cabbage si profilano in forma d’ipnotiche ed inesorabili marce dalle reiterative scansioni ritmiche, sulle quali Gustafsson ha modo di fraseggiare, di sbuffare e svisare free da par suo.
In qualche modo s’invertono i ruoli in Four Ways Of Dealing With One Way, dove è il sax a stendersi piano e atmosferico, mentre la sezione ritmica ruzzola e spinge, scuote e scappa da tutte le parti.
Splendido è il blues notturno e avvolgente Running Bison Breathing Entity Sleeping Reality, a muoversi in circolo per nove minuti lasciando fluire sprazzi lirici, prima che gli oltre dieci della più circospetta e ondivaga One Testament One Aim One More To Go Again facciano vedere di cosa sono capaci questi musicisti anche quando decidono di palesarsi ridotti all’osso.
Sempre un gran bel sentire, insomma. Speriamo solo che il titolo non alluda alla fine di questa gloriosa avventura, perché sarebbe davvero un peccato.
…A TOYS ORCHESTRA – LIFE STARTS TOMORROW LITTLE ALBERT – STILL ALIVE SARA PARIGI – RIVE KIWI666 – RANDY STELLA BURNS – MY HEART IS A JUNGLE LOWINSKY – NESSUNO SI RICORDERÀ DI NOI SABASABA – UNKNOWN CITY THE TIBBS – YOU CAN’T TEACH AN OLD DOG NEW TRICKS KURT VILE – TOM PETTY’S GONE (BUT TELL HIM I ASKED FOR HIM) TOM PETTY & THE HEARTBREAKERS – MARY’S JANE LAST DANCE VERA SOLA – BLOOD BOND BROWN HORSE – OUTTAKES ELEPHANT STONE – THE IMAJINARY, NAMELESS EVERYBODY IN THE WORLD TAPIR! – MY GOD SPRINTS – LITERARY MIND PISSED JEANS – MOVING ON THE BODY & DIS FIG – TO WALK A HIGHER PATH HÜSKER DÜ – BIG SKY
PAOLO SAPORITI – UN SOGNO ANCORA DA INVENTARE EMMA TRICCA – KING BLIXA DANIELA PES – LAIRA MARTA DEL GRANDI – CHAMELEON EYES BACHI DA PIETRA – MUSSOLINI SPARKLEHORSE – HELLO LORD SONIC YOUTH – DEATH VALLEY ’69 (LIVE) J.T. IV – THE FUTURE GARETH LIDDIARD – THE COLLABORATOR MYRIAM GENDRON – BRIC-A-BRAC MITSKI – BUG LIKE AN ANGEL THE CLIENTELE – FABLES OF THE SILVERLINK WEDNESDAY – CHOSEN TO DESERVE SWANS – LOS ANGELES CITY OF DEATH BIG|BRAVE – THE ONE WHO BORNES A WEARY LOAD GOAT – TRIPPING IN THE GRAVEYARD GOAT (JP) – COLD HEAT
THE FENDERMEN – MULE SKINNER BLUES CARNATIONS – CASUAL ALLEN PAGE – SHE’S THE ONE THAT’S GOT KAY MARTIN – SWAMP GIRL DARK – ZERO TIME WICKED LADY – RUN THE NIGHT ZIOR – STRANGE KIND OF MUSIC MR FOX – MENDLE TINTERN ABBEY – MR PRAYER JACKIE LOMAX – HOME IS IN MY HEAD THE PLEASERS – ROCK’N’ROLL RADIO THE METHOD ACTORS – DO THE METHOD CHANDRA – KATIE DISCO ZOMBIES – MARY MILLINGTON IN CAMERA – FINAL ACHIEVEMENT IT’S IMMATERIAL – A GIGANTIC RAFT IN THE PHILIPPINES THE TILLER BOYS – BIG NOISE IN THE JUNGLE BEE VAMP – VALIUM GIRLS PARANOIA – SHATTERED GLASS THE DARKSIDE – WAITING FOR THE ANGELS
BIG|BRAVE – I FELT A FUNERAL THE SMILE – BENDING HECTIC BILL RYDER JONES – THIS CAN’T GO ON GRUFF RHYS – SADNESS SETS ME FREE JONATHAN RADO – EASIER JOHN FRANCIS FLYNN – DIRTY OLD TOWN TY SEGALL – MY ROOM ANY OTHER – IF I DON’T CARE JAMES JONATHAN CLANCY – BLACK & WHITE J MASCIS – WHAT DO WE DO NOW? DUCKS LTD – THE MAIN THING KATY KIRBY – TABLE MARIKA HACKMAN – HANGING TORRES – I GOT THE FEAR ELENA SETIEN – SURFACING LAETITIA SADIER – UN AUTRE ATTENTE WILLIAM DOYLE – NOW IN MOTION PARQUET – MIAMI VICE LAIR – TATALU
L’RAIN – 5 TO 8 HOURS A DAY MARTA DEL GRANDI – MARBLE SEASON SANTACHIARA – PEACH TREE SARAH MARY CHADWICK – SHITTY TOWN BULLY – WONDERFUL LIFE RVG – MIDNIGHT SUN UPPER WILDS – PERMANENT STORM ISRAEL NASH – CAN’T STOP HISS GOLDEN MESSENGER – SHINBONE CUT WORMS – DON’T FADE OUT BONNY DOON – SAN FRANCISCO TRÉ BURT – TRAFFIC FICTION THE CLIENTELE – FABLES OF THE SILVERLINK MODERN NATURE – CASCADE HOVERIII – THE SHIP THAT I SAIL GEESE – GRAVITY BLUES EVERYONE ASKED ABOUT YOU – HANDSOME BEAUTIFUL MYRIAM GENDRON – BALLADE OF A GREAT WEARINESS
CAT POWER – BALLAD OF A THIN MAN JEFF BUCKLEY – JUST LIKE A WOMAN NINA SIMONE – JUST LIKE TOM THUMB’S BLUES NEVILLE BROTHERS – THE BALLAD OF HOLLIS BROWN JEFF TWEEDY – SIMPLE TWIST OF FATE MARK LANEGAN – MAN IN THE LONG BLACK COAT BRUCE SPRINGSTEEN – CHIMES OF FREEDOM COWBOY JUNKIES – I’VE MADE UP MY MIND TO GIVE MYSELF TO YOU SINEAD O’CONNOR – PROPERTY OF JESUS PJ HARVEY – HIGHWAY 61 REVISITED NICK CAVE & THE BAD SEEDS – WANTED MAN THIN WHITE ROPE – OUTLAW BLUES THIN WHITE ROPE – OUTLAW BLUES (brano autografo live) WEYES BLOOD – SAD EYES LADY OF THE LOWLANDS BRIGID MAE POWER – ONE MORE CUP OF COFFEE LOW – KNOCKING OF HEAVEN’S DOOR
GOAT (JP) – III I IIII III MAYA ONGAKU – MELTING SANAM – BELL NIHILOXICA – SOURCE OF DENIALS NDOX ELECTRIQUE – LEK NDAU MBAY LE CRI DU CAIRE – PEARLS FOR ORPHANS FATEN KANAAN – EBLA BILL ORCUTT – ONLY AT DUSK RICHARD DAWSON – WEAVER NATURAL INFORMATION SOCIETY – IMMEMORIAL IRREVERSIBLE ENTANGLEMENTS – FREE LOVE NALA SINEPHRO – SPACE 6 WITCH – WAILE BIXIGA 70 – LOA LUA SPECIAL INTEREST – MIDNIGHT LEGEND MARTA SALOGNI/TOM RELLEEN – PING PONGS VZ – CANDLES
EELS – CHRISTMAS, WHY YOU GOTTA DO ME LIKE THIS LANKUM – LORD ABORE AND MARY FLYNN ØXN – THE WIFE OF MICHAEL CLEARY REVEREND KRYSTIN MICHAEL HAYTER – THE POOR WAYFAIRING STRANGER PJ HARVEY – PRAYER AT THE GATE ANOHNI & THE JOHNSONS - REST BLUR – THE NARCISSIST WILCO – INFINITE SURPRISE YO LA TENGO – SINATRA DRIVE BREAKDOWN KARA JACKSON – DICKHEAD BLUES L’RAIN – PET ROCK ALGIERS – IRREVERSIBLE DAMAGE THE NECKS – SIGNAL
Come ormai avviene da molti anni, stilare una lista dei migliori dischi usciti nei dodici mesi precedenti non equivale veramente al tracciare tendenze o al tentare di capire dove sta andando la musica che tanto amiamo. Intanto, come detto più volte, è ormai impossibile avere un quadro vero e sensato di tutto ciò che esce, vista l’enorme mole di dischi nuovi dai quali veniamo sommersi settimanalmente. Ci sarebbe poi da considerare l’estrema frammentazione in micro nicchie, spesso non granché comunicanti fra loro, e quanto le piattaforme di streaming e social network come Tik Tok abbiano reso del tutto privo di senso persino il concetto di contemporaneità, per completare il quadro e per farci capire quanto scrivere lì in alto “Best 2023” sia alla fine un concetto alquanto aleatorio.
Del resto, neppure scandagliare la classifica generale di un sito quale Album Of The Year, che si prende la briga di accorpare le classifiche di numerossisime testate, 126 nel momento in cui scrivo, prevalentemente inglesi e americane, serve a farsi le idee più chiare, non facendo vedere nessuna grande rivoluzione in atto (perché di fatto non ce n’è) e mettendo sul podio tre dischi, quelli delle boygenius, di Caroline Polachek e di Lana Del Rey che, al di là del giudizio artistico che uno ne possa dare, proprio nulla di nuovo hanno in realtà da offrire, a partire proprio da quello apparentemente più contemporaneo come quello della Polachek, esponente di quell’hyper pop che, ancor più di altre sigle che si sono viste negli anni, sa di supercazzola da giornalisti, inventata per spacciare per chissà che canzoncine pop elettroniche, magari anche carine, eh!, ammantandole di una consapevolezza postmoderna di cui non che ci fosse tutto sto gran bisogno.
E allora, dopo sto pallosissimo pistolotto, perché anche quest’anno siamo qui a stilare le nostre ennesime classifiche? Beh, il motivo principale, ovviamente, sarebbe il fatto che è divertente farle, ma soprattutto che è divertente leggerle. Proprio per i motivi di cui sopra, anche chi, come il sottoscritto, di dischi in un anno ne ascolta un’infinità, con queste liste ha sempre modo di scoprire cose che gli erano sfuggite e che magari finiscono per diventare tra le proprie preferite. In questo senso, ancor più che le liste che appaiono sulle testate come somma algebrica dei voti dei collaboratori, particolarmente interessanti sono quelle personali, spesso veicolate anche su social come Facebook, sia da addetti ai lavori, che da semplici appassionati (a riprova di quanto siano popolari, a dispetto di quanti ogni anno, prendendosi forse un po’ troppo sul serio, spendono tempo e fatica nello spiegare perché non andrebbero fatte).
In questa disgraziata era dove le playlist valgono più degli album, aggiungerne un’altra non è un volersi accodare al trend generale, ma vuole chiaramente essere spunto per spingervi ad andare ad ascoltare dischi che forse non avevate preso in considerazione. Come ogni anno, potete partire dai miei elenchi, ovviamente testimonianza unicamente del mio gusto e nulla più, cesellati fino all’ultimo, ma che domani stesso sarei pronto a cambiare nuovamente, oppure dalla mega playlist (appunto) messa in coda all’articolo e che, nonostante contenga brani attinti da oltre 200 album, non fa altro che scalfire la punta di un iceberg.
Detto questo, passo a un rapido riassunto delle mie scelte. Come l’amico Luca Salmini, anche per me il disco dell’anno è False Lankum dei Lankum, un album che perfettamente affonda le sue radici nella tradizione folk del passato, facendole però vivere in un sound sperimentale e cupo, d’intensità straziante, tanto da farsi ipotetica colonna sonora ideale per un’annata, straordinaria musicalmente per chi scrive, ma di tutt’altro tono per ciò che è successo e continua a succedere nel mondo.
Nell’anno in cui Taylor Swift è eletta personaggio dell’anno da Time – 6/7 dei suoi dischi contemporaneamente nella classifica dei dischi più venduti, il suo tour primo a superare il miliardo di dollari di guadagni (tanto da influire sul Pil americano) e detentrice di un potere economico, ma soprattutto pervasivo, tale da essere ritenuta da molti analisti capace d’influire sulle prossime elezioni presidenziali USA – sono altre le ragazze che a me hanno interessato (anche se il per molti versi incomprensibile fenomeno Swift andrebbe indagato a fondo): innazitutto PJ Harvey che, continuando a cambiare e sperimentare sulla sua scrittura e sul suo modo di cantare, con I Inside The Old Year Dying ci ha consegnato l’ennesimo grande disco. E poi l’esordio di Kara Jackson – scoperto proprio spulciando le liste di fine anno – poetessa e cantautrice che con Why Does The Earth Give Us People To Love? tocca le giuste corde attraverso canzoni bellissime. E poi l’ex Lingua Ignota, oggi Reverend Kristin Michael Hayter, che con SAVED!!! prende il prewar folk per trasformarlo in mistiche e allucinate preghiere gotiche; L’Rain, più pop che in passato, ma sempre capace di sperimentare sul tessuto della canzone e oltre in I Killed Your Dog; Mitski, finalmente in grado di offrire un disco di rara bellezza cantautorale; Anohni, tornata coi Johnsons, per un disco dall’anima soul assolutamente clamoroso; la compianta jamie branch, il cui terzo capitolo della serie Fly Or Die, uscito postumo, ci fa capire quanto lontano sarebbe andata la sua musica, ben oltre i confini del jazz; la compositrice Kali Malone e i suoi monumentali drone estatici, in Does Spring Hide Its Joy in compagnia di Lucy Railton e Stephen O’Malley; la grandissima Melanie De Biasio con la sua opera visionaria Il Viaggio; infine Aya Metwalli, che con la band libanese Calamita ha messo a punto un disco in cui incrociare tradizioni mediorientali e noise rock sperimentale.
Per il resto, grandiosi più che mai i Fire! Orchestra del mastodontico Echoes; taglienti e potentissimi i BIG|BRAVE di Nature Morte; nuovamente in parte sottovalutati, ma autori di uno dei dischi più riusciti dell’anno gli Algiers di SHOOK; originalissimi e unici come al solito i The Necks di Travel; classicissimi e pertanto adorabili gli Yo La Tengo di This Stupid World; stranamente dimenticati da quasi tutti gli Swans, a loro modo malinconici, del sempre stupendo The Beggar.
Amando i Lankum, un vero colpo al cuore è stato Cyrm, debutto del side project di Radie Peat con Katie Kim ØXN; ma lo stesso potrei dire per il favoloso misto di country, punk e alt-rock dei giovani Wednesday, così come di I Am Not There Anymore dei Clientele, band in realtà in giro da molto, ma che devo ammettere mai avevo approfondito.
In un anno in cui diversi grandi nomi sono tornati alla ribalta – i Rolling Stones di Hackney Diamonds (bel disco, considerato tutto, ma con una produzione con tutti i cursori al massimo di un Watt che non mi aveva convinto sul disco di Iggy Pop e qui conferma le mie perplessità), Peter Gabriel (mai stato un suo fan, ma ottimo album davvero), Depeche Mode (idem), Everything But The Girl, etc – se devo scegliere quello che per me è stato un ritorno veramente a grandissimi livelli, cioé capace di stare davvero al fianco dei loro album migliori, allora citerei i maturi e toccanti Blur di The Ballad Of Darren.
Tutte da esplorare le altre liste, anche ricorrendo alla playlist citata prima, da quella dei Runners (molti titoli avrebbero potuto finire ipoteticamente in Top 20), a quella delle ristampe/live/archivi, nella quale figurano album imperdibili come il “nuovo” Sparklehorse (che chiaramente sarebbe stato tranquillamente in Top 20), l’incredibile live dei Sonic Youth e tutto ciò che segue (sapendo di aver lasciato fuori un mondo di robe).
Mi soffermo invece sugli italiani. Il personaggio dell’anno, qui, sarebbe idealmente Valentina Magaletti, protagonista in diversi dischi e progetti (Vanishing Twin, VZ, Holy Tongue, Better Corners, per stare ai principali) tutti invariabilmente ottimi e da sentire. Il mio disco dell’anno, però, è in questo caso il doppio La mia falsa identità del cantautore milanese Paolo Saporiti, un autore da sempre personale, profondo, classico ma aperto alla sperimentazione, che qui ha toccato uno dei vertici, forse il, della sua ormai ricca produzione. A seguire la sempre brava e, in questo caso, più psichedelica che mai, Emma Tricca; le rivelazioni Daniela Pes e Massimo Silverio; le conferme di Cigno, Marta Del Grandi, San Leo e Leatherette, due grandi live da parte di Iosonouncane (uno dei due con Paolo Angeli), il grandissimo, nuovo disco dei Bachi Da Pietra. E molto altro ci sarebbe stato.
In chiusura, in quanto spettatore seriale di concerti, anche una lista di live che hanno lasciato un segno, con i Wilco sopra tutti, spettacolari al Todays di Torino e autori nel 2023 anche dell’ottimo Cousin, prodotto da Cate Le Bon.
Film, libri? Avrei potuto anche scriverne, ma direi che per quest’anno mi sono dilungato anche troppo. Buon 2024 a tutti!!
Lino Brunetti
DISCO DELL’ANNO LANKUM – FALSE LANKUM
TOP 20 1. PJ HARVEY – I INSIDE THE OLD YEAR DYING 2. KARA JACKSON – WHY DOES THE EARTH GIVE US PEOPLE TO LOVE? 3. FIRE! ORCHESTRA – ECHOES 4. BIG|BRAVE – NATURE MORTE 5. ALGIERS – SHOOK 6. ANOHNI & THE JOHNSONS – MY BACK WAS A BRIDGE FOR YOU TO CROSS 7. REVEREND KRISTIN MICHAEL HAYTER – SAVED!!! 8. THE NECKS – TRAVEL 9. L’RAIN – I KILLED YOUR DOG 10.THE CLIENTELE – I AM NOT THERE ANYMORE 11. ØXN – CYRM 12. YO LA TENGO – THIS STUPID WORLD 13. WEDNESDAY – RAT SAW GOLD 14. BLUR – THE BALLAD OF DARREN 15. JAIMIE BRANCH – FLY OR DIE FLY OR DIE FLY OR DIE ((WORLD WAR)) 16. AYA METWALLI & CALAMITA – AL SAHER 17. MITSKI – THE LAND IS SO INHOSPITABLE AND SO ARE WE 18. MELANIE DE BIASIO – IL VIAGGIO 19. KALI MALONE – DOES SPRING HIDE ITS JOY 20. SWANS – THE BEGGAR
RUNNERS (in ordine sparso) 21. MURDER CAPITAL – GIGI’S RECOVERY 22. SANAM – AYKATHANI MALAKON 23. WILCO – COUSIN 24. VANISHING TWIN – AFTERNOON X 25. GOAT (JP) – JOY IN FEAR 26. ANIMAL COLLECTIVE – ISN’T IT NOW? 27. LONNIE HOLLEY – OH ME OH MY 28. GOAT – MEDICINE 29. SUFJAN STEVENS – JAVELIN 30. GRIAN CHATTEN – CHAOS FOR THE FLY 31. ROBERT FORSTER – THE CANDLE AND THE FLAME 32. BAR ITALIA – TRACEY DENIM 33. THE WAEVE – THE WAEVE 34. ALL HANDS_MAKE LIGHT – DARLING THE DAWN 35. NATURAL INFORMATION SOCIETY – SINCE TIME IS GRAVITY 36. ME LOST ME – RPG 37. BONNIE “PRINCE” BILLY – KEEPING SECRETS WILL DESTROY YOU 38. BLACK COUNTRY, NEW ROAD – LIVE AT BUSH HALL 39. BLONDE REDHEAD – SIT DOWN FOR DINNER 40. ROSE CITY BAND – GARDEN PARTY 41. ANNA B SAVAGE – IN|FLUX 42. QUASI – BREAKING THE BALLS OF HISTORY 43. MATANA ROBERTS – COIN COIN CHAPTER 5: IN THE GARDEN 44. IRREVERSIBLE ENTANGLEMENTS – PROTECT YOUR LIGHT 45. MODERN NATURE – NO FIXED POINT IN SPACE 46. WATER FROM YOUR EYES – EVERYONE’S CRUSHED 47. DOROTHY MOSKOWITZ & THE UNITED STATES OF ALCHEMY – UNDER AN ENDLESS SKY 48. MATT ELLIOTT – THE END OF DAYS 49. SAM BURTON – DEAR DEPARTED 50. BOYGENIUS – THE RECORD
ITALIA 1. PAOLO SAPORITI – LA MIA FALSA IDENTITÀ 2. EMMA TRICCA – ASPIRIN SUN 3. DANIELA PES – SPIRA 4. CIGNO – NADA! NADA! NADA! 5. MARTA DEL GRANDI – SELVA 6. MASSIMO SILVERIO – HRUDJA 7. BACHI DA PIETRA – ACCETTA E CONTINUA 8. IOSONOUNCANE – QUI NOI CADIAMO VERSO IL FONDO GELIDO/JALITAH (con Paolo Angeli) 9. SAN LEO – AVES RARAS 10. LEATHERETTE – SMALL TALK
RISTAMPE/LIVE/ARCHIVI 1. SPARKLEHORSE – BIRD MACHINE 2. SONIC YOUTH – LIVE IN BROOKLYN 2011 3. AA. VV. – BLANK GENERATIONS: A STORY OF U.S./CANADIAN PUNK & ITS AFTERSHOCKS 1975-1981 4. CAT POWER – SINGS DYLAN: THE 1966 ROYAL ALBERT HALL CONCERT 5. PHAROAH SANDERS – PHAROAH 6. THE JESUS & MARY CHAIN – SUNSET 666 7. THE BREEDERS – LAST SPLASH 8. MYRIAM GENDRON – NOT SO DEEP AS WELL 9. GARETH LIDDIARD – STRANGE TOURIST 10. J.T. IV – THE FUTURE
CONCERTI 1. WILCO al Todays, Torino 2. KING GIZZARD & THE LIZARD WIZARD all’Alcatraz, Milano 3. MURDER CAPITAL all’End Of The Road, UK 4. BIG|BRAVE al Gagarin, Busto Arsizio 5. LANKUM al Beaches Brew, Ravenna 6. BILL ORCUTT QUARTET a Le Guess Who?, Utrecht 7. ALAN SPARHAWK a Le Guess Who?, Utrecht 8. WILL SHEFF/OKKERVIL RIVER all’Arci Bellezza, Milano 9. UNWOUND al Primavera Sound, Barcellona 10. GOAT (JP) al Magazzino sul Po, Torino
Per quanto mi riguarda il 2023 non è stato un anno spettacolare dal punto di vista musicale. Intendiamoci: tantissime uscite (come al solito), tanti ottimi dischi e numerosi ascolti, ma forse i dischi da ricordare e che sai rimarranno dentro di te per tanto tempo non sono stati così tanti e probabilmente non è apparso niente di veramente memorabile all’orizzonte.
Partiamo dalla musica italiana, sempre viva e pulsante: metterei in primo piano gli Shores Of Null che con il loro The Loss Of Beauty hanno portato nuovamente a compimento un grande album dal respiro internazionale di musica black metal, doom e anche altro. Poi c’è stato il ritorno in grande spolvero degli Isaak, Hey è una botta stoner a metà strada tra classico ed innovazione muovendosi su linee psichedeliche di grande impatto e attualizzando il tutto con una valangata di groove, che tradotto vuol dire attitudine: ne hanno da vendere. I Bosco Sacro di Gem hanno una sorta di spiritualità, nascosta tra i boschi evocati dal gruppo, un suono sinistro che si ricollega alla natura ma che è anche in grado di donarci aperture musicali meravigliose, occult rock gotico.
Passiamo al noise dei Turin Horse, Unsavory Impurities che vanno a finire esattamente là dove ci sono i santini degli Unsane sullo scaffale dei dischi. C’è la ventata d’aria fresca dei Malclango, Sparagazzarre, incredibile mischione di Shellac, Battles e follia. C’è Urlo degli Ufomammut con il suo progetto The Mon, Eye, che viaggia in una dimensione oscura, nel quale la luce sembra filtrare solo attraverso piccolo spiragli aperti in una densa foresta di alberi secolari. Anche gli ambiziosi Ananda Mida con Reconciler hanno dato forma a melodie psichedeliche fatte di liquide visioni ancestrali, inserti di metallico hard rock, stoner rock trasversale, robuste dosi di folk, senza disdegnare (anzi, tenendolo come filo conduttore del tutto) una sorta di doom evocativo e sulfureo. Punk misto all’hardcore e a un certo retrogusto new wave quello dei Fever, Cupio Dissolvi. Marthe, Further in Evil, metal, doom e rimandi al black metal senza disdegnare incursioni nel post metal.
In ambito internazionale segnalo i Gel, Only Constant forse il miglior disco hardcore dell’anno; i Khanate, To Be Cruel, pesantissimo noise al rallentatore; The Brian Jonestowne Massacre, The Future Is Your Past, mai niente di banale da Anton Newcombe; Cultura Tres, Camino De Brujos, che riportano in alto il thrash vecchia scuola. Poi ci sono i punk rockers britannici Grade 2, con l’omonimo disco, che donano ancora luce al genere quando l’approccio è di questo tipo, un disco fresco, frizzante, potente e divertente, tutto quello che dovrebbe essere un disco di punk suonato ai giorni nostri; i Poison Ruïn, Härvest, scuri e volutamente sporchi, una registrazione che sembra fatta con i suoni degli anni ottanta (e ci sta alla grande) che dona ulteriore fascino all’operazione, tra Misfits, Dead Kennedys.
Godflesh, Purge, come al solito il loro ritmo e la loro attitudine sanno essere leggeri quanto un caterpillar lanciato a tutta velocità. Baroness, Stone, grande disco di stoner spurio, nel quale la band si riappropria del loro sound migliore, strofe sospese su riff adrenalici, hard rock, e una musicalità che solo loro riescono ad avere. Sempre tra i miei ascolti i Full Of Hell qui con Primitive Man, rumoristi noise di grandissimo impatto. Big Brave, Nature Morte, disco bellissimo e visti dal vivo sono una forza della natura, un climax completo, un’esperienza trascendentale. Non possono mancare i giapponesi Boris, Bright New Disease che con gli Uniform mettono in campo una delle collaborazioni più interressanti che siano state fatte da parecchio tempo a questa parte. Rispetto incodizionato per gli Oxbow, Love’s Holiday, troppo rumorosi per i fighetti indie, troppo molli per i duri di cuore. E invece loro hanno sempre sfornato grandi canzoni e questo nuovo disco ne è l’ennesima conferma.
Non posso non segnalare lo splendido live dei Sonic Youth, Live in Brooklyn 2011, registrato all’alba del loro scioglimento, concerto che abbandona le loro canzoni più popolari per abbracciare 17 anni di delirio sonico. Mykur, Spine, folk nordico etereo e sognante che si mescola abilmente a sfuriate metalliche che a volte sconfinano (quasi) nel black metal. Arabrot, Of Darkness And Light,come al solito pervasi da quel tocco sinistro e angosciante che hanno sempre portato avanti come loro marchio di fabbrica, una capacità di creare tensione anche quando questa non dovrebbe esistere. Grandissimi.
Infine per me la sorpresa dell’anno, Ragana, Desolation’s Flower, le loro melodie sono tanto cangianti quanto portate all’estremo, una dicotomia che le Ragana sanno maneggiare nel modo migliore. I sette pezzi che compongono l’album sono mediamente lunghi e costruiti su momenti di noise ambientale, rallentamenti doom e accelerazioni furiose che non lasciano scampo. Bellissimo.
Per ultimo una considerazione: vedo che sul web, nei vari siti musicali o in gruppi che raccolgono appassionati di musica (ne frequento di vari generi) c’è sempre più una radicalizzazione a difendere i propri gusti e le proprie opinioni (e ci mancherebbe), ma che con giudizi assolutistici negano o zittiscono, addirittura deridono, i gusti musicali di altre persone. Questa cosa mi da sempre più fastidio, ormai non rispondo più perché interloquire con questi personaggi è come andare a sbattere la testa contro un muro, però la trovo una cosa veramente deprimente. Discutere di musica e con opinioni diverse è sempre bellissimo ma odiarsi è insultarsi perché a uno piacciono i Pink Floyd mentre all’altro gli Slayer mi sembra veramente triste e da idioti.